
La folla ha iniziato a essere un oggetto di ricerca vero e proprio solo nell’ultimo decennio del XIX secolo, in quello che può essere definito il “periodo scientifico” della folla: medicina-psichiatria, diritto e psicologia elevano la folla a oggetto di indagine scientifica. Ed è molto interessante constatare che agli esordi sono stati soprattutto giuristi e psicologi a studiare questo nuovo, strano e potenzialmente criminale “soggetto” delle grandi metropoli. Infatti non bisogna dimenticare che i principali studiosi della folla sono stati prevalentemente dei giuristi. Si pensi a Scipio Sighele, Gabriel Tarde, Pasquale Rossi e altri. Fa eccezione probabilmente Gustave Le Bon, la cui opera è stata fin troppo sopravvalutata, come ho avuto modo di affermare in un mio recente libro interamente dedicato all’analisi della costruzione del sapere della folla, dal titolo appunto Critica della folla (Pearson 2018). Le Bon è di certo considerato il padre della psicologia della folla, il massimo divulgatore scientifico di quel periodo storico, il suo Psicologia delle folle (1895) è definito da alcuni il libro più influente mai scritto, ma in pochi sanno e/o dicono che è stato anche il consigliere dei governanti e che secondo alcune ricostruzioni, immerso totalmente nello “spirito psicologizzante” dell’epoca, abbia a suo modo copiato Sighele che a sua volta aveva copiato Tarde. Il libro di Le Bon ha avuto un successo strepitoso, ma in realtà non spiega le formazione della folla, si limita solo a registrare il suo manifestarsi e a elargire consigli su come ammaestrarla, dominarla, sottometterla. In ciò risiede, per esempio, l’infondatezza scientifica della sua posizione sull’anima collettiva e sull’anima della razza. E oggi non dobbiamo stupirci, guardando al passato e forse sulla base di alcuni eventi attuali anche guardandoci allo specchio, se Freud in Psicoanalisi delle masse e analisi dell’io del 1921 si esprime in termini molto positivi, considerando il lavoro di Le Bon meritatamente famoso mentre per esempio Horkheimer e Adorno finiscono per avvicinarlo al Mein Kampf di Hitler.
Comunque, senza entrare in disquisizioni e digressioni troppo storiche e specifiche, si può probabilmente affermare che solo alla fine dell’Ottocento la folla diventa un oggetto di ricerca a cui si dedicano in particolare medici-psichiatri (fondamentali qui sono state le esperienze di ipnosi e di suggestione di Charcot e quelle di Bernheim), giuristi e psicologi, i quali individuano alcuni cruciali e significativi focus di ricerca. Mi limito a segnalarne due su tutti: il tema della responsabilità (ovvero il rapporto tra folla e crimine collettivo) e quello del legame tra il capo e la folla (l’inestricabile questione del rapporto tra individuo e collettività). Ciò che inoltre sembra contraddistinguere la postura scientifica con cui inizialmente viene analizzata la folla è stato il fatto di attribuirle delle caratteristiche diverse da quelle di altre forme di raggruppamento sociale e da quelle dei singoli membri che la formano. A questo proposito la critica che nel 1899 Vincenzo Miceli rivolge alla psicologia della folla, della quale ho inserito un ampio stralcio nel libro e che considero molto rilevante per una ricostruzione epistemologica degli studi su questo tema, mette in evidenza come non sia tanto l’essere folla in sé a rendere questo aggregato “speciale” o “diverso” quanto invece il suo essere aggregato a renderla così. L’inferiorità intellettuale e morale della folla e del singolo all’interno della stessa non riesce a trovare quindi una spiegazione scientifica plausibile.
Prima del periodo scientifico di cui si è detto, è possibile distinguere il periodo antico e quello classico, nei quali sono la filosofia, la storia e la letteratura a occuparsene e nei quali la folla è stata rispettivamente un semplice oggetto di attenzione prima e di preoccupazione dopo. Di fatto attraverso questi tre periodi è evidente come il modo in cui la folla diventa oggetto di ricerca rende conto di un sostanziale passaggio dalla logica del numero o della quantità (ovvero la folla come insieme di persone molto numerose riunite in un luogo) alla logica dell’astrazione o della qualità (cioè la folla come insieme di persone unite spiritualmente, dal punto di vista psicologico). Il capitolo di Vincent Rubio presente nel libro si sofferma molto su questo excursus storico-epistemologico. Nel corso di tutto il Novecento e ancora oggi gli studi sulla folla continuano nel campo della psicologia sociale e nella sociologia, in certi casi anche con esperimenti e attività di ricerca in laboratorio, ma alcuni nodi rimangono da sciogliere. E con le nuove tecnologie sgrovigliarli diventa ulteriormente complesso. La folla attuale non è più quella ottocentesca.
La folla è spesso associata all’irrazionale: quale funzione sociale svolge la folla e in quali forme?
Questo è proprio uno dei nodi scientifici sul tema della folla che rimane inestricabile. Il connubio tra folla e irrazionale è stato il cavallo di battaglia della psicologia collettiva di fine Ottocento, che prima abbiamo ricordato, e in gran parte della riflessione che permea gli anni ’20 e ’30 del Novecento. Il superamento dell’irrazionalità della folla è subentrato invece più avanti negli anni ’60 e ’70 con l’apparizione dei pubblici, dei movimenti sociali, della massa. Resta così da chiarire se oggi con la folla virtuale stia per ripresentarsi l’elemento dell’irrazionale e soprattutto quale sia il suo significato: si tratta di un ritorno al passato oppure no?
Certamente la dimensione irrazionale secondo gli autori dell’Ottocento trattati nel libro ha avuto una declinazione negativa: la folla è animalesca, retrograda, putrida, selvaggia, primitiva; incute paura e al contempo affascina; suggestiona e si autosuggestiona; è degenerata e criminale. Come ho avuto modo di scrivere nel capitolo su folla, pubblico e società in Gabriel Tarde presente nel libro: l’azione della folla pare essere, fin dalle origini, potenzialmente criminale. E ciò vale per quasi tutti gli autori, con qualche eccezione come per esempio Pasquale Rossi. Ma un contributo interessante per rispondere a questa domanda è quello scritto da Elisa Moroni in questo libro, dove si analizza la folla come luogo dell’irrazionale. Moroni mette bene in luce quanto per alcuni l’irrazionalità della folla abbia nominato la sua patologia, pericolosità, criminalità, inferiorità; così come invece per altri sia indicatore di uno stare insieme spontaneo, positivo, creativo. Tuttavia, al di là di queste accezioni, fin troppo assiologiche, per Moroni l’irrazionalità non fa che irretire la folla al panico, rendendola più reattiva che attiva, pronta a tutto. Ma allora è possibile un’azione collettiva al di là dell’onda suggestiva e dentro ai confini della legalità sociale? Moroni recupera Filippo Manci, secondo il quale l’identità di motivo e di interesse potrebbe fungere da collante sociale della folla: il tutto suona un po’ come una sorta di recupero del weberiano agire razionale rispetto allo scopo al posto dell’agire determinato affettivamente; un’unione reciproca e consapevole dei desideri e delle aspettative in vista di un fine da perseguire attraverso i mezzi più idonei.
La questione è estremamente complessa. La funzione sociale che la folla ottocentesca ha svolto è molto diversa da quella che svolge nella società attuale, lo stesso si può dire per le forme che ha assunto e che assume. Via via sempre differenti. Resta tuttavia fermo un punto: è necessario individuare i modi per superare o trovare una via d’uscita all’empasse dell’irrazionalità quale prerogativa della folla, dal momento in cui essa implica un probabile e conseguente rischio di pericolosità e criminalità. Un modo, ne parlo nel capitolo che ho scritto in questo libro, è forse quello indicato dal Walter Benjamin ripreso da Andrea Cavalletti in Classe (Bollati Boringhieri 2009) e che consiste nel mettere continuamente in campo un movimento antipsicologico, con cui trasformare la folla in massa, un po’ come aveva presagito più tardi anche Elias Canetti, fare della dissoluzione dell’individuo nella collettività qualcosa che unisce e non che divide o segue il capo, perché è solo una nuova solidarietà o un nuovo altruismo che può risvegliare dall’incanto del prestigio. Vale la pena ancora chiedersi se è possibile una folla senza capo e, anche, una società senza folla? Forse sì. Un altro modo ancora, a concretizzazione del precedente e da me proposto (Pearson 2018), è quello di decostruire a oltranza i dispositivi di suggestione, paura e polizia tramite i quali si crea e funziona la folla, nella sua versione contemporaneamente reale e virtuale.
Come si è sviluppato il dibattito sulla folla negli autori italiani e francesi?
Il dibattito sulla folla è il fulcro del libro, nonché l’origine scientifica di questo tema. Tale dibattito è collocabile più precisamente negli ultimi quindici-dieci anni dell’Ottocento. La folla ottocentesca costituisce l’oggetto di studio privilegiato della psicologia collettiva o psicologia delle folle: non si può non partire da questo dibattito. Mi sembra necessario, tanto quanto è necessario poi operare le dovute differenze con le forme dei raggruppamenti sociali virtuali e non della società contemporanea, così come dall’emergere dei nuovi populismi.
Se in Francia negli anni ’70 e ’80 il tema è stato ampiamente ripreso da Serge Moscovici; in Italia sono i lavori di Angelica Mucchi Faina ad aver dato un contributo importante in termini di ricostruzione del dibattito stesso – molto più di quanto abbia potuto e saputo fare io in questo libro. Così come altrettanto importante è il copioso testo di Damiano Palano dal titolo molto suggestivo: Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento (Vita & Pensiero 2002). Si potrebbero fare molti riferimenti, gran parte di questi sono indicati nel libro. E comunque, tornando alla fine dell’Ottocento, da una parte ci sono gli italiani, perlopiù appartenenti alla Scuola positiva, e dall’altra ci sono i francesi, che già dal punto di vista letterario oltre che storico e medico avevano posto particolare attenzione alla folla e ai suoi comportamenti. In sostanza, sul tema della folla, italiani e francesi si condizionano a vicenda. I francesi sono influenzati dagli italiani, soprattutto per quanto concerne il tema della responsabilità dei delitti collettivi, della dimensione di degenerazione e di pericolosità cui la folla dà luogo, e viceversa gli italiani lo sono dai francesi in materia soprattutto di sonnambulismo, magnetismo, ipnosi e suggestione. Di certo, in Italia come in Francia, questo dibattito nasce all’insegna della folla come aggregato sociale pensato prevalentemente in termini negativi, pericolosi, criminali.
Nel mio libro, che non è certo esaustivo sull’argomento, ho scelto di ricostruire le primissime origini di questo dibattito facendo incontrare e scontrare continuamente due percorsi: quello dell’analisi sociale con quello dei testi degli autori dell’Ottocento. Nella prima parte i saggi di Rubio, di Moroni e il mio costituiscono una possibile riarticolazione dei temi e degli aspetti considerati dagli autori italiani e francesi nella seconda parte: Scipio Sighele, Pasquale Rossi, Vincenzo Miceli tra gli italiani; Le Bon e Tarde tra i francesi.
La cosa più interessante rispetto al modo in cui nasce e si sviluppa il tema consiste forse nel fatto che l’origine scientifica degli studi sulla folla si può considerare un vero e proprio dibattito, con tanto di domande e risposte, di discussioni pubbliche durante i convegni, nelle conferenze, nei salotti politici e non, di articoli e di scambi epistolari che via via venivano pubblicati nelle riviste specializzate del tempo da parte dei principali analisti e osservatori sociali. Gli autori, di cui il testo riporta solo alcuni stralci tratti dalle loro opere principali, si leggevano reciprocamente, si ascoltavano, si scambiavano punti di vista e prospettive. A volte in maniera anche ironica e pittoresca. Ma i loro convegni, i seminari, gli incontri di persona erano veramente finalizzati alla costruzione di un sapere sulla folla. Quello stesso sapere che oggi noi siamo ancora qui a esaminare, indagare e interrogare. Non dobbiamo dimenticare che la folla pone problemi di tipo epistemologico e metodologico molto complessi per le scienze sociali. Anche chi, come Elias Canetti, ha dedicato ben trentacinque anni della propria vita a questo tema non ha esitato a considerarlo, insieme al potere, il fenomeno sociale più enigmatico e inspiegabile.
Sabina Curti è Ricercatrice di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale nonchè Docente di Criminologia presso il CdL triennale in Scienze per l’Investigazione e la Sicurezza e Docente di Sociologia della devianza presso il CdL magistrale in Scienze socioantropologiche per l’integrazione e la sicurezza sociale dell’Università degli Studi di Perugia