
Quali sono gli orientamenti di ricerca principali nel dibattito filosofico contemporaneo?
Come le altre scienze, anche la filosofia ha conosciuto, soprattutto nell’ultimo secolo, un’intensa specializzazione. Certo, anche nel Novecento, non sono mancate voci significative che hanno continuato a proporsi i grandi problemi filosofici di sempre: il senso dell’essere, il significato dell’esistenza, il fondamento della ragione, lo sviluppo della civiltà, la condizione umana nella società tecnologica. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del Novecento, è diventata sempre più rara la figura del filosofo che si proponesse l’intero spettro delle questioni del passato. Si è per ciò passati dalla filosofia in generale alle discipline filosofiche, sempre più spesso irrelate l’una rispetto all’altra. Un posto di rilievo ha avuto la riflessione sulla scienza e sulla tecnica, sia come ricerca sui fondamenti del sapere scientifico, sia come riflessione critica sulla sviluppo della tecnica nelle società contemporanee. Altra importante linea è quella rappresentata dalla riflessione sul linguaggio in varie direzioni: teoria del significato, rapporto fra linguaggio e realtà, fra linguaggio e pensiero, linguaggio e interpretazione, linguaggio e comunicazione. Oltre alla ricerca estetica sulle arti, sui fondamenti dell’etica e del diritto, sulla politica e sullo stato, una particolare importanza ha avuto (e continua ad avere) la critica sociale, l’indagine sulla condizione umana nella società contemporanea, la ripresa dei grandi temi dell’alienazione e della reificazione, in un rapporto di continuità ma anche di rottura nei confronti dell’originaria ispirazione marxista.
Quali paradigmi caratterizzano la riflessione filosofica contemporanea?
La mia tesi è che nel Novecento ci sia stata l’affermazione di un paradigma fondamentale, quello linguistico. Con ciò intendo la progressiva sostituzione della centralità del soggetto (la coscienza, la mente, l’Io) che aveva dominato gran parte della filosofia moderna da Cartesio a Hegel, con una nuova centralità caratterizzata dal linguaggio. Non si tratta semplicemente del fatto che i pensatori del Novecento abbiano fatto del linguaggio l’oggetto delle loro indagini, ma di qualcosa di più. Infatti essi hanno progressivamente tematizzato il linguaggio come qualcosa che sta – per così dire – alle nostre spalle, che condiziona non solo i rapporti intersoggettivi, ma anche la conoscenza delle cose e del mondo, il modo di pensare e quindi anche la nostra stessa soggettività. Il soggetto che era stato pensato come signore di se stesso e capace di un’autodeterminazione libera di sé, si vede progressivamente determinato da altro, de-centrato. Abbiamo perciò assistito a una nuova “rivoluzione copernicana” in filosofia, dopo quella kantiana che aveva posto il soggetto al centro dell’universo. Ora al centro sta il linguaggio, da intendersi non tanto come un sistema di segni e di simboli, ma nel suo intrecciarsi con le nostre pratiche comunicative, con i contesti storici e culturali. E se è vero che negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una sorta di contromovimento che ha rimesso in discussione quella centralità, riproponendo vecchie forme di realismo, ciò è servito essenzialmente a de-assolutizzare il linguaggio, cioè a vederlo legato alla nostra naturalità biologica e a i contesti storico-culturali in cui si forma la nostra individualità.
Come si è evoluto il pensiero filosofico contemporaneo?
La data di nascita del pensiero contemporaneo è da me collocata nella cosiddetta crisi del sistema hegeliano. C’è un prima e un dopo Hegel. Con la critica a Hegel mossa dalla sinistra hegeliana e sviluppata contemporaneamente da altri decisivi pensatori come Schopenhauer e Kierkegaard prende avvio una nuova consapevolezza filosofica: non solo l’impossibilità di porre il soggetto, cioè la coscienza pensante, al centro del mondo, ma anche l’impossibilità di ricondurre la totalità dei fenomeni a un fondamento unitario. È l’idea di totalità a entrare definitivamente in crisi e con essa la convinzione che le cose siano governate da un logos oggettivo. Nel mio libro definisco questo punto di partenza del pensiero contemporaneo come la divaricazione di essenza ed esistenza. L’esistenza delle cose non ha più un’essenza, una ragione, un senso unitario cui esse possano essere ricondotte. Nietzsche è il punto di arrivo di questa crisi: con lui entrano in discussione non solo la totalità, ma anche la ragione, la conoscenza, l’etica, la verità. Da qui prende avvio il pensiero del Novecento, che progressivamente trova un nuovo punto di aggancio nel linguaggio. Ma il linguaggio non può più sostituire quel fondamento ormai irrimediabilmente perduto: la ragione che viene ritrovata al suo interno può essere pensata solo come una ragione finita e fallibile, consapevole di non poter conferire un senso oggettivo e definitivo alle cose. I sensi del mondo e dell’esistenza sono solo sensi da noi (dai nostri linguaggi, dalle nostre precomprensioni, dai nostri contesti) “costruiti” (e quindi sempre de-costruibili). Le tre grandi tradizioni filosofiche che hanno caratterizzato il Novecento, ovvero quella fenomenologico-ermeneutica, quella neopositivistico-analitica e quella critico-dialettica arrivano per vie diverse (e spesso contrastanti) alla medesima conclusione. In ciò consiste quello che io chiamo il passaggio dal paradigma soggettivistico a quello linguistico.
Quali sono le voci più significative della filosofia contemporanea?
Due pensatori sono certamente al centro di questa nuova “rivoluzione copernicana”: Heidegger e Wittgenstein. L’intero pensiero del Novecento ha dovuto fare necessariamente i conti con queste due figure geniali. Con Essere e tempo Martin Heidegger non solo rivoluziona il modo in cui concepire la stessa nozione dell’essere mostrandone la costitutiva temporalità, ma rimette radicalmente in discussione quella nozione di soggettività trascendentale che – in continuità con la filosofia moderna – aveva trovato nel suo maestro Husserl una rinnovata centralità. Anche per Heidegger il mondo è qualcosa che è “per noi”, non è cioè pensabile nella sua indipendenza, ma “noi” – a nostra volta – non siamo i “registi” del mondo ma a nostra volta dipendenti da altro (“gettati”, dice Heidegger, perché non sappiamo né il nostro “donde” né il nostro “dove”). Insomma la soggettività trascendentale è a sua volta trascesa e resa dipendente. E questa è in fondo il senso della nostra umanità e della sua strutturale finitezza: siamo centrali e al tempo stesso periferici, costitutivi e contemporaneamente “costituiti”. Ma da che cosa? Qui si apre la riflessione heideggeriana sull’essere nella sua implicazione col linguaggio. E quest’operazione sarà ulteriormente continuata da Gadamer e dall’ermeneutica contemporanea. Ma se nel cosiddetto “secondo Heidegger” il linguaggio rischia di diventare enigmatico e inafferrabile (alla pari dell’essere), questo rischio viene essenzialmente corretto da Wittgenstein, in particolare con la sua ricerca avviata negli anni Trenta e culminata con le Ricerche filosofiche. In esse il linguaggio viene mostrato nel suo intreccio con le pratiche, con le regole dei nostri comportamenti, con la sua dimensione intersoggettiva e comunicativa. Esso è certamente un prodotto della nostra natura ma è anche qualcosa da cui noi dipendiamo. Nessuno di noi ha scritto le regole con cui parliamo e comunichiamo con gli altri. Le abbiamo trovate già operanti e abbiamo imparato a usarle semplicemente grazie a un addestramento linguistico che è anche un addestramento sociale. La seconda metà del Novecento non ha fatto altro che sviluppare ulteriormente il cammino avviato da questi due grandi pensatori.
Dinanzi al costante sviluppo delle neuroscienze e della tecnologia, quale futuro per la filosofia?
Neuroscienze e tecnologia pongono problemi che né le neuroscienze né la tecnologia sono in grado di risolvere. È il paradosso dello sviluppo tecnico-scientifico: quanto più progredisce, tanto più pone problemi etici, politici, ambientali, economici che non possono essere risolti con la razionalità strumentale o con la conoscenza scientifica. In questo contesto la filosofia e la sua razionalità comunicativo-argomentativa possono mantenere un loro ruolo specifico e lo spazio dove svilupparsi. Perché la ragione filosofica è anche essenzialmente razionalità critica. Qui la terza delle grandi tradizioni filosofiche del Novecento, quella critico-dialettica (che ha in Adorno e Habermas i suoi rappresentanti più significativi), ha certamente qualcosa da insegnarci. Ma, attenzione, la filosofia deve rinunciare alla sua vecchia pretesa (che risale a Platone) di voler indicare la “sua” risposta (etica, politica, sociale). Non ha più quel privilegio. Essa deve piuttosto mettersi al servizio della sfera pubblica, contribuire al dibattito sociale, mettersi in gioco e soprattutto sollecitare all’uso pubblico della ragione, ad essere argomentativi e critici, a mantenere “alto” il dibattito pubblico. La vecchia esortazione socratica al “lógon didónai”, a dare, esporre le ragioni delle proprie opinioni e convinzioni riacquista nuovamente la sua attualità.
Lucio Cortella è professore ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e presidente della Società Italiana di Teoria Critica. Studioso di Hegel e del pensiero filosofico contemporaneo, si è occupato in particolare di teoria critica, dialettica, ermeneutica, filosofia pratica, teoria del riconoscimento. Ha scritto libri su Habermas (1981), Aristotele (1987) Adorno (2006), ed è autore di tre monografie su Hegel: Dopo il sapere assoluto (1995), Autocritica del moderno (2002), L’etica della democrazia (2011).