
In che modo il passato nazista ha condizionato il lungo dopoguerra tedesco?
L’ubriacatura collettiva degli anni del nazismo è stata solo apparentemente spazzata via dalla denazificazione del 1945-1949 e dalla ripartenza netta negli anni 50, segnati dal boom del miracolo economico. L’intensità della distruzione e dei milioni di crimini commessi è tornata costantemente a ripresentarsi attraverso le generazioni sottoforma di una precaria rielaborazione, generando fasi sovrapposte di oblio, presa di coscienza e rimozione. Gli anni del nazismo sono da generazioni motivo di vergogna per gran parte della popolazione tedesca, sentimento riflesso in una necessaria quanto paradossale presa di distanza in cui le generazioni successive, non colpevoli dei crimini dei loro padri, si sono trovate di decennio in decennio a dover rielaborare il linguaggio, le strutture ideologiche, il tessuto burocratico e innanzitutto la portata distruttiva di quegli apparati.
Quali fasi ha attraversato, in Germania, la rielaborazione del proprio passato nazista?
Per comprendere le “fasi” della rielaborazione del passato si ragiona spesso in termini generazionali. Il mio lavoro è costruito effettivamente su questo tipo di cronologia. Nella mia analisi inizialmente vengono considerati i mesi finali della guerra e l’inizio della nuova fase di occupazione alleata: per decenni si è speculato su quanto questa fase sia stata la “fase zero” della storia tedesca. I processi condotti dagli alleati e poi la divisione del paese in aree di occupazione, per come stabilito dalla Conferenza di Potsdam, diedero vita alla percezione di una cancellazione complessiva del nazismo e quindi di tutto quell’apparato amministrativo e carrieristico, in una sorta di mito dell’“ora zero” (Stunde Null), inteso come ripartenza netta. In realtà a ben vedere questa ora zero non vi fu in realtà mai, visto che sin da subito gli alleati, soprattutto nelle zone ad Ovest, si trovarono nella condizione di dovere riabilitare molti apparati burocratici e amministrativi, per forza di cose in continuità con il sistema nazista, per poter affrontare la gestione dell’amministrazione giudiziaria e civile. Questa fase transitoria gettò le premesse per la quasi completa riabilitazione dello stato nazista nella politica degli anni ’50, la cosiddetta “Era Adenauer”, definitasi in maniera sostanziale dentro le logiche della Guerra fredda. Si deve aspettare la fine del primo decennio della Bundesrepublik per assistere ai primi processi, costruiti in maniera fortuita o grazie alla perseveranza di importanti personalità come Fritz Bauer, Joseph Wulf, Robert Kempner, che seppero perseverare nella difesa dei principi della giustizia storica. Quella fase – inaugurata da un primo processo agli Einsatzgruppen nel 1958 e chiusasi con il processo Auschwitz del 1963-1965 – fu un momento di svolta nella percezione collettiva dei crimini nazisti. Quello che inesorabilmente iniziava ad emergere in quegli anni era la dimensione criminale di tutto l’apparato dello stato nazista, che non faceva altro che mettere in crisi la credibilità stessa della nuova democrazia visto che lo stato e l’amministrazione pubblica erano ancora ampiamente inficiati dalla presenza di vecchi apparati collusi con il nazismo. Neppure il movimentismo studentesco e poi la radicalizzazione del conflitto sociale negli anni di piombo tedeschi degli anni Settanta riusciranno a scalfire questa inesorabile ragione di stato, che aveva portato al ripristino di molte carriere naziste sin dagli albori della Repubblica. Il “dibattito degli storici” scoppiato agli inizi dell’Era Kohl nel 1985 – in cui il professore conservatore Ernst Nolte si lamentava di come questo passato nazista continuasse a ripresentarsi senza “voler passare” – lascia al giorno d’oggi basiti se si pensa alle migliaia di criminali nazisti che ancora erano a piede libero nella società tedesca occidentale nella fase finale della guerra fredda. Se parliamo quindi di rielaborazione del passato ci riferiamo alla fase definitasi dopo la riunificazione delle due Germanie.
In che modo, dopo la riunificazione del 1990, la rielaborazione dei crimini nazisti si è fatta strumento di unità politica e collettiva?
Ci si è dimenticati in fretta di quanto per nulla scontata fosse la situazione politica generale delle due Germanie nella fase di transizione. Con la caduta del muro i due paesi si trovarono improvvisamente riunificati dopo 40 anni di separazione ma soprattutto a 45 anni dalla fine del Reich. La questione emergente era quale potesse diventare il motore identitario di questa nuova realtà politica: fermo restando che l’idea stessa d’“identità collettiva” è un costrutto sempre strumentale e immaginato, il dibattito attorno ad un’“identità tedesca” nasceva allora dall’urgenza di costruire una narrazione plausibile, dentro cui raccontare il nuovo corso politico. L’ultima volta in cui si era vista una Germania politicamente unita era stato l’8 maggio 1945, quindi l’ultimo giorno dell’hitlerismo: la riflessione sul ritorno di una nuova Germania non era quindi per nulla scontata, considerato che improvvisamente si ritrovavano assieme due paesi con narrazioni completamente opposte e non maturate definitivamente, con il rischio reale che ad emergere fosse l’unica identità condivisa, ovvero quella impronunciabile di un’“identità nazionale”, celebrata cinquant’anni prima, e fino agli estremi, dal delirio nazista. A confermare l’emersione di queste pulsioni nostalgiche è anche il fatto che agli inizi degli anni ’90 ci fu una vera e propria proliferazione di raggruppamenti neonazisti, maturata già dalla seconda metà degli anni ’80, che portò a diverse aggressioni e attentati, naturalmente contro i nemici di turno, immigrati e stranieri. Il contesto politico dopo la caduta del muro era quello di un’incertezza complessiva, soprattutto rispetto al tema di quale narrazione far emergere per accompagnare la nuova politica unificata: la nostalgia esplicita per il Terzo Reich da parte di alcune frange era uno spettro che vagava nella Germania appena ricostituita. Questo valeva sia per la Germania dell’Ovest, dove quella nostalgia aveva accompagnato, seppur in maniera progressivamente sempre più marginale, tutta la storia della Bundesrepublik, sia per la Germania dell’Est, dove la costruzione dello stato antifascista non aveva lasciato molto spazio ad una rielaborazione autentica del passato nazista, se non in forma punitiva e repressiva. In fin dei conti fu proprio agli inizi degli anni ’90 che iniziarono a germogliare in tutto il paese quei raggruppamenti identitari che vent’anni dopo entreranno in parlamento, naturalmente non più con le teste rasate ma in giacca e cravatta e legittimati dal “sovranismo europeo”. È in questo quadro di esplosione di nostalgie fascistoidi ed emersione di nuove forme di identitarismo e nazionalismo sotterraneo che iniziò invece sorprendentemente ad imporsi la volontà precisa, da parte della politica federale, di affermare il peso morale e il giudizio collettivo (negativo) rispetto al passato nazista, dando sempre più spazio alla memoria della shoah, intesa come memoria delle vittime, in una direzione quindi opposta alla consacrazione dell’identità nazionale. Il tempo era oltretutto maturo: agli inizi degli anni ’90, a ormai tre generazioni dalla fine della guerra, si poteva condividere una narrazione definitiva sui crimini nazisti, senza dover intaccare la credibilità delle istituzioni, visto che oramai tutte le implicazioni tra politica e passato se ne erano andate in pensione, con gli ultimi protagonisti di quella storia. Gli effetti di questa nuova fase sono visibili nei memoriali odierni, visibili nel cuore di Berlino.
È possibile, dunque, affermare che la Germania abbia in qualche modo fatto i conti col suo passato nazista?
Non vi è dubbio che nella Germania odierna la memoria dei crimini del nazismo e delle sue vittime costituiscano un nodo essenziale nel funzionamento del discorso pubblico e soprattutto una sorta di discorso invalicabile che non può essere messo in discussione nel suo peso e nella sua rilevanza. Il “patriottismo costituzionale” per come indicato dal filosofo Jürgen Habermas negli anni ’90, trova la sua legittimità e ragione in questa difesa della memoria collettiva e del monito pubblico di “non cadere più” in quella distruzione della ragione.
Oltre a questo progresso della memoria collettiva, che potremmo definire di successo, vi sono state però delle grandi mancanze, forse irrecuperabili: l’impunità decennale di troppi criminali, burocrati del crimine e semplici approfittatori resta purtroppo una delle offese più insopportabili verso le molte vittime. Penso qui, tra i molti, a quei giovani immolatisi per i valori della resistenza, a cui per decenni il silenzio omertoso della maggioranza complice e poi i giochi della Guerra fredda hanno negato riconoscimento e giustizia: come, tra i tanti, Erika von Brockdorff, giovane idealista resistente della Rote Kapelle, oppositrice libertaria del delirio nazista, arrestata nel 1942 e decapitata senza pietà alcuna nella prigione di Plötzensee a Berlino il 13 maggio 1943. Turba pensare che il giudice di quella e di molte altre condanne a morte, Manfred Roeder, visse gli anni del dopoguerra indisturbato nel suo podere a Glashütten nell’Assia con una pensione da giudice generale di stato, fino alla morte nel 1971. Inaccettabile è poi realizzare che la maggior parte delle migliaia di condanne capitali pronunciate ed eseguite dai tribunali nazisti sono state considerate «ingiuste», e quindi sospese, solamente a partire dal 1998. Rimane comunque indubbio come il nucleo memoriale sia uno degli aspetti fondanti della vita collettiva nella Germania odierna.
Tommaso Speccher, dopo il dottorato in Filosofia alla Freie Universität di Berlino, ha insegnato in qualità di libero docente presso le università di Verona, Berlino e Friburgo. Attualmente lavora come divulgatore, traduttore e ricercatore presso alcune istituzioni museali berlinesi tra cui il Museo ebraico, la Topografia del terrore e La Casa della conferenza di Wannsee. Tra le sue pubblicazioni, Täter und Opfer. Verbrechen und Stigma im europäisch-jüdischen Kontext (a cura di, con C.S. Dorchain, Königshausen und Neumann 2014) e Die Darstellung des Holocausts in Italien und Deutschland. Erinnerungsarchitektur, Politischer Diskurs und Ethik (Transcript 2016).