“La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose” di Silvia Ferrara

Prof.ssa Silvia Ferrara, Lei è autrice del libro La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose edito da Feltrinelli: come nasce una scrittura?
La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose, Silvia FerraraQuesta è una tra le domande più difficili. Come nasce il simbolo, l’astrazione? Come si materializza e rende tangibile la creatività e fantasia umana? Che cosa spinge gli esseri umani a inventare? La scrittura è parte di questa grande domanda, perché è un fenomeno creato dall’uomo, non è naturale come il linguaggio. È un gadget culturale, va imparato e trasmesso. La risposta quindi è complessa, e non è certo perentoria. Però si può dire che tutte le scritture inventate da zero hanno in comune un sostrato, un fondamento iconico, figurativo, legato alle immagini. Dal Paleolitico a oggi, gli esseri umani giocano con le immagini, danno loro un nome, le indicano, le differenziano. Ma non tutte le icone diventano scrittura. L’invenzione della scrittura non è un processo repentino e istantaneo, né un esperimento fatto a tavolino, ma è un progressivo, graduale, centellinato processo di selezione di segni, che poi si incanalano verso un repertorio, grafico chiuso, limitato, scelto e concordato, cioè una scrittura vera e propria.

Quante volte la scrittura è stata inventata nella storia del mondo?
Fino a circa una generazione fa, si pensava che la scrittura fosse stata inventata una sola volta nella storia del mondo, in Mesopotamia circa seimila anni fa. Ora la nostra visione è molto cambiata, e riusciamo a vedere almeno quattro invenzioni, in aree e periodi diversi, in Mesopotamia, Egitto, Cina e Mesoamerica (Messico moderno). Ma il numero preciso non è ancora stato stabilito con certezza, e potremmo postulare che altre invenzioni, indipendenti e originali, abbiano avuto luogo. Per esempio, nella valle dell’Indo, e sull’isola di Pasqua in mezzo al Pacifico. Queste due scritture sembrano essere state inventate da zero, ma il verdetto non è ancora sicuro. Sondare questi misteri è uno degli obiettivi di INSCRIBE Invention of Scripts and their Beginnings, un progetto di cinque anni che ha vinto un finanziamento della Commissione Europea (https://site.unibo.it/inscribe/en). INSCRIBE adotta una prospettiva multi-disciplinare per investigare, attraverso la linguistica, l’archeologia, l’antropologia e le scienze cognitive, quando, come e perché è stata inventata la scrittura nel mondo. Applichiamo anche strategie di decifrazione alle scritture ancora indecifrate, come quelle dell’Egeo di quattromila anni fa, e il rongorongo dell’isola di Pasqua.

Quando compaiono le prime scritture?
Fino a quarant’anni fa si era certi di una sola invenzione in tutta la storia umana. Questa convinzione era così radicata che fu battezzata con un nome altisonante e reboante nel suo convinto creazionismo: monogenesi. L’invenzione è una e non si accettano altre spiegazioni. Se provate a fare un tuffo nel vostro, di passato, sono sicura che, questa versione autoritaria degli eventi vi suonerà famigliare, e vi sovverrà una vaga memoria proustiana, delle scuole elementari o delle medie, sulla Mesopotamia e il cuneiforme come prima e unica invenzione di scrittura, dalla quale tutte le altre discendono.

In quarant’anni, però, la visione è molto cambiata, e l’idea di un’unica invenzione in tutto il mondo è meno categorica. Le iscrizioni in Mesoamerica, decifrate gradualmente dagli anni 70 in poi, ci consegnano una chiara invenzione senza influenza esterna, anche se la teoria che i segni iconici dei maya potessero essere una scrittura a pieno titolo è dovuta passare al vaglio poco convinto dei monogenetisti. Come potevano quei disegni amerindi, così eterogenei, così fantasiosi, esser comparati ai perfetti e stilizzati cunei dei segni mesopotamici, la vera culla della civiltà?

Nella scienza come nella vita, se si trovano almeno due casi certi, è contemplabile che ve ne siano anche altri. I dati per l’Egitto non solo sono quasi contemporanei a quelli per la Mesopotamia (inizio del quarto millennio a.C.), ma sono, da quel che sembra, probabilmente precedenti, anche se di poco. Allora anche l’Egitto potrebbe aver creato, autonomamente e senza impulso esterno, un sistema di scrittura da zero, forse anche prima del cuneiforme. E la Cina, anche se più tardi, alla fine del secondo millennio a.C., inventa un sistema tutto nuovo, completamente diverso dall’egizio o dal mesopotamico.

Quattro invenzioni, ormai quasi certe. Ma ce ne potrebbero essere anche altre? La risposta non è definitiva, ma è probabile che ce ne siano. Le abbiamo già menzionate. L’isola di Pasqua potrebbe aver creato il rongorongo da sola e senza influenza dagli europei conquistatori. E la valle dell’Indo, che sviluppa una ‘scrittura’ Harappa, molto ripetitiva e formulare. Però, su quest’ultima, il dibattito si muove sul filo della discordia, perché è ancora in dubbio lo status definitivo di scrittura in senso stretto.

Quante sono ad oggi nel mondo le scritture antiche indecifrate?
Nel mondo oggi esistono una dozzina di scritture indecifrate. Dalla più antica, della Valle dell’Indo e quella proto-elamita (Iran moderno), alla più recente, il manoscritto di Voynich di epoca rinascimentale. In questo grande lasso di tempo ce ne sono altre: la scrittura di Biblo, le prime scritture mesoamericane (epi-olmeca e zapoteca), i khipu inca, e le quattro scritture indecifrate dell’Egeo del secondo millennio a.C., il geroglifico cretese, la lineare A, il disco di Festo e il cipro-minoico. Queste sono le prime scritture europee, che ancora nascondono le nostre origini linguistiche, nei meandri dei palazzi minoici, e nella cultura cipriota dell’età del Bronzo, impegnata in ricchi commerci di rame con tutto il Mediterraneo orientale. Il rongorongo dell’isola di Pasqua è un’altra scrittura ancora poco leggibile, anche se ne conosciamo la lingua registrata, che è un dialetto polinesiano (‘rapa nui’). Il problema del rongorongo è l’esatto opposto dei problemi che abbiamo con le prime scritture europee: per quest’ultime dobbiamo non solo ricostruire le corrispondenze tra suoni e segni, ma dobbiamo anche ricostruire la struttura morfologica, identificare e riconoscere le lingue sottostanti. Se dovessero essere lingue ormai perdute, sarebbe molto difficile arrivare a una decifrazione definitiva.

Che cosa lega i codici senza soluzione ai confini delle isole?
Le isole sono luoghi particolari. Le isole ci servono come luoghi di evasione, in cui possiamo tornare semplici. Sono posti in cui è facile dimenticare. Nella storia che racconto nel libro, invece, le isole sono l’opposto: strati di società complessa, spesso all’avanguardia, centri sofisticati in cui si sperimenta e si crea. Fulcri attivi in cui si lavora per essere ricordati. Nessun relax. Per questa storia, le isole sono guizzi di creazione e aspirazione, affermazioni di identità. Nelle isole di questo capitolo vige con forza un desiderio profondo, forse comune a tutti noi: dimostrare di essere unici. Non è però un caso che molte scritture ancora indecifrate vengano dalle isole: i confini lambiti dal mare sono spesso una prigione per la cultura.

Quali misteri serba la scrittura cretese?
Essendo misteri, se solo lo sapessimo! L’isola di Creta, quattromila anni fa, sviluppa dei grandi palazzi, e con loro una macchina economica, burocratica e amministrativa complessa. Allo stesso tempo, si sviluppa un altro sistema: una scrittura molto figurativa, iconica, il geroglifico cretese, attestato su sigilli e documenti di argilla. Le iscrizioni sono poche, meno di 500 in tutto. E rimangono ancora illeggibili. La lineare A sembra essere un sistema in parte coevo, e in parte molto simile a livello grafico. Anche questa, attestata su circa 1500 tavolette di argilla, è ancora indecifrata. Il disco di Festo si insinua tra questi due sistemi: un disco di argilla piccolo e fittamente stampato (e non iscritto) con segni stranissimi, disposti a spirale su entrambe le facce. Essendo un oggetto unico e isolato, è indecifrabilissimo. Uno spin-off che deriva direttamente dalla lineare A, il cipro-minoico, non sembra però essere stato usato per l’amministrazione, ma per abbellire oggetti di alto status sociale, con nomi di persone importanti nella società cipriota del tempo, in santuari e industrie legate al rame. Sul cipro-minoico stiamo facendo grandi progressi, e ora siamo in grado di leggere 2/3 dei segni. La strada è lunga per capire quale sia la lingua nascosta, ma forse meno lunga di quel che si pensi.

Quali peculiarità caratterizzano il rongorongo?
La creatività dell’isola di Pasqua si traduce in una cultura visiva strabiliante. La cosa più famosa sono le statue moai, che si stagliano sul panorama come sentinelle per gli abitanti. Le loro spalle e schiene portano simboli incisi, che troviamo, monumentali e grandiosi anche sulle rocce di basalto e lava. Questi petroglifi sono importanti per ricostruire l’arte locale, ma ci aiutano a gettare luce anche su un’altra cosa: la scrittura rongorongo, un sistema ancora indecifrato e molto probabilmente inventato da zero, che si trova inciso su tavolette di legno, tutte incise con fitte, eleganti, sinuose serie di segni.

Le tavolette sono poche e illeggibili, e oggi nessuna è sull’isola. Sono scritte in direzione boustrofedica. Il boustrophedon è la scrittura che ‘segue il percorso del bue’, come dice la parola presa dal greco antico- cioè in senso destroverso e sinistroverso a righe alterne, come in una specie di zig-zag intervallato. Il rongorongo si (e ci) complica la vita ancor di più, perché il suo boustrophedon è inverso: la seconda riga ha i segni capovolti, rispetto alla prima, e quindi la tavoletta va girata di 180 gradi e così via per tutte le righe. In più si inizia a leggere dal basso verso l’alto. Sembra stranissimo, ma la lettura doveva accompagnarsi a una attività ben movimentata. Infatti rongorongo significa, nella lingua locale rapa nui, ‘recitare recitare’. Il che ci suggerisce che questa scrittura non fosse dedicata all’economia, le tasse, o le liste della spesa.

Come nacquero i geroglifici egizi?
È un giorno del 1988, e un archeologo tedesco con il suo team scopre una tomba enorme (la tomba U-j), composta da dodici camere interconnesse. È in mezzo a un cimitero altrettanto grande, ma lei è la più elaborata a livello architettonico, ben posizionata al centro, preminente. Il luogo è nei paraggi di Abido, e la necropoli si chiama Umm El Qaʻāb, la madre dei vasi in arabo, dai milioni di cocci di ceramica sparsi ovunque. È l’Egitto predinastico, e nelle tombe di Abido ci sono centinaia di tracce di altro, ancora più importante: un primo, anche se controverso, abbozzo di scrittura. Circa trecento placchette di avorio piccole come francobolli forate per essere legate con cordini a oggetti come tessuti o borse di cuoio o vasi. I segni delle etichette ci ricordano (in parte) i geroglifici egizi che troveremo a iosa nei periodi successivi.

Le placchette di avorio della tomba U-j di Abido hanno simboli sparsi e sequenze di segni brevissime, ma sono numerose. I segni incisi riportano forme di animali, piante, uomini e montagne, ma anche segni lineari e geometrici. Alcuni segni sembrano formare una specie di narrativa, tra cui è stato finanche suggerito un sacrificio umano. Queste rappresentazioni sono strane, perché anche se alcuni simboli richiamano il geroglifico dei periodi successivi, lo stesso non si può dire per tutte gli altri, che non hanno paralleli. Come dovremmo leggerle? Siamo di fronte a scrittura vera e propria? Inizia davvero qui, l’invenzione? Il dibattito è ancora aperto, e la posta in gioco è altissima, perché se le testimonianze dalla tomba U-j dovessero rappresentare scrittura vera e propria, allora dovremmo rivisitare la visione tradizionale, radicata negli anni, impartita nelle scuole, trasmessa di generazione in generazione, dell’invenzione della scrittura. E la Mesopotamia verrebbe scalzata dal podio, non più la numero uno, non più la prima nell’invenzione della scrittura. Cambierebbe la classifica.

Come si decifra una scrittura?
Nel libro parlo di cinque pezzi facili, più uno, il sesto e il più difficile, che rappresentano i passaggi logici e di metodo da intraprendere nella decifrazione. Ognuno di questi rappresenta un passaggio in una ben definita catena analitica, come se fosse un mobile IKEA da montare. Nessuna decifrazione è plausibile se nella guida ‘come si monta’ manca un passaggio, o se i pezzi non si collegano gli uni con gli altri.

Passaggio 1. Inventario dei segni. Guardiamo le iscrizioni di una scrittura, prendiamo tutti i segni attestati e da questi estraiamo un inventario, un repertorio. Chiamiamolo alfabeto, ma potrebbe essere un sillabario (probabile), con una serie, numerosa o meno, di logogrammi (molto probabile). Una volta costruito il repertorio, dal numero capiremo subito se è l’uno o l’altro, o l’altro ancora. Se i segni sono più di cinquanta, la scrittura in questione è sicuramente un sillabario. Il sillabario con il numero più basso di segni nel repertorio è il Cree degli aborigeni canadesi (45), seguito dal sillabario cipriota classico (55). Se i segni si aggirano sulle centinaia, siamo di fronte a un sillabario complesso, probabilmente con un’orda barbarica di logogrammi.

Mi vengono in mente almeno tre casi di scritture indecifrate per i quali questo primo passaggio è ancora un sentiero minato: il rongorongo, il geroglifico cretese, e il cipro-minoico. La natura del problema è varia, per il rongorongo sono tanti i segni simili tra loro: notano suoni diversi o sono solo variazioni grafiche? L’annoso problema degli allografi, cioè dei segni che hanno una minima variazione nella grafia. Se disegno una R, la posso variare un po’ e farla diventare R, ma registra sempre il suono /r/. Noi abbiamo allenato l’occhio, ma se siamo fuori abitudine, è una differenza difficile da distinguere.

Passaggio 2. Frequenza posizionale dei segni. Il secondo passaggio sembra difficile, ma forse è più semplice del primo. Una volta stabilito l’inventario, dobbiamo capire come sono distribuiti i segni all’interno delle sequenze (‘parole’). Per arrivare a questo si deve prima capire se le parole sono separate l’una dall’altra. Per esempio, nell’antico persiano di Persepoli che ha portato alla decifrazione del cuneiforme, le parole erano chiaramente divise da un cuneo verticale. Ma non è una costante: le iscrizioni greche arcaiche, o latine sono in scrittura continua.

Passaggio 3. Schemi di grammatica. Il terzo step è quello messo in pratica magistralmente da Alice Kober nelle fasi preliminari della decifrazione della lineare B. Kober ha analizzato le parole e le ha scomposte. Ha cercato le radici delle parole, e come si comportavano i suffissi o le desinenze. Ha visto le ripetizioni, e se c’erano schemi coerenti. Ha scomposto e ricomposto, sistematizzando la struttura interna della lingua. Ha fatto un lavoro di dissezione chirurgica.

Il mio gruppo INSCRIBE sta applicando un’analisi simile al cipro-minoico. E lo dico con molta trasparenza: stiamo copiando smaccatamente lo schema logico di Alice, pari-pari. Abbiamo meno fortuna, perché i nostri schemi di ripetizione sono meno frequenti e meno chiari. Abbiamo meno dati (in questo caso la quantità ci farebbe di certo fare il salto di qualità), ma, nonostante queste lacune, siamo riusciti a individuare un numero consistente di nomi propri nelle iscrizioni. In altre parole, conosciamo Tizio e Caio ciprioti e abbiamo un’idea di che cosa facciano nella vita.

Passaggio 4. Concatenazioni tipologiche (‘Network Analysis’). Il quarto passaggio gira tutto intorno al contesto archeologico. Se alcune iscrizioni vengono da una location precisa (per esempio, da un santuario, dunque sono di natura religiosa o votiva) e notano delle sequenze che troviamo anche in altri contesti, o su oggetti di tipologia diversa (per esempio oggetti di funzione amministrativa) possiamo vedere una connessione logica tra i due, e individuare, se siamo fortunati, i temi trattati nei testi. Ci sono nomi di persona? Ci sono toponimi? Ci sono dei logogrammi ripetuti? Ci sono delle quantità specificate attraverso numerali? In questo passaggio l’archeologia si sposa all’epigrafia e allo studio delle iscrizioni. Così possiamo inserire i testi nella sfera del loro uso, per capire a che cosa mai potessero servire. È come suonare gli arpeggi al violino. Ci sono armonie che vengono dalla naturale e intonata concatenazione di suoni.

Passaggio 5. Correlazioni con altre scritture affini. Ultimo passaggio, almeno sui dati crudi. Non sempre è possibile metterlo a buon frutto, perché non tutte le scritture rientrano in famiglie coese; alcuni cani sciolti non seguono il branco e farli rientrare nei ranghi è pressoché impossibile o una forzatura di metodo. Se una scrittura è isolata, possiamo solo constatare che lo è, e studiarla come tale. Ma le altre, quelle che viaggiano in famiglia, con armi e bagagli di segni simili, possono essere studiate nelle loro parentele. Prima di tutto, possiamo capire se ci sono derivazioni, riadattamenti, differenze o somiglianze nella grafia dei segni nel corso del tempo.

Per il cipro-minoico, siamo riusciti, grazie a un ricercatore di INSCRIBE, a ricostruire la sua discendenza diretta dalla lineare A, segno per segno (cosa mai stabilita prima). Possiamo dire oggi con una certa sicurezza, che cipro-minoico è, quindi un fratellastro della lineare B. La ricostruzione di questa discendenza ci dà una mano a leggere anche il cipro-minoico. Insomma, ad arrivare all’ultimo passaggio, quello più delicato, quello decisivo, il vero clou della decifrazione: assegnare suoni ai segni. E su questo il racconto si allungherebbe a dismisura!

Regolarmente viene annunciata la decifrazione del manoscritto Voynich: quali difficoltà presenta la sua decriptazione?
Il manoscritto di Voynich è un libro di 200 pagine, che nessuno ha mai letto. Datato al 15esimo secolo, il manoscritto prende il nome da un mercante di libri polacco, Wilfrid Voynich, che lo comprò nel 1912 a Villa Mondragone, Frascati, dove erano conservati manoscritti rari dei padri gesuiti. Il libro è illustrato con immagini minuziose e fantastiche: fiori e piante chimeriche, silhouette di donne svestite, tripudi di diagrammi alchemici.

A prima vista, le immagini sembrano un’accozzaglia senza coerenza, ma a ben guardare il manoscritto ha una divisione tematica, che tratta di botanica, zodiaco, medicina, farmaci, bagni curativi (da lì le signore nude), ricette. Sembra un’enciclopedia della scienza di allora, un manuale medico quando la medicina era fatta di alchimia, astrologia, foglie, erbe e radici. Che questo fosse il tema è deducibile solo dalle illustrazioni, perché la scrittura, con i suoi caratteri sinuosi e arzigogolati, mai visti in nessun altro testo, è illeggibile. Sembra davvero un codice criptato.

Gli esseri umani hanno sempre cercato sistemi per criptare messaggi: comunicazioni militari, lettere d’amore, segreti di stato. Ci sono vari modi per farlo, dal codice di Giulio Cesare, che usava un metodo semplicissimo di trasposizione sostituendo le lettere secondo un numero fisso di passaggi nella sequenza dell’alfabeto (la ‘a’ diventa ‘b’ e la ‘b’ diventa ‘c’, per esempio), fino ai criptosistemi di oggi, generati da computer super avanzati, come il one-time pad (OTP) che è impossibile crackare. In questo spettro di possibilità di decifrazione, dove sta il manoscritto Voynich?

Sappiamo che il sistema di scrittura è alfabetico, perché l’inventario comprende una trentina di segni in tutto. I caratteri attestati, in totale, invece, sono circa 170.000, inframmezzati da un vero universo, un milione di dettagli grafici. 170.000 caratteri non sono pochi, quindi con i sistemi di decriptazione moderni, decifrare il manoscritto Voynich non è come andare su Plutone. Dovrebbe essere possibile, ma nemmeno le metodologie moderne ci sono arrivate. Come mai?

Spiegare il problema è semplice, è la soluzione del problema a essere difficile. Prendiamo i caratteri, tutti. Vediamo come sono distribuiti. In una lingua naturale qualsiasi, la distribuzione non è mai random: ci sono segni che per forza distributivo-probabilistica appaiono con più frequenza di altri (la zeta versus la a, per dirne una su tutte, valida universalmente). E sempre in una lingua naturale, gli schemi distributivi non sono mai totalmente formulari, la ripetizione non può essere pervasiva o imperante. Nelle lingue naturali le distribuzioni stanno nel mezzo: non troppe formule ripetute, non troppa casualità. È una legge di potenza. Nel manoscritto si ubbidisce a questa legge, si rispettano le regole, la distribuzione è simile all’inglese e al latino. Eppure non c’è una soluzione. Almeno non finché la decifrazione si limiti all’applicazione di analisi computazionale o deep learning, a scapito di quella paleografica. O viceversa. La soluzione potrebbe essere una sinergia di più campi del sapere. Nuove tecnologie e metodo tradizionale, insieme, però.

Quando si arriverà alla comprensione delle scritture ancora indecifrate?
Dipende dalla scrittura in questione. Ogni scrittura è indecifrata a modo suo. Per il disco di Festo o il manoscritto di Voynich le prospettive non sono rosee. Per le altre, ci stiamo lavorando. Speriamo presto!

Silvia Ferrara è professore ordinario di Filologia e civiltà micenea all’Università di Bologna dopo vari anni come ricercatrice in Archeologia e linguistica all’Università di Oxford. Il suo progetto di ricerca ha vinto il Consolidator Grant dell’European Research Council.

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