
Tali principi verranno poi confermati e applicati dal Tribunale di Norimberga, che ha affermato che sono gli uomini (gli individui) e non le entità astratte (gli Stati) a commettere i crimini internazionali e che, per questo, vanno puniti.
Quali fattispecie ricadono nella nozione di crimine internazionale?
Le quattro categorie principali di crimini internazionali sono i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e il crimine di aggressione (o crimine contro la pace, nello statuto del Tribunale di Norimberga).
La prima categoria è quella dei crimini di guerra. L’idea di fondo era proprio ribaltare la massima “silent leges inter arma” e affermare che anche durante le guerre (che non sono di per sé vietate) vi sono comportamenti che sono inammissibili e che vanno puniti. Progressivamente si sono sviluppati e oggi essi sono “codificati” in dettaglio nell’articolo 8 dello Statuto della Corte Penale internazionale. I crimini di guerra sono gravissime violazioni di regole del diritto bellico, essi sono relativi a violazioni di regole sulla condotta delle ostilità, sull’uso di armi vietate (proiettili a frammentazione, armi biologiche e chimiche etc…), su atti di violenza o altre violazioni dei diritti di feriti, malati e prigionieri di guerra, nonché delle popolazioni civili. Fino a tempi relativamente recenti (anni ’90) si sosteneva che soltanto nei conflitti armati internazionali trovasse applicazione la categoria dei crimini di guerra. Oggi invece – grazie alla preziosa opera del Tribunali dell’Onu per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda – è stato generalmente accolto il principio per cui i crimini di guerra riguardano anche i conflitti armati interni, cioè le guerre civili.
I crimini contro l’umanità, come categoria giuridica, nascono con la seconda guerra mondiale (benché se ne parlasse già dagli anni 10-20 del 1900, specie a seguito delle violenze commesse contro le popolazioni civili armene in Turchia). Accade che, dopo la seconda guerra mondiale, gli alleati – che avevano deciso di punire i nazisti per le loro malefatte – non sapevano come colpire i crimini commessi dai nazisti contro i propri cittadini (i tedeschi stessi, per es. ebrei, che venivano discriminati ed erano oggetto di violenze). Le norme sui crimini di guerra, infatti, non erano applicabili perché si tratta di reati commessi contro cittadini degli Stati nemici, serviva una nuova categoria. I crimini contro l’umanità riguardano gravi violazioni dei diritti umani contro qualsiasi individuo (straniero o cittadino) e si tratta di una categoria che prescinde dall’esistenza di un conflitto armato (benché in concreto spesso commessa nel corso di conflitti), ciò che rileva è l’emergere di un attacco massiccio o sistematico alla popolazione. La nozione di crimine contro l’umanità colpisce la commissione di gravissime violazioni del diritto internazionale che comportano il disconoscimento dei diritti umani, anche in tempo di pace.
Una speciale sottocategoria dei crimini contro l’umanità è il genocidio. Si tratta in fondo dello stesso tipo di crimine, ma con la specificità di essere diretto ad un obiettivo specifico, la particolare intenzione di mirare attraverso il singolo atto criminoso (omicidio, stupro, deportazione, tortura etc…) alla distruzione in tutto o in parte di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Il crimine in quanto tale non figurava nello Statuto del Tribunale di Norimberga (che nella sua sentenza userà la nozione di crimini contro l’umanità per colpire quel tipo di atti – i forni crematori), ma verrà consacrato nel 1948 nella Convenzione ONU per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio. Con gli atti di genocidio, si vuole colpire in ciascuna vittima individuale un intero gruppo, un intero popolo. La vittima viene individuata per negare, nel violare la vittima, ogni dignità di esistenza a intere categorie (l’idea del ‘subumano’, come lo definivano i testi di propaganda nazista), che divengono oggetto di discriminazioni e violenze di ogni tipo senza alcuna tutela nel sistema nazionale (e così le vittime vengono isolate, offese, denudate, depredate, violentate, private di ogni diritto, deportate e infine sterminate, nell’indifferenza e con la cooperazione di una macchina organizzativa statale o parastatale).
L’ultima categoria è quella del crimine di aggressione. Per inquadrarla è necessario collegarla all’uso illecito della forza armata nelle relazioni internazionali. La creazione della categoria del crimine di aggressione o crimine contro la pace (come lo definiva lo Statuto del Tribunale di Norimberga) inizia già negli anni 20-30 del novecento, con la conclusione del patto Briand-Kellogg del 1928, che vietava di fare ricorso alla guerra come strumento di politica internazionale. Su questa base nel 1945 i Tribunali di Norimberga e di Tokyo daranno un contributo fondamentale punendo i gerarchi nazisti e la leadership giapponese per la guerra di aggressione in Europa e nel Pacifico. Tuttavia, poiché questa categoria criminosa è strettamente legata all’esercizio della sovranità statale, subito dopo la seconda guerra mondiale inizierà un contrasto prolungato tra vari blocchi di Stati (in particolare occidente e blocco comunista) sugli elementi della definizione. Soltanto in tempi recenti si arriva a un accordo. Il passaggio dal livello del divieto interstatuale al crimine individuale è stato lungo e problematico (anche perché gli individui che tipicamente commettono questo crimine sono i vertici politici e militari dello Stato). Nel 1998 lo Statuto di Roma afferma che il crimine di aggressione potrà essere punito da parte della Corte. Ma fino al 2010 si attendeva ancora la definizione precisa e i meccanismi di attivazione della Corte penale internazionale. A Kampala (Uganda), nel giugno 2010, è stato adottato un emendamento integrativo allo Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale, che indica gli elementi essenziali dell’aggressione come crimine dell’individuo, collegandolo a un atto statale di aggressione da parte di uno Stato nei confronti di un altro e identifica nei vertici (politico-militari) dello Stato il novero dei soggetti potenzialmente responsabili (a leadership crime). Rimane – a tutt’oggi – la categoria più controversa e contestata di crimine internazionale, specie perché le grandi potenze (i Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) non sono soddisfatte della definizione adottata e, soprattutto, del fatto che alla Cpi sia stata riconosciuta giurisdizione (sottraendo così al Consiglio di Sicurezza il potere esclusivo di dire quando si è in presenza di un atto di aggressione – accertamento politico e discrezionale da parte del CdS che è stato raramente fatto nei 75 anni trascorsi dall’adozione della Carta ONU).
Quale funzione hanno assolto i vari Tribunali internazionali «ad hoc»?
Una spinta forte alla creazione della Corte penale internazionale e alla codificazione del diritto internazionale penale nello Statuto istitutivo della Corte (lo Statuto di Roma, dal nome della città dove è stato adottato) l’hanno data i tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza negli anni 1993 e 1994 come reazione ai crimini che venivano commessi nel conflitto nell’ex-Jugoslavia e in seguito al genocidio in Ruanda.
Naturalmente tutti i tribunali diversi dalla Corte penale internazionale (che ha una competenza generale) possono essere detti tribunali ad hoc, perché creati per esigenze specifiche di una determinata situazione. Tuttavia i più noti e più importanti, perché hanno fatto la storia del diritto internazionale penale, sono stati quelli di Norimberga e Tokyo dopo la II guerra mondiale e negli anni 90 i tribunali creati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per l’ex-Jugoslavia e per il Ruanda. Questi tribunali, oltre a processare centinaia di imputati per i crimini internazionali, hanno contribuito in modo determinante ad elaborare principi generali e regole che poi hanno dato corpo al sistema ed hanno condotto alla creazione della Corte penale internazionale.
I Tribunali ad hoc delle NU (ai quali oggi è succeduto un meccanismo internazionale per gestire le funzioni residue – per es svolgere alcuni processi in appello, tra i quali quelli contro Karadzic e Mladic accusati principali per il bagno di sangue della guerra in Bosnia, i processi contro i pochi imputati ancora latitanti, il monitoraggio dell’esecuzione delle condanne, la protezione dei testimoni, la preservazione degli archivi, etc…) hanno creato un corpus giurisprudenziale importante, condannato numerosi autori di crimini internazionali, e soprattutto dimostrato che si può fare valere concretamente la responsabilità penale individuale. Certo si sono anche rivelati costosi, in alcuni casi poco efficaci e efficienti, creato qualche problema nelle relazioni tra la comunità internazionale e le comunità direttamente coinvolte. Se da una parte essi hanno contribuito alla creazione della Cpi, essi hanno anche evidenziato alcuni limiti. Dopo i Tribunali per ex Jugoslavia e il Ruanda, le Nazioni Unite hanno dato vita ad altri esperimenti nel settore della giustizia internazionale penale, creando tribunali misti, caratterizzati dalla compresenza di elementi internazionali con elementi di giurisdizione nazionale (sia sotto il profilo dei reati perseguiti, delle procedure seguite, del personale coinvolto, con giudici internazionali e nazionali). Si pensi per es. alla Corte speciale per la Sierra Leone, alle Camere straordinarie nelle corti della Cambogia, al Tribunale Speciale per il Libano (che ha recentemente reso la sua prima sentenza di merito, in agosto 2020).
Più recentemente poi sono stati creati meccanismi alternativi che non hanno più alcun elemento giurisdizionale, ma che si limitano a raccogliere, organizzare e preservare le prove (i meccanismi di indagine per Siria e per Myanmar, e la squadra investigativa per i crimini commessi da Daesh/ISIL in Iraq). Si tratta di organismi che dovranno poi rapportarsi con delle autorità giudiziarie nazionali, al fine di vedere l’esercizio dell’azione penale e l’avvio di procedimenti per i crimini commessi. I processi però dovranno poi svolgersi davanti ai giudici nazionali (per i crimini in Siria per es. sono in corso alcuni processi in Germania, in Svezia e in altri Stati europei).
Quale competenza ha la giustizia nazionale per i crimini internazionali?
Il sistema internazionale è fondato sugli Stati e sui loro ordinamenti giuridici, che si fondano a loro volta sul principio cardine della “sovranità”. In base a tale criterio spetta agli Stati, per lo meno in prima battuta, essere responsabili sul proprio territorio del mantenimento dell’ordine, della sicurezza, e – aggiungerei – della legalità (incluso nella dimensione internazionale). Di conseguenza non è una sorpresa che le autorità giudiziarie nazionali siano le prime responsabili di investigare e giudicare la commissione di eventuali crimini internazionali in base a tradizionali principi di competenza penale, ossia giudicare i crimini commessi sul loro territorio oppure da loro cittadini o contro loro cittadini (territorialità nazionalità attiva e in qualche caso passiva).
Siccome, poi, i crimini internazionali spesso costituiscono una violazione di principi contrari a valori fondamentali della comunità internazionale, in cui tutti gli Stati si riconoscono e ai quali tutti gli Stati tengono – la competenza non può ritenersi appartenere ad uno Stato in via esclusiva. È, allora, possibile applicare un principio detto di competenza universale, ai sensi del quale tutti gli Stati possono essere chiamati a intervenire. L’applicazione concreta di tale principio nei fatti pone spesso problemi di contrasti politico diplomatici tra gli Stati e viene visto come una indebita ingerenza.
In altre parole: le autorità nazionali sono le responsabili principali del compito di dare attuazione al principio di responsabilità penale individuale per crimini internazionali ma esse devono farlo in collaborazione reciproca nell’idea che i crimini internazionali riguardano tutta la comunità internazionale.
Il diritto internazionale è sistema degli Stati. Spetta agli Stati rispettare e fare rispettare tutte le norme internazionali, incluse le regole relative ai crimini internazionali. Questo implica che sono i giudici nazionali che dovrebbero, in prima battuta, punire i colpevoli di crimini di guerra contro l’umanità, genocidio, aggressione… Essi però non hanno l’esclusiva, né possono pensare di operare senza alcun controllo. Anche per questo è stata creata la Corte penale internazionale.
Come funziona la Corte penale internazionale?
La responsabilità primaria degli Stati per giudicare i crimini internazionali è riflessa nello Statuto della Cpi nel cd. principio di complementarietà, principio in base al quale la Corte può esercitare la propria competenza soltanto se le autorità nazionali sono “unable or unwilling”, ossia non hanno la capacità o la volontà di svolgere i procedimenti sul piano nazionale.
In tal senso la Corte deve fungere da stimolo per gli Stati (è un meccanismo di controllo del comportamento delle autorità nazionali).
La scommessa attuale per la comunità internazionale è quella di mettere le giurisdizioni nazionali in condizione di esercitare le proprie competenze e responsabilità. Non è pensabile che un’autorità giudiziaria internazionale come la Corte possa farsi carico di processare tutte le gravissime violazioni del diritto internazionale che hanno luogo. Perché la Corte non può fare tutto da sola. La Corte deve dare l’esempio, deve fornire lo spunto, deve lavorare con le giurisdizioni nazionali per portare l’azione penale al livello più adeguato.
Un problema molto serio per la Cpi è il suo rapporto con le grandi potenze e con la politica internazionale più in generale. Il tipo di crimini e la circostanza che la Corte è un organismo internazionale che deve “guardare” in quello che gli organi civili o militari degli Stati hanno fatto in una certa situazione, rende il rapporto intrinsecamente delicato.
Per esempio, la recente misura adottata dall’amministrazione statunitense di reagire, con sanzioni ad personam nei confronti della procuratrice della Cpi e di altri funzionari della Corte, all’apertura (dopo anni di oscillazioni e incertezze) di procedimenti per reati commessi in Afghanistan da personale statunitense, è evidenza della difficoltà politica delle situazioni in cui la Corte è chiamata ad operare (NB la Corte sta vagliando anche situazioni relative alla Georgia e all’Ucraina, che hanno suscitato le ire del Cremlino); si tratta anche di una conferma della funzione importantissima che la Cpi è chiamata a svolgere.
Ma il fatto che gli Stati reagiscano in questo modo è piuttosto significativo. Il meccanismo è temuto perché idoneo a mettere a nudo la commissione di atti contrari al diritto internazionale. La Corte deve continuare a fare il proprio lavoro senza mescolarsi all’agone politico. Spetta agli Stati gestire la situazione. I sostenitori della CPI devono fare fronte comune e sostenere politicamente la Corte in queste fasi difficili, che sono però destinate a passare. Per anni per es la Cpi si è scontrata con il Sudan a causa dei mandati di arresto contro il Presidente Al Bashir. Oggi Al Bashir è stato deposto e potrebbe essere portato in giudizio davanti alla Corte.
Quale futuro per la giustizia penale internazionale?
Come dicevo, la politica deve assumersi le proprie responsabilità – la CPI ha bisogno del sostegno continuo degli Stati. Se ragioni di opportunità politica e convenienza diplomatica fanno ritenere che si debba chiudere gli occhi su certe violazioni, non può di certo essere chiesto alla Corte (che è organo di giustizia non di politica) di farsene carico. Gli Stati che si oppongono alla Corte, in realtà si oppongono all’idea stessa di poter essere “giudicati”, rifiutano la supremazia del diritto e dei principi giuridici rispetto alle ragioni della convenienza politica – ciò in violazione del diritto internazionale e, talvolta, persino in contrasto con i propri ordinamenti costituzionali.
L’UE può svolgere un ruolo importante in questo senso. Infatti, le maggiori grandi potenze (proprio perché sentono che la Cpi può essere un meccanismo di controllo della loro “potenza”) rigettano l’idea di sottoporsi a scrutinio – Cina, Russia, Stati Uniti, ma anche India, Iran, Israele, Pakistan per dirne altri, rigettano la possibilità che un tribunale internazionale possa giudicare i loro soldati o i politici. Tuttavia questo “rifiuto” ha dei limiti e soprattutto poiché nel XX secolo si sono affermati principi giuridici in base ai quali gli Stati non sono al di sopra delle norme internazionali, è indispensabile che gli altri Stati (i sostenitori della Cpi) ricordino alle grandi potenze e a tutti gli Stati fuori dal sistema dello Statuto della Cpi (che in quanto trattato vincola quelli che vi aderiscono), che soltanto un atteggiamento di responsabilità, di sovranità responsabile, ispirata al rispetto delle norme internazionali potrà esentarli dall’esercizio della giurisdizione da parte della Cpi.
In altri termini, se uno Stato non vuole correre il rischio che vengano portati alla sbarra davanti alla Cpi i propri militari o alti funzionari accusati di crimini di guerra o altro, bisogna processarli seriamente davanti ai competenti tribunali interni.
Il destino della Cpi è legato alle dinamiche complessive dell’ordinamento internazionale. Se verrà mantenuta (in linea con le attuali norme internazionali e con la Carta delle NU) una nozione di sovranità responsabile, rispettosa della dignità del singolo, non incline a far prevalere supposti interessi nazionali sul primato del diritto e sul rispetto dei diritti umani, allora la Corte verrà rafforzata. Se, invece, si dovesse diffondere l’idea di una possibilità di ritorno a modelli di sovranità assolutistici, privi di verifiche e contrari a principi dello stato di diritto – allora il destino della Corte sarà segnato, ma probabilmente anche quello di un mondo destinato ad essere ancora dominato dalla barbarie, che ha segnato il XX secolo, come il secolo dei genocidi.
Salvatore Zappalà insegna Diritto internazionale nell’Università di Catania dove dirige il Dipartimento di Giurisprudenza. Dal 2010 al 2018 è stato Consigliere giuridico della Rappresentanza permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a New York. Tra le sue pubblicazioni La tutela internazionale dei diritti umani (il Mulino, 2011).