
Preciso subito che il termine non l’ho inventato io; è apparso per la prima volta negli anni ’90 – cioè all’epoca di Tangentopoli e del crollo della Prima Repubblica. Nel 1995, ad esempio, era uscita una raccolta di saggi che si chiama La sinistra populista, e in uno di questi l’autore Mauro Trotta sosteneva che la “crisi di certezze e di identità riconosciute” abbia fatto insorgere “un populismo di tipo nuovo” che “al centro del proprio discorso pone […] l’evoluzione ultima del vecchio popolo, la gente”.
Sempre secondo Trotta, i valori veicolati da questa “nuova incarnazione del populismo” sono quelli del “capitalismo più aggressivo: la competizione, il successo a tutti i costi, i soldi, il consumo, gli status symbol”. Un’altra caratteristica del gentismo è il suo “grande potenzialmente comunicativo”, che utilizza un linguaggio mutuato dalla pubblicità e punta esclusivamente alla seduzione.
In tempi più recenti, il fenomeno si è evoluto – e anche la sua definizione è mutata. Stando alla Treccani, il gentismo è “un atteggiamento politico di calcolata condiscendenza” verso un insieme vasto e indistinto che risponde al nome di “gente”; per la politologa Nadia Urbinati, che lo associa al M5S, è la “reazione della gente comune contro gli adepti della politica”; infine, e questa forse è l’accezione più comune, si tratta di un certo modo di stare sui social network caratterizzato da meme di scadente fattura, bufale, commenti sgrammaticati e pieni di punti esclamativi, e sfoghi scomposti di perfetti sconosciuti davanti al cellulare.
Quali sono le caratteristiche del gentismo contemporaneo?
Quelle che individuo io sono sostanzialmente tre. La prima è la contrapposizione tra la Gente e la Casta – l’arcinemico per eccellenza, nato dopo l’uscita del libro omonimo di Stella e Rizzo – contrassegnata dal mito perenne di una “Rivoluzione” che spazzi via tutti quanti. La seconda è l’ “indignazione” – o l’“esasperazione” – come fattore primario di mobilitazione del “cittadino indignato” o “esasperato”, una figura che si presenta sempre e comunque slegata da qualsiasi fazione politica (anche se spesso non è così).
La terza, infine, è la capacità di creare “realtà parallele” – come possono essere l’“ideologia gender”, certe teorie del complotto o «Gentelandia» (la parte gentista dell’Internet italiano) – che non solo strutturano una visione del mondo antitetica alla “realtà ufficiale”, ma hanno la capacità di provocare effetti assolutamente concreti.
È intorno a queste tre dimensioni – il palazzo, la piazza e Internet – che si sviluppa il mio libro, che è un reportage essenzialmente giornalistico composto di casi concreti.
In che modo la politica si è nutrita del gentismo?
La politica l’ha in un certo senso creato – o meglio: ha creato le condizioni per farlo attecchire – e al contempo l’ha sfruttato per non farsi sfuggire di mano il proprio consenso elettorale.
Gli esempi sono molti, e il libro ne è costellato: i post gentisti e complottisti di Matteo Salvini (come quando posta sulla sua pagina immagini di cibo per mostrarsi “uno della Gente”, o quando denuncia il fantomatico piano di “sostituzione etnica” della popolazione italiana); figure come Nicola “Naomo” Lodi, politico della Lega Nord di Ferrara che ha avuto un ruolo di primo piano nella barricate anti-migranti di Gorino; i bagni di folla di Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio davanti a Montecitorio, e molto altro ancora.
Per passare ad un’altra parte politica, non vanno dimenticate le campagne di marketing politico – fatte in forma non ufficiale – del Partito Democratico, che cercano di recuperare la potenza comunicativa del gentismo per far passare messaggi governativi, o comunque molto lontani da certi ambienti.
Leggendo il Suo libro, sembra che si sia ormai sfilacciato l’ethos comune che legava tra loro gli italiani, generando una galassia esplosa di esperienze tra il grottesco, il tragico e l’apocalittico: quali le conseguenze per il futuro del nostro Paese?
Credo che non ci sia mai stato un vero e proprio ethos comune in questo paese, ma piuttosto dei grandi contenitori politici e sociali che – per molti storici e molto diversi tra loro – sono scomparsi o entrati irremediabilmente in crisi.
Se prendiamo l’ultimo rapporto del Censis, vediamo come l’84% degli italiani non creda nei partiti politici, il 78% nel governo e il 76% nel Parlamento. Sono cifre incredibili, ma per certi versi perfettamente comprensibili. Quello che racconto nel libro è cosa succede quando la sfiducia si fa sistema, e cosa si infila nelle pieghe della crisi cronica della rappresentanza.
Certi episodi sono da un lato inquietanti e grottesche, e dall’altro la spia di un disagio profondo che non trova una risposta a livello politico. Se vogliamo immaginarci un futuro, credo che sia il caso di partire da qui.
È possibile combattere il gentismo e come?
Non ho scritto il libro per “combattere” un fenomeno, quanto piuttosto per riconoscerlo e analizzarlo in profondità. Penso che il punto sia proprio questo: accorgersi che questo fenomeno esiste, e di conseguenza raccontarlo e – soprattutto – circoscriverlo.
Il mio ruolo di giornalista è quello di fotografare, attraverso le mie lenti, la realtà: ritengo però che spetti ad altri “risolvere” determinate questioni.
Per il resto, indubbiamente siamo entrati in una fase politica che – pur avendo radici in altre esperienze – ha una sua specificità. E il gentismo è un fenomeno sfuggente e pervasivo, che ha accompagnato la seconda Repubblica come un’ombra. La mia convinzione è che fissando questa ombra si possano cogliere al meglio le ambiguità, le contraddizioni e le pulsioni profonde della società italiana.