
In che modo la casa rivive negli scritti di un autore e ne diviene fonte d’ispirazione?
Dipende. Ci sono scrittori che su di sé non hanno scritto una pagina, altri che si sono guardati allo specchio per una vita, descrivendo sin nei dettagli gli ambienti in cui si muovevano. Qualcuno, come Pascoli, amò profondamente le stanze abitate nell’infanzia; altri, come Gadda, le odiarono con tutto il cuore. Di alcuni, come Manzoni, visitiamo case in cui vissero decenni; di altri case “inventate” dai posteri, come succede in Toscana con Dante, Petrarca e Boccaccio. La casa è una formidabile, inesauribile macchina narrativa. Teniamo conto però che il tempo scorre. È vero, a volte hai l’impressione che lo scrittore sia uscito un momento ma stia per tornare: per esempio guardando i bauli del viaggio in India di Guido Gozzano, nella villa del Meleto. Non possiamo però pretendere di ritrovare il calore e il disordine della vita vissuta. Fra noi e gli scrittori c’è sempre la mano invisibile di qualcuno che ne ha interpretato la memoria. Il che non è affatto un male, anzi porta a interrogarsi sul modo in cui facciamo nostra un’eredità culturale, cercando di non tradirla da un lato e non imbalsamarla dall’altro.
Leopardi è certamente rappresentativo dell’influenza che la sua abitazione esercita sulla poetica e la produzione di un autore: cosa rappresentò per il poeta recanatese la casa paterna?
Fu una prigione e al tempo stesso un trampolino. Per questo ho insistito sin dal titolo del libro sulla finestra. Del resto anch’io, come molti, ne subisco il fascino. Specie quando scende la sera, e mi trovo a passeggiare per vie sconosciute. Visitando le case degli scrittori ci si può affacciare sulle Langhe di Pavese, sul monte Ortobene dalla soffitta di Grazia Deledda, o sui colli Euganei dalla villa di Petrarca. È un’esperienza intensa, che insegna molto sul loro immaginario, e ci spinge a misurare la distanza fra il mondo che conobbero e il nostro. Il caso di Leopardi poi mi sembra particolarmente stimolante. Fra l’altro da poco sono state aperte al pubblico per la prima volta le sue stanze private. E possiamo anche rovesciare la prospettiva, osservando il palazzo con gli occhi di Silvia, cioè Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere dei conti. Sono state infatti restaurate le umili stanze della sua abitazione. Da lì, con una vertigine, si intravede la biblioteca dove Giacomo trascorse la prima giovinezza. Ma si coglie anche la bellezza profonda di un’Italia minore, meno nota a volte di quanto meriterebbe: Recanati, ma anche Modica, i colli Euganei, la Lucania ionica… Ho cercato di raccontare anche questa.
Quale eco ritroviamo, nelle pagine del Manzoni, delle sue dimore, milanese e di Brusuglio?
Direi nessuna! D’altronde non c’è da stupirsi: fra i maestri della letteratura italiana Manzoni è senz’altro il più riservato. La sua ritrosia nel mettersi in scena si riflette nella stanza dove morì, degna di un frate trappista nella sua severa semplicità. Se però si va a frugare nelle lettere private, o nelle testimonianze di amici, ecco che si dischiude un quadro più complesso e suggestivo. Consiglio a chi si reca nella casa milanese di via Morone di raggiungere al primo piano la cosiddetta sala rossa, che dà sul giardino, e chiudere gli occhi. Forse riuscirà a sentire il suono flebile di un pianoforte e, aguzzando l’orecchio, qualche brandello di conversazione. Alla sera, fra le otto e le undici, convenivano qui parenti e ospiti di Manzoni, che li accoglieva presso il camino acceso, cortese, nella mano l’inseparabile tabacchiera, che si vede anche nel ritratto di Francesco Hayez.
Che rapporto ebbe d’Annunzio con la casa, trasfigurata, al Vittoriale, in un museo?
Il suo fu un innamoramento travolgente, tanto che decise di comperare la villa, mentre in passato aveva sempre abitato in affitto le sue splendide case, compresa la Capponcina. Il Vittoriale doveva riflettere ogni aspetto della sua personalità: per d’Annunzio fu una tana dove nascondersi, un teatro dove esibirsi, un monumento a se stesso, un testamento di pietra. Quando nel 1930 lo donò allo Stato italiano prescrisse un rigido rispetto, perché «Ogni rottame aspro è qui incastonato come una gemma rara». Fu accontentato. Oggi è la casa di scrittore più visitata d’Europa, fonte di infinite sorprese, grazie alla gestione vulcanica di Giordano Bruno Guerri.
Quali, delle case da Lei descritte, riecheggia maggiormente nell’opera del suo illustre inquilino?
Alcune dimore assurgono al ruolo di autentiche protagoniste, come si può dire della cella di Giacomo Casanova, nella Storia della mia fuga dai Piombi, o della casa colonica che Giovanni Comisso racconta ne La mia casa di campagna. Altre fungono da modello reale per abitazioni di personaggi: mi viene in mente la villa di Antonio Fogazzaro a Oria Valsolda, oggi proprietà del Fai. In Piccolo mondo antico è la villa dello zio Piero, e viene un tuffo al cuore quando si scende nella darsena dove nel romanzo annega la nipotina Ombretta. Ma voglio ricordare anche la casa di Grazia Deledda a Nuoro, allestita secondo le descrizioni di quel piccolo capolavoro autobiografico che è Cosima: la dispensa ancora trabocca di pani, frutta, salumi affumicati, utensili misteriosi… testimoni di una civiltà contadina ormai tramontata.
Mauro Novelli insegna Letteratura e cultura nell’Italia contemporanea presso l’Università Statale di Milano, dove coordina il Master in Editoria. È autore di volumi e studi di ambito otto-novecentesco. Per i Meridiani Mondadori ha curato le Storie di Montalbano di Andrea Camilleri e le Opere di Piero Chiara. Fa parte del Consiglio Direttivo del Centro Nazionale Studi Manzoniani.