“La filosofia del Rinascimento” di Andrea Suggi

Prof. Andrea Suggi, Lei è autore del libro La filosofia del Rinascimento. Una guida per temi, edito da Carocci: quali tratti connotano maggiormente questa fase degli studi filosofici?
La filosofia del Rinascimento, Andrea SuggiQuesta fase degli studi filosofici è connotata dalla percezione di un’inadeguatezza del sapere tradizionale a rispondere all’emergere di nuove istanze ed al contempo dalla fiducia nella possibilità di forgiare strumenti teorici capaci di interpretare le questioni che un periodo di mutamenti repentini ed imprevisti pone all’ordine del giorno. Ad andare in crisi è tutta l’immagine della realtà che nel breve volgere di due secoli appare profondamente mutata: sul Mediterraneo si presenta la ‘minaccia turca’; la scoperta del Nuovo Mondo rompe i limiti geografici allora conosciuti e muta gli assetti geopolitici a vantaggio dei paesi che si affacciano sulle rotte oceaniche; la diffusione ed il consolidarsi della Riforma infrange l’unità del Cristianesimo europeo; le scoperte astronomiche e la teoria copernicana mutano la rappresentazione del cielo. A spingere al ritrovamento di testi di autori e tradizioni che nessuno da secoli, in Europa, aveva più avuto modo di leggere è la ricerca di un sapere ad un tempo antico e nuovo, capace di corrispondere a processi sociali, economici e politici ma anche ad istanze religiose profondamente sentite ed inquietudini esistenziali che denotano una diversa sensibilità e inediti bisogni.

La filosofia del Rinascimento non costituisce però una pedissequa ripresa della filosofia dei Greci e dei Latini: è vero che vengono realizzate edizioni e traduzioni – e non solo di testi filosofici ma anche scientifici e delle opere fondative del Cristianesimo, a partire dalla Bibbia e dagli scritti della tradizione patristica – sempre più accurate e precise quanto più vanno raffinandosi la padronanza della lingua e la filologia, ma quello che va costituendosi è un sapere ‘nuovo’. Un sapere ‘moderno’ come ‘moderne’, ovvero pienamente inscritte nel proprio tempo storico, sono le traduzioni realizzate da Ficino o da Erasmo da Rotterdam, innanzitutto in virtù della lingua in cui sono vergate, un latino lontano da quello delle scholae, che apparentemente imita i grandi modelli romani ed è però caratterizzato da stilemi, costruzioni sintattiche e lemmi del tutto originali, magari mutuati dal greco, come nel caso del termine ‘utopia’, introdotto nel lessico filosofico in questo periodo. Moderne, tali traduzioni, anche perché moderne sono le istanze che inducono a realizzarle: nelle opere degli antichi si cercano risposte a domande nuove; imitarli equivale a tentare di essere originali come essi furono, tracciando una via propria come essi fecero per primi.

Il volume è ordinato per temi e scandi­to lungo cinque assi: la condizione umana, la crisi religiosa, la nuova politica, la ricerca di un nuovo sapere e la filosofia della natura. Come viene concepita, nelle pagine dei filosofi del Rinascimento, la condizione umana?
In autori come Ficino, Pico, Pomponazzi ed Alberti emerge chiara la consapevolezza che agli esseri umani si offre l’esperienza della possibilità di effettuare una scelta ed è un’esperienza angosciante. L’immagine del Rinascimento come un’età serena e risolta, solare e sicura di possedere i mezzi necessari a dominare la natura e proiettarsi nel futuro è quanto mai falsa, come ampiamente dimostrato dagli studi. È al contrario proprio la percezione di poter – e dover – scegliere sullo sfondo di una situazione in cui uno dopo l’altro vengono meno tutti i consueti punti di riferimento a risultare angosciante: come scegliere e che cosa scegliere se non si è più in grado di distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, poiché quel sapere che fino a poco prima risultava una solida guida non è più considerato sicuro e perciò affidabile?

Ficino e Pico ridefiniscono un’interpretazione generale della realtà e attribuiscono agli esseri umani la possibilità di muoversi all’interno di essa, verso l’alto, in direzione del bene e della verità, oppure verso il basso, cedendo agli impulsi della sensibilità, in un ripensamento della lezione di Platone che costituisce al tempo stesso una straordinaria sintesi con il Cristianesimo ed un’apertura ad una religiosità diversa, più intimamente vissuta. Più amara, invece, la visione di Pomponazzi che affidandosi alla sola forza della ragione e del rigore logico innerva la tradizionale filosofia aristotelica di tali rinnovate questioni, tutt’altro che pacificate le sue pagine dedicate al destino dell’anima dopo la morte del corpo ed alla libertà dell’arbitrio, nelle quali giunge a conclusioni disincatate: agli umani è concessa nient’altro che la percezione del libero esercizio della volontà ed una felicità che consiste nella mera comprensione dell’ineluttabilità di ciò che accade, mentre pare ragionevole ritenere che l’anima muoia con il corpo.

Altrettanto disincantato Alberti: all’azione soverchiante ed imprevedibile della fortuna, che tutto travolge al proprio passaggio, grazie alle arti è possibile sottrarre spazi in cui edificare un mondo civile, ma anch’esso è costantemente minacciato dal riemergere di una barbarie alimentata innanzi tutto dalla follia umana che mette a rischio ogni ordine logico, morale, sociale.

Come si articola la riflessione rinascimentale sul problema del rapporto tra il cristianesimo e le altre fedi – in par­ticolare l’islam –, e quello tra cristiani appartenenti a Chiese diverse?

Il rapporto tra Cristianesimo e Islam è affrontato con lucidità e coraggio già da Nicola Cusano all’indomani della caduta di Costantinopoli in mano turca: nel De pace fidei, a partire da una teoria della conoscenza in virtù della quale l’infinità di Dio risulta inconoscibile alla mente finita degli esseri umani, ammette la legittimità di fedi diverse e pur considerando il cristianesimo superiore alle altre religioni perché quella che più si avvicina al vero, ammette la possibilità di altri culti in quanto tentativi di avvicinarsi ad una verità inattingibile nella sua pienezza. La questione religiosa muta rapidamente aspetto nell’arco di pochi anni e con il consolidarsi e il diffondersi della Riforma, prima nella versione di Lutero quindi in quella di Calvino e poi con le molteplici confessioni protestanti sorge il problema delle relazioni esistenti tra cristiani fedeli di chiese diverse. È una frattura che si determina nel cuore del cristianesimo europeo e che vede all’opera pensatori impegnati ad un tempo a ricucire gli strappi e a spingere per un rinnovamento della vita religiosa, alla ricerca di una spiritualità capace di riportare a nuova vita il messaggio di Cristo restituendone il suo senso più proprio e ad innervare di sé la vita civile rinnovandone ogni assetto, a tutto vantaggio di quella giustizia sociale senza la quale non è possibile avere quella pace alla quale un autore come Erasmo guarda come a un obiettivo da perseguire tenacemente. Alla lezione di Erasmo, maestro dell’umanesimo cristiano del primo Cinquecento, si sono formati in molti, compresi gli ‘eretici italiani’ che hanno creduto alla prospettiva del libero esame dei testi sacri e dell’esercizio della libertà di coscienza, protesi nello sforzo di comprendere i principi della fede alla luce di esigenze più intime e inquiete. Libertà o servitù dell’arbitrio, predestinazione e salvezza sono le questioni teologiche e dottrinali che animano il dibattito religioso di questi anni, questioni cruciali anche però per la riflessione filosofica poiché riguardano il modo di concepire la condizione umana. La tensione tra Cattolicesimo e Riforma pare cristallizzarsi con il Concilio di Trento eppure le istanze di rinnovamento non cessano di farsi sentire, né nell’uno né nell’altro campo, dando vita a movimenti forse non immediatamente riconoscibili eppure profondi, destinati a contribuire al formarsi di una coscienza moderna.

Come viene riconsiderata la relazione tra religione e politica e quella, conseguente, dei rapporti tra potere spirituale e potere temporale?
È con Machiavelli che la politica è elevata a forza capace di porre ‘argini’ alla fortuna e salvaguardare il vivere civile, che a suo avviso è possibile solo nel quadro di un sistema regolato da ‘ordini’ capaci di indirizzare, se non obbligare, la natura irrimediabilmente ferina degli esseri umani ad agire in vista del ‘bene comune’ piuttosto che a vantaggio del mero interesse particolare.

Di fronte ad una ‘fortuna’ che tutto travolge ed annienta, come le acque di un fiume che esonda, Machiavelli fa appello alla ‘virtù’ dell’agire politico che ha tra i propri strumenti anche la religione e le sue leggi, capaci di disciplinare i comportamenti dei popoli come attesta la storia di Numa Pompilio, che riuscì a dare leggi a Romani ancora selvaggi facendo loro credere di averle ricevute direttamente da una ninfa valendosi così dell’autorità di una creatura divina. Si tratta di un rovesciamento nella relazione tra religione e politica – non più la seconda in funzione della prima, bensì quella in funzione di questa – che segna lo sviluppo del pensiero politico. Diverso è l’approccio di Guicciardini agli occhi del quale Dio appare distante dalle vicende degli uomini nelle quali, a suo avviso, non è possibile riconoscere alcuna giustizia.

Un cambiamento nella relazione tra religione e politica si ravvisa anche nell’Utopia di Tommaso Moro – coeva del Principe di Machiavelli –, opera capitale che inaugura un genere fondamentale nella storia del pensiero politico rinascimentale e poi pienamente moderno. Nella società ideale descritta da Moro la religione è ridotta a pochi fondamentali articoli, utili a favorire coesione sociale e pace civile, ed è ammessa la presenza di altri culti sebbene ne sia proibita la predicazione, segno della consapevolezza di Moro degli effetti potenzialmente dirompenti del diffondersi di opinioni diverse in materia di religione. Questioni religiose e questioni politiche sono in questo periodo strettamente intrecciate: basti pensare alla separazione da Roma e da ogni subordinazione, spirituale e ecclesiastica, al pontefice operata dalle chiese riformate ed al modo in cui tale allontanamento è stato favorito da principi, duchi o feudatari, o al modo in cui il calvinismo è stato recepito in Francia, dove è divenuto uno degli elementi cruciali in uno scontro durissimo, sfociato nelle ‘guerre di religione’ protrattesi per decenni, in cui era in gioco la costituzione di una nuova, e ‘moderna’, entità statale. Si tratta di quello stato assoluto basato sulla moderna nozione di ‘sovranità’ definita da Jean Bodin, che acutamente priva il summum imperium di ogni connotazione confessionale rivendicando alla politica – intesa come la sfera in cui agisce il moderno soggetto politico, ossia lo stato – non solo autonomia dal potere religioso ma addirittura un primato rispetto ad esso, al punto da poter ammettere che religioni diverse pacificamente coesistano poiché tutte subordinate alla sovranità.

A perseguire l’intento di ripristinare quel nesso tra religione e politica che appariva irrimediabilmente compromesso furono i teorici della cosiddetta ‘Ragion di Stato’, libro capitale di Giovanni Botero, ma tutta politica è anche l’opera di Baldassar Castiglione, che indica nelle sottili arti del ‘cortegiano’ i mezzi con i quali intervenire al fine di indirizzare le scelte di chi regna.

In che modo la caduta dell’immagine tradizionale della realtà, il crollo dei confi­ni fisici, cronologici e astronomici considerati a lungo consueti e immu­tabili induce alla definizione di un nuovo sapere e di un nuovo metodo di indagine e verifica delle conoscenze?
La caduta dell’immagine tradizionale della realtà, il crollo dei confini fisici, cronologici ed astronomici costringe ad impegnarsi nella ricerca di un nuovo sapere e, con esso, di un nuovo metodo che possa garantirne la veridicità. Cardano, Galilei, Bacone, Montaigne con modi, traiettorie ed esiti diversi si muovono entro lo stesso ambito di problemi. Cardano mette alla prova tutti i campi del sapere tradizionale per saggiarne l’efficacia, sforzandosi di misurarne la capacità predittiva in un continuo richiamo all’esperienza, sia essa diretta, personale, o mediata da quanto riferito da altri. A muoverlo non è la sola curiosità ma una inquietudine profonda, quella che sente chi veda venire meno ogni riferimento e non riesca a trovare solidi appigli ai quali affidarsi. Non è un caso che Cardano si dedichi con tanta applicazione ed energia anche alla matematica ed alla meccanica, nelle quali può trovare quelle conferme che invece sempre gli sfuggono negli altri campi di una ricerca ad un tempo affannosa e sostenuta da un’esigenza che potremmo definire esistenziale: l’astrologia, la demonologia, la magia non offrono alcuna garanzia contro l’imprevedibilità, contro l’imponderabile, la tragedia dell’irrompere della morte nella vita degli esseri umani. Sono tratti modernissimi, sintomi evidenti di una sensibilità che si interroga sul senso dell’esistenza umana senza sapere più semplicemente aderire alle risposte tradizionali. Vicino a Cardano in questo è Montaigne che inaugura un nuovo genere letterario con i suoi Saggi, un’inesausta meditazione sulla vita umana, un’unica, monumentale opera interrotta solo dalla morte del suo autore. Montaigne addita nella pretesa umana di conoscere la verità delle cose la radice dei mali del suo tempo: troppo fragili, deboli e miopi gli uomini per attingere al vero, a garantire loro una vita pacifica e ordinata, e pacifica proprio perché ordinata, nient’altro che la coutume, quella consuetudine che non deve essere abbandonata se non a rischio di esporsi alla deflagrazione di ogni singola regola e della stessa vita sociale. Montaigne ad un tempo delegittima il presuntuoso senso di superiorità degli Europei nei confronti dei ‘selvaggi’ americani e rivolge a questi ultimi uno sguardo carico di umana pietà: in loro infatti, come in uno specchio deformante, rivede gli stessi difetti, passioni ed ambizioni che alimentano scontri e fazioni di qua dall’Oceano, non meno selvaggi gli abitanti del Vecchio Continente, se non altro perché altrettanto inconsapevoli della vacua inconsistenza delle loro rivendicate certezze. Anche Bacone, come Montaigne, è autore di ‘saggi’, e questo non è che uno dei motivi per i quali, assieme a Galileo Galilei, compare in un libro dedicato alla filosofia del Rinascimento mentre il canone vorrebbe entrambi ascritti alla storia della scienza. È infatti sul terreno della crisi rinascimentale del sapere tradizionale che nasce la scienza moderna e a tale processo Bacone dà un decisivo contributo: non tanto come scienziato vero e proprio, ché nessuna scoperta propriamente ‘scientifica’ può essergli attribuita, decisivi però la sua lotta contro gli idola, i pregiudizi che ostacolano l’accesso alla visione delle cose per come esse effettivamente sono, l’idea che la scienza debba essere al servizio della vita degli esseri umani e sia perciò funzionale alla tecnica, la convinzione che il progresso scientifico sia il frutto di un lavoro collettivo e non dipenda da un singolo individuo, per quanto geniale. È necessario organizzare e pianificare la ricerca scientifica, distribuire compiti e competenze, individuare gli obiettivi e perseguirli in virtù di un metodo condiviso, come accadrà già a partire dalla seconda metà del Seicento nella Royal Society che esplicitamente si richiama all’insegnamento di Bacone.

All’osservazione dei fenomeni naturali – le «sensate esperienze» – Galilei associa il richiamo al linguaggio della matematica – le «necessarie dimostrazioni» –, lo stesso, come si legge in una celebre pagina del Saggiatore, in cui è scritta la natura. È il passaggio decisivo da un’immagine qualitativa della natura ad una quantitativa che rende possibile misurare e dunque stabilire con esattezza le cause dei fenomeni. Dio sa tutto, precisa Galilei, gli uomini no, ma quanto scoperto con metodo scientifico lo conoscono con la stessa sicurezza che ne ha Dio. Le difficoltà incontrate da Galilei, i due processi e la condanna seguita al secondo si comprendono, però, solo alla luce della situazione costituitasi all’indomani del Concilio di Trento: a spiegarli sono motivazioni di ordine teologico e dottrinale prima e più ancora che astronomiche.

In che modo, in pensatori come Telesio, Bruno e Campanella, fiorisce la filosofia della natura?
Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella sono i più noti ed influenti tra gli autori che in questo periodo danno vita ad una rinnovata filosofia della natura. Le loro opere hanno da subito avuto diffusione e notorietà fuori dai confini nazionali e se per Bruno, che scrive e pubblica tutte le sue opere al di là delle Alpi nel corso della sua peregrinatio europea, ciò è facile da immaginare, meno scontato lo è per Campanella, che trascorre decenni confinato in carcere tra Napoli e Roma, e per Telesio, che vive per lo più nella sua Cosenza. Di Telesio scriverà Bacone, che pur criticandolo lo definisce «il primo dei moderni»; Campanella trascorrerà l’ultima fase della sua vita a Parigi, accolto negli ambienti di corte ed ascoltato dal Richelieu come consigliere sulle questioni italiane, ma anche come autore dell’oroscopo dell’erede al trono appena venuto al mondo, il futuro Re Sole, Luigi XIV, a cui annuncia un regno lungo e luminoso. A Parigi Campanella pubblica finalmente le sue opere, lette da Mersenne, Ugo Grozio, Huygens e Cartesio, che non lo ama affatto, e la notizia della sua morte è annunciata sulle gazzette della nascente République des lettres. Francia, Inghilterra, Germania, Boemia sono gli scenari in cui si muove Bruno prima del suo ritorno in Italia, a cui avrebbe fatto seguito il suo arresto, il lungo processo ed il tragico rogo. Bruno concepisce la natura come tutta viva, animata da un principio primo dotato di potenza infinita e perciò infinita essa stessa, innumerevoli i mondi e le forme in cui l’inesausta potenza del principio primo sempre e continuamente rinnova la vita. Bruno elimina ogni separazione tra mondo sublunare e mondo celeste, uno solo è il cielo ed unica la materia di cui è fatto, eliminata anche ogni separazione tra materia e forma ed ogni gerarchia tra di esse così come è messa in questione anche la tesi che tra gli esseri umani e gli altri viventi esista una differenza ontologica: a distinguerli sono piuttosto la mano e il linguaggio. Grazie alla mano gli umani possono agire sulla realtà e con il loro lavoro trasformarla e adeguarla alle proprie necessità; in virtù del linguaggio possono trasmettere il sapere da una generazione all’altra ma anche istituire quei vincoli in virtù dei quali è possibile dare ordine alla vita sociale. In questo è bravissimo il mago: la magia è un sapere ad un tempo teorico e pratico grazie al quale è possibile conoscere le qualità peculiari di individui, gruppi, popoli interi e intervenire su di esse in modo da vincolare, legare, gli umani gli uni agli altri ed indurli ad agire in vista del bene comune. Alla base del sapere magico l’idea che la natura sia intimamente unitaria e che in essa esistano canali di comunicazione grazie ai quali è possibile generare effetti a distanza, sollecitando le qualità dei diversi enti.

È una magia tutta naturale, qual’è quella di Campanella che pure, a differenza di Bruno, torna ad evocare l’esistenza dei demoni, dei quali Dio si serve come suoi «birri» per punire chi abbia agito male. Campanella valorizza la dimensione del ‘senso’: è tramite i sensi che gli esseri umani conoscono la realtà: suscita piacere, e gioia, ciò che rafforza la nostra spinta vitale, dispiacere, e dolore, ciò che la ostacola. Campanella ritiene che perciò gli esseri umani siano naturalmente dotati della capacità di distinguere il bene dal male: è la natura stessa ad indicarlo, quella natura che ai suoi occhi è ordinata in modo razionale e la cui logica è, a suo avviso, in pieno accordo con il messaggio divino rivelato nella Scrittura.

A partire da tale concezione della natura, viva e dotata di senso e perciò conoscibile agli esseri umani – che proprio in virtù della loro possibilità di conoscere il mondo naturale riescono su di esso ad agire in vista del bene comune – Campanella procede ad una ridefinizione di ogni ambito del sapere, in un lavoro monumentale che non tralascia alcun disciplina: teologia, metafisica, fisica, politica ma anche medicina ed astrologia sono ripensate dallo Stilese in opere scritte e riscritte per anni, in un corpus esteso per migliaia di pagine.

Telesio – che molto deve al pensiero dei presocratici, al punto che la sua opera è stata considerata già da alcuni tra i suoi contemporanei una riproposizione di Parmenide – delinea un’immagine della natura diversa rispetto a quella di impianto aristotelico: Sole e Terra, principi rispettivamente del caldo e del freddo, sono all’origine di ogni fenomeno naturale, tutto ciò che accade è frutto della loro azione reciproca, destinata a garantire l’equilibrio che permette la vita del tutto. Telesio soprattutto ritiene che quanto appreso dall’esperienza sensibile non debba essere respinto ­e che all’interno della natura debbano essere cercati i criteri, le regole ed i principi del suo funzionamento, insegnamenti che Campanella non avrebbe mai dimenticato.

Quale eredità consegna il dibattito filosofico rinascimentale alla riflessione successiva?
Le questioni affrontate dai filosofi vissuti nell’età del Rinascimento non scompaiono nei secoli successivi, piuttosto mutano forma, vengono esaminate e discusse in modi diversi, sulla base di altri linguaggi, metodi di ricerca e di dimostrazione, modalità argomentative, generi letterari. Non viene meno il problema di definire la condizione umana, ciò che cambia è piuttosto il quadro teorico generale a partire dal quale definirla: la concezione quantitativa della natura di Cartesio, ad esempio, che tanto deve al lavoro di Galilei, e la netta distinzione istituita dal filosofo francese tra res cogitans e res extensa inaugurano una nuova stagione della filosofia in cui centrale diventa la dimensione del soggetto ma nella quale risulta più difficile intendere i nessi esistenti tra la forza speculativa di cui gli esseri umani sono capaci e la dimensione naturale alla quale risultano comunque legati. Ne è consapevole Spinoza che, pur condividendo con Cartesio una concezione meccanico-deterministica della natura, tiene conto del ruolo e della funzione dell’immaginazione e con essa della sensibilità, attento soprattutto alle sue implicazioni sul piano religioso e politico. Hobbes, come Bodin, affronta il tema della autofondazione del potere politico ma il ‘contratto sociale’ prevede la preesistenza degli individui allo stato, condizione inconcepibile per Bodin per il quale è l’ordine istituito dalla sovranità, fosse anche quella del pater familias, a dare forma alla vita associata. Sono questioni che attraversano il dibattito filosofico anche nel corso del Settecento e non a caso Vico guarderà al Rinascimento come ad una fase preziosa degli studi insistendo soprattutto sul fatto che in questo periodo i filosofi non si ritraggono di fronte alle istanze della vita civile. È significativo inoltre il modo in cui in anni recenti è stato studiato il tema a prima vista più lontano dalla moderna concezione della filosofia, ossia la magia, alla quale si sono dedicati una quantità di pensatori dell’età del Rinascimento, e tra i più grandi. Considerata a lungo una ‘sopravvivenza’ premoderna, irriducibile ad una razionalità lucida e consapevole, sulla magia sono tornati gli studiosi proprio nel corso del XX secolo ed in misura crescente durante la seconda metà, spinti dal bisogno di comprendere come fosse stato possibile che la colta e civile Europa si fosse fatta ammaliare dalle deliranti fantasie di ‘stregoni’ cupi e mortiferi fino al punto di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. I ‘maghi’ rinascimentali erano ben consapevoli della dimensione sensibile e qualitativa degli esseri umani, della loro passionalità, delle loro fragilità, paure ed ambizioni e della ferocia di cui sono capaci, e su tali aspetti si prefiggevano di agire in modo da volgerne gli impulsi potenzialmente distruttivi in vista del bene comune.

Di lunga durata è anche l’influenza della concezione ciclica della storia, di impianto tipicamente rinascimentale. L’insistenza sulla relazione con gli antichi, il proporsi degli autori dell’‘età nuova’ quali fautori della rinascita di un sapere – e di una civiltà – un tempo fiorenti ma sprofondati in secolare oblio corrisponde in realtà ad un modo di interpretare il proprio tempo, concepito come un’epoca in cui la decadenza del mondo ‘vecchio’ coincide con l’affacciarsi di uno nuovo. È una visione in cui tutta la storia appare scandita da cicli destinati a succedersi l’un l’altro, secondo un modello di stampo biologico. Di tale impostazione si sentirà l’eco a lungo, basti pensare ai fautori dell’idea di progresso, rivolti fiduciosi all’avvenire, e ai loro avversari, i teorici di un imminente tramonto dell’Occidente destinato a chiudere un millenario ciclo di civiltà: gli uni e gli altri però, come Ficino e Pico, Bruno e Campanella, stanno in realtà rivolgendosi al proprio tempo ed al proprio mondo, stanno dando di esso un giudizio ed indicando una prospettiva sulla base di principi, assunti e valori che per quanto abilmente dissimulati non sfuggono a chi sappia leggere i testi per quello che veramente intendono dire: collocare il proprio tempo rispetto al generale sviluppo della storia universale, ce lo hanno insegnato i filosofi del Rinascimento, non è mai un’operazione neutra, essa implica delle scelte di campo ed una precisa progettualità. È questa la preziosa eredità del dibattito filosofico rinascimentale: interrogarsi sul Rinascimento equivale ad interrogarsi sulla fase germinale del mondo moderno, sui suoi tratti complessi e contraddittori, costitutivamente tesi tra decadenza e rinascita.

Andrea Suggi, studioso di temi e autori della filosofia del Rinascimento e dell’Età moderna, ha insegnato Storia della filosofia del Rinascimento all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è stato titolare presso l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI) di una ricerca dedicata al lessico etico-religioso e politico di Tommaso Campanella. Le sue pubblicazioni sono dedicate soprattutto al pensiero e ai testi di Jean Bodin, Tommaso Campanella, Niccolò Machiavelli, Pietro Pomponazzi, Giambattista Vico.

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