“La guerra civile in Libia. Dalla caduta di Gheddafi al governo Draghi (2011-2021)” di Sofia Cecinini

Dott.ssa Sofia Cecinini, Lei è autrice del libro La guerra civile in Libia. Dalla caduta di Gheddafi al governo Draghi (2011-2021) edito da Carocci: come si è giunti alla caduta del regime di Gheddafi?
La guerra civile in Libia. Dalla caduta di Gheddafi al governo Draghi (2011-2021), Sofia CecininiPer rispondere a questa domanda occorre prendere in considerazione sia il contesto libico allo scoppio della rivoluzione, sia il contesto internazionale. Sul piano interno, quando le proteste irruppero nelle principali città libiche, il 15 febbraio 2011, la maggior parte degli esperti non aveva previsto che la Libia sarebbe stata investita da sollevazioni popolari simili a quelle che erano scoppiate nei mesi precedenti in Tunisia e in Egitto. Era opinione diffusa che Gheddafi avrebbe mantenuto la stretta sul potere, grazie al suo regime repressivo. Contrariamente a queste aspettative, sulla scia dei tumulti nei Paesi vicini, a partire dal gennaio 2011, anche in Libia cominciò a montare il malcontento popolare che, nel giro di un mese e mezzo, sfociò in rivolte vere e proprie. L’escalation governativa fu molto veloce: in pochi giorni, le forze del regime passarono dall’utilizzo di armi non letali all’artiglieria pesante ai bombardamenti contro le postazioni dei ribelli. Alla metà di marzo, Gheddafi aveva riacquistato il controllo di quasi tutte le aree precedentemente sottratte al suo regime e, entro la fine del mese, sarebbe riuscito a riappropriarsi anche di Bengasi, ultima roccaforte dei ribelli, dove ormai questi erano in ritirata per la mancanza di armi. Tutta la documentazione a nostra disposizione, dunque, induce a ritenere che, se la NATO non fosse intervenuta, Gheddafi avrebbe sedato le proteste con successo. Il suo regime, di fatto, è stato abbattuto dall’intervento militare della NATO. Sul piano internazionale, il leader libico era ormai considerato un pericoloso destabilizzatore, molto più interessato a promuovere la guerra che la pace. Le rivolte furono l’occasione propizia per la comunità internazionale di intervenire contro Gheddafi e rovesciare il suo regime.

Quale periodizzazione del conflitto è possibile distinguere?
Nel libro ho proposto una periodizzazione del conflitto in quattro fasi. La prima, denominata “il periodo dei fallimenti elettorali”, ha inizio nell’ottobre 2011, quando termina l’intervento della NATO, e si conclude il 25 giugno 2014, data delle elezioni in cui gli islamisti vennero sconfitti dai moderati. In questo lasso di tempo, la Libia ha fallito nel tentativo di avviare un processo di democratizzazione, nonostante le speranze iniziali del post-intervento. La seconda fase, o “periodo del collasso”, è compresa tra l’agosto 2014 e il 17 dicembre 2015, data della firma dell’accordo di Skhirat, che ha dato vita al Governo di accordo nazionale (GNA) con a capo Fayez al-Serraj. In questo periodo, la perdurante instabilità libica, oltre alla formazione di due governi rivali, ha portato alla crisi migratoria nel Mediterraneo e all’ascesa dell’ISIS in Libia. La terza fase o “periodo della rivalità tra Haftar e al-Serraj”, ha inizio il 30 marzo 2016, con l’insediamento del GNA nella capitale, e giunge fino all’offensiva del generale Khalifa Haftar contro Tripoli del 4 aprile 2019. Questa fase – la più importante per comprendere come si è arrivati alla situazione odierna – è caratterizzata dalla formazione di due schieramenti internazionali a sostegno dei governi rivali in Libia, dal disimpegno di Trump nei confronti del Paese e dalle diverse iniziative internazionali organizzate per cercare di riavviare il processo di democratizzazione. La quarta fase del conflitto libico, che ho chiamato “l’inversione degli equilibri”, ha inizio con l’intervento della Turchia in Libia al fianco del GNA, nel novembre 2019, e si protrae fino alla formazione dell’attuale Governo di Unità Nazionale (GNU), governo transitorio incaricato di traghettare la Libia verso le elezioni del prossimo 24 dicembre.

Quali diversi schieramenti si confrontano nel paese nordafricano?
Fino alla formazione del GNU, nel febbraio 2021, il Paese era diviso tra due schieramenti principali: da una parte il governo di Tripoli, ovvero il GNA di al-Serraj; dall’altra parte il governo di Tobruk, sostenuto dal generale Haftar e dal suo Esercito Nazionale Libico (LNA). Entrambe le parti godevano del sostegno di una pluralità di attori libici, dai gruppi armati alle milizie ad alcune frange estremiste riconducibili all’ISIS. Nello specifico, sul piano interno, il GNA è stato sostenuto da tre reti politiche – la “rete di Suq al Juma”, la rete intorno all’ex ministro della Difesa, Mehdi Bargathi, e la rete dei sindaci – e da quattro macro-gruppi armati, tutti appartenenti all’universo salafita – le Special Deterrence Forces (SDF), le Tripoli Revolutionaries Battalion (TRB), il Nawasi Battallion e la Abu Salim Unit. Occorre precisare che, a differenza del governo di Tobruk, che disponeva dell’LNA di Haftar, il GNA non ha mai potuto contare su un esercito omogeneo. Al contrario, i gruppi armati legati al governo di al-Serraj, in più occasioni, si sono combattuti tra di loro. Basti pensare agli scontri tra due coalizioni di milizie, entrambi sostenitrici del GNA, che hanno scosso Tripoli tra l’agosto e il settembre 2018, e ancora, successivamente, nel gennaio 2019. Ad oggi, nonostante la formazione del GNU a febbraio 2021, persistono le tensioni con la Camera dei Rappresentanti di Tobruk che, il 21 settembre, ha sfiduciato il nuovo esecutivo. Da parte sua, il premier Dbeibah ha respinto la decisione del Parlamento libico, dichiarando che il suo governo continuerà i lavori fino alle elezioni di dicembre.

Che ruolo ha avuto il nostro Paese nella crisi libica?
In questi dieci anni di conflitto, l’Italia ha portato avanti una strategica basata su tre principi guida, che non sono mutati, nonostante il continuo mutare del contesto libico. Il primo principio è stato il rifiuto di qualunque tipo di intervento militare, poiché il nostro Paese è impossibilitato tanto dall’art. 11 della Costituzione, quanto dalla legge 9 luglio 1990, n. 185, che vieta ai governi italiani di vendere armi ai paesi coinvolti in un conflitto armato. Il supporto italiano al governo di Tripoli si è concretizzato nell’Operazione Ippocrate, avviata il 14 settembre 2016 e conclusa il 31 dicembre 2017, ma che poi è stata riconfigurata dal primo gennaio 2018 nell’ambito della Missione bilaterale di assistenza e supporto (MIASIT), ancora in corso. Il secondo principio è stato il dialogo con tutte le parti. Nonostante l’appoggio ufficiale al governo di Tripoli, l’Italia, negli anni, ha sempre cercato di mantenere buoni rapporti anche con Haftar, come dimostrano i numerosi incontri degli ufficiali dei governi italiani con il generale libico. Il terzo principio guida della strategia italiana in Libia è stato la collaborazione in ambito migratorio. Dal momento che, in seguito alla caduta di Gheddafi, la Libia è divenuta il primo porto di partenza del Mediterraneo, l’Italia, essendo per posizione geografica il primo porto di arrivo, ha cercato di collaborare con gli esecutivi libici che si sono succeduti dal 2012 a oggi, addestrando la Guardia Costiera libica. La realtà è che l’attivismo militare degli altri paesi ha relegato l’Italia in secondo piano e, allo stesso modo, le iniziative diplomatiche italiane, come la conferenza di Palermo del 12-13 novembre 2018, non sono riuscite a rilanciare fino in fondo il ruolo dell’Italia. Se è vero che il nostro Paese non ha mai inviato armi in Libia, è altrettanto vero che, nel corso di questi dieci anni di caos, i legami economici tra i due Stati sono rimasti ben saldi, grazie soprattutto alla presenza di Eni, che ha sempre portato avanti le proprie attività.

Quali scelte strategiche hanno compiuto in Libia gli USA?
Innanzitutto, occorre tenere presente che, nell’arco dei dieci anni di guerra civile, si sono succedute ben tre diverse amministrazioni americane. Obama, che allo scoppio della guerra civile in Libia era nel bel mezzo del suo primo mandato, nonostante l’indugio iniziale, fu uno dei principali fautori dell’intervento militare. In seguito alla caduta di Gheddafi, Obama si oppose poi a un impegno in Libia, sostenendo che i paesi europei sarebbero dovuti subentrare alla guida del processo di democratizzazione. Una volta insediatosi alla Casa Bianca (gennaio 2017), Trump mantenne la politica di appoggio al GNA e al processo di pace dell’Onu avviati da Obama, ritenendo a sua volta che la Libia fosse un “problema” dell’Europa. Tuttavia, nel giro di due anni, capovolse la sua posizione e, nell’aprile 2019, approvò l’offensiva del generale Haftar contro Tripoli, spiazzando l’Italia e l’intera comunità internazionale. Adesso l’amministrazione Biden sembra aver inaugurato il ritorno del protagonismo americano in Libia, con il generale Stephen Townsend, capo dell’AFRICOM, e Richard Nordland, ambasciatore americano in Libia e altresì inviato speciale a Tripoli, che hanno colloquiato le autorità libiche ad interim e, per la prima volta, con i membri del comitato militare 5+5, formato da esponenti dell’LNA e dell’ex governo di Tripoli. Nell’occasione, i funzionari americani hanno sottolineato l’importanza delle elezioni del 24 dicembre, fondamentali, a detta di Washington per il progredire del processo democratico.

Che ruolo hanno avuto gli altri attori internazionali, come Egitto, Russia, Francia, Arabia Saudita, Turchia, Qatar ed Emirati Arabi Uniti?
L’influenza internazionale e regionale ha avuto un ruolo cruciale sia nell’evoluzione delle rivolte contro Gheddafi sia negli eventi più recenti, tanto da poter parlare di una vera e propria “internazionalizzazione” del conflitto libico. Intorno ai due esecutivi rivali, a partire dal 2016, si affermarono due blocchi di paesi: il primo, a sostegno del governo di Tripoli, inizialmente, era formato soltanto dall’Italia e dal Qatar, a cui si è aggiunta, nel novembre 2019, la Turchia; il secondo, a sostegno del governo di Tobruk, e quindi del generale Haftar, era composto da un numero molto più grande di Stati, quali Francia, Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, a cui dobbiamo aggiungere, con un ruolo minore, Giordania, Sudan e Siria. Ad eccezione dell’Italia che, come abbiamo visto sopra, non ha mai inviato armi, la maggior parte degli altri Stati di entrambi i blocchi o ha violato l’embargo o ha finanziato una delle due parti libiche per procurarsi l’artiglieria. La Russia e la Turchia hanno persino inviato mercenari, ancora oggi, in parte, presenti in Libia. La Turchia è stata l’attore che ha ribaltato gli equilibri del conflitto, permettendo alle forze di al-Serraj di respingere l’offensiva di Haftar. Inoltre, attraverso gli accordi conclusi con il GNA nel novembre 2019 – di cui uno sulla ridefinizione delle frontiere marittime arbitrarie tra Libia e Turchia – Ankara si è inserita nello scacchiere più ampio del Mediterraneo orientale, sconvolgendo anche gli equilibri di quell’area. Proprio il memorandum sulla ridefinizione dei confini marittimi concluso con Tripoli, tutt’oggi in vigore, costituisce il pilastro della strategia navale a lungo termine della Turchia, volta a rendere Ankara la principale potenza regionale nel Mediterraneo.

Quali sono i possibili scenari a breve termine del conflitto?
La stabilità della Libia dipende da numerose variabili interconnesse. Tra queste le più urgenti sono l’unità politica, il ritiro delle forze straniere, la riforma del sistema della sicurezza per inquadrare le milizie ed i gruppi armati, il controllo e la messa in sicurezza dei confini, il miglioramento delle condizioni economiche della regione del Fezzan, fondamentale per contrastare la fitta rete dei traffici illegali che trova nei confini meridionali il principale punto di entrata in Libia. Data la fluidità della situazione, è molto difficile fare previsioni sul futuro del Paese. Tuttavia, sulla base degli ultimi sviluppi interni, possiamo provare a delineare due scenari politici di breve termine. Il primo scenario è che le elezioni del 24 dicembre si svolgano regolarmente. Il secondo scenario di breve termine è quello opposto, cioè che le parti in conflitto facciano saltare la tabella di marcia dell’Onu. Purtroppo, questo secondo scenario, certamente il meno gradito all’Italia, sembra essere diventato più concreto da quando l’Alto Consiglio di Stato ha respinto la legge per le votazioni legislative approvata il 4 ottobre dalla Camera del Rappresentati. Tale legge, oltre alla formazione di un Parlamento unicamerale, prevedrebbe la separazione delle elezioni presidenziali da quelle legislative, con quelle presidenziali da tenersi il 24 dicembre, e quelle legislative da tenersi trenta giorni più tardi, andando contro la roadmap dell’Onu.

Sofia Cecinini è coordinatrice dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss. È autrice di Le Sanguinarie, storie di donne e di terrore (Luiss University Press 2018), e La guerra civile in Libia. Dalla caduta di Gheddafi al governo Draghi 2011-2021 (Carocci 2021).

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