“La grande illusione. Storie di uno spettatore” di Roy Menarini

Prof. Roy Menarini, Lei è autore del libro La grande illusione. Storie di uno spettatore edito da Mimesis. Il libro contiene il racconto autobiografico di dieci esperienze spettatoriali: in che modo il cinema accompagna le nostre vite e contribuisce alla costruzione della nostra personalità?
La grande illusione. Storie di uno spettatore, Roy MenariniIl cinema è un’arte popolare. È il motivo per cui ancora oggi tutti ne vogliono parlare, irritando magari chi ne ha una concezione sacrale e non vorrebbe che il mezzo fosse così trasversale. Eppure – pur con tutte le trasformazioni che sono avvenute (e che il libro descrive attraverso le esperienze spettatoriali) – tutto sommato la frase “ho visto un film” non è ambigua, non confonde gli oggetti, permette a tutti di capire a che cosa ci si riferisce. Certamente il tema del film visto in sala oppure a casa propria è quello più sentito, ma non è certo una questione recente – almeno per chi si ricorda il grande dibattito sui film in TV interrotti dalla pubblicità. Per non parlare delle VHS e dei DVD, che ben prima delle piattaforme streaming avevano suscitato le preoccupazioni dei cinefili sul futuro del grande schermo. Il tema della strutturazione di un immaginario personale a partire dal cinema investe direttamente l’espressione cinematografica. Tutti gli storici – non solo del cinema ma anche della società – concordano nel concedere al mezzo una capacità straordinaria, almeno per gran parte del secolo scorso, di offrire strumenti esperienziali allo spettatore, di guidarlo attraverso la complessità del mondo, di offrirgli elementi narrativi utili agli schemi di comprensione del prossimo e delle emozioni, oltre a un potere “emancipativo” rispetto a condizioni personali o collettive disagiate. La cinefilia, in questo senso, è una sorta di consapevole illusione che questo potenziale liberatorio e conoscitivo della vita attraverso il cinema possa protrarsi all’infinito.

Nel mio volume parto dall’assunto che l’esperienza personale al cinema sia di per se stessa universale, proprio per l’estrema diffusione di questo linguaggio e di questa consuetudine culturale. Ciascuno di noi potrebbe raccontare le principali esperienze in sala o i ricordi dei film che ha visto, indagando su quanto lo abbiano influenzato o semplicemente interessato. Ecco che in questo caso sarebbe importante capire quanti film visti a casa abbiano avuto lo stesso impatto di un film visto su grande schermo: a livello empirico, mi pare di poter dire che un film visto al cinema ha più probabilità di diventare un culto personale rispetto a un film scoperto sul divano (al contrario, le serie TV mostrano un percorso contrario, e costituiscono lo “specifico domestico” dell’immaginario audiovisivo in grado di cambiare la nostra percezione dell’esperienza artistica).

Quale interesse ha suscitato lo spettatore da parte della teoria del cinema e dei media?
I media hanno scoperto relativamente tardi l’importanza e la complessità dello spettatore. Lo stesso per la teoria del cinema. Si è passati da una sorta di convinzione della passività dello spettatore (comprese le teorie classiche del cinema muto, si pensi a Ejzenstein e all’idea che gli spettatori siano collettivamente il popolo e che si possa per questo motivo fornire loro schemi di comprensione e significato eguali per tutti) a una visione biologica del corpo spettatoriale: le indagini di oltre mezzo secolo fa intorno alla reazione fisiologica dello spettatore sono i prodromi degli studi dello scienziato Vittorio Gallese (insieme a Michele Guerra) sul rapporto tra visione cinematografica e attivazione dei neuroni-specchio – con tutto il coté cognitivo del caso. In mezzo, si sono fatti strada gli studi più legati alla sociologia e all’etnografia dei media. E qui di fatto è emersa la complessità assoluta del corpus dello spettatore. Non solo per la sua singolarità, ma anche per l’importanza del contesto sociale, culturale, identitario, economico, biografico che guida l’esperienza spettatoriale di ciascuno (o di ciascun gruppo identificato da elementi di continuità: per esempio il pubblico del cinema d’essai). Il pubblico ha lasciato allora spazio ai “pubblici”, e in alcuni casi – penso agli studi di Henry Jenkins – si è dimostrato come, con l’avanzare delle nuove tecnologie e delle nostre competenze nel produrre piccoli contenuti mediali e digitali, sono emersi spettatori/fan in grado di produrre e ampliare nuovi significati dei testi consumati come spettatori. Oggi si parla di iper-spettatori, figure in grado di muoversi su tanti diversi vettori mediali, di combinare film visti al cinema e film visti in TV, e di seguire contemporaneamente più narrazioni. Non è raro che uno spettatore contemporaneo sia simultaneamente immerso in universi narrativi molteplici, magari tre serie TV, due romanzi, un fumetto e un videogame, senza rinunciare a un film ogni tanto (per non parlare dei film e delle serie che partecipano a un complesso universo crossmediale, come il Marvel Cinematic Universe). Grazie ai social media, gli spettatori di oggi sono più attivi che mai: hanno la possibilità sia di sostenere economicamente un film facendo pubblicità virale gratuita ai prodotti che amano, sia di rendere la vita difficile a un lungometraggio se le opinioni negative si propagano alla velocità della luce e si trasformano nel cosiddetto “shit storm” in rete.

Come è cambiato il nostro modo di guardare i film?
Una risposta facile sarebbe di concentrarsi sul modo di consumare i film. Per oltre mezzo secolo i film sono stati visti collettivamente in una sala con altri spettatori, poi sono cominciate altre modalità di fruizione domestica e ora solo il 5% delle volte che qualcuno guarda un film lo fa su grande schermo. Oggi vediamo film su PC, su smartphone, in treno, sugli aerei, sui tablet. Film visti a pezzetti, a tranche, con cuffie o senza cuffie, saltando delle parti o guardando solo l’inizio e la fine, e così via. Le piattaforme del resto comunicano i dati di ricezione dei film a partire dal numero di “minuti e ore” di visione, non dal numero di film visti o dal numero di spettatori – e nemmeno da quante volte il film è stato visto per intero. Un film di un’ora e mezza oggi è solo un oggetto mediale che contiene un certo numero di minuti di cui qualcuno vedrà tutto e qualcuno solo una parte. E il secondo caso è il più frequente!

Pur volendo uscire da queste indicazioni di mercato, non credo si possa pensare che tale situazione sia ininfluente rispetto al nostro modo di guardare i film. Il flusso ininterrotto di prodotti audiovisivi e di immagini ha portato a una fruizione distratta e frammentaria (lo dico in maniera oggettiva, senza condanne). È come se ci trovassimo ormai a uno stato “gassoso” del cinema, che si “solidifica” solamente in sala, al buio, rinnovando la liturgia collettiva, altrimenti somiglia a una nebulosa con repertori, archivi, library infinite dove si trova tutto e il contrario di tutto – e in continuo, frenetico aggiornamento. Ecco perché nel mio volume ho cercato di dare priorità alla storia di uno spettatore in sala, come funzione del Novecento e come prassi culturale che a modo suo cerca oggi di trovare nuovi equilibri con il nostro consumo casalingo o mobile.

Roy Menarini è Professore Ordinario di Cinema e Industria Culturale all’Università di Bologna. Collabora a varie riviste, è senior editor di “Cinergie” e coordina “Cinefilia Ritrovata”. Ha scritto numerosi volumi dedicati al cinema contemporaneo, al cinema italiano, alla critica e alle forme della cinefilia. È consulente per festival cinematografici e istituzioni come la Cineteca di Bologna. Ha sviluppato una serie di canali critici (tra cui un podcast e un canale Youtube) coordinati dal sito roymenarini.it.

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