
Come si sviluppa la lotta fra guelfi e ghibellini?
La morte di Federico II, nel 1250, non interruppe il conflitto, dato che in quindici anni di guerra ininterrotta le divisioni interne alle città si erano ormai radicate. Dal 1251 al 1268, l’Italia vide una conflittualità accesissima tra lo schieramento che faceva capo al papa e quello guidato dagli eredi di Federico, prima Corrado IV, poi Manfredi, infine Corradino di Svevia. In questi 18 anni gli scontri tra le fazioni e all’interno delle fazioni (i ghibellini, ad esempio, erano divisi fra i seguaci di Manfredi e quelli di Corradino) si alternarono a tentativi di pacificazione che spesso favorirono l’affermazione di regimi personali e autoritari. Il fuoriuscitismo politico divenne diffusissimo e contribuì all’insicurezza generale. Soltanto la discesa in Italia di Carlo d’Angiò e le sue vittorie contro Manfredi (nel 1266) e Corradino (nel 1268) sembrarono porre almeno momentaneamente termine al disordine. Alla fine di questa lunga serie di conflitti, i due partiti finirono col connotarsi come gli amici degli Angiò (i guelfi) e i loro nemici (i ghibellini) senza più alcun riferimento, se non puramente retorico, alle iniziali fedeltà alla Chiesa e all’Impero.
Oltre che fattori di divisione interna, il Suo libro dimostra che guelfismo e ghibellinismo lo furono anche di coordinazione esterna.
Il ruolo crescente del Regno di Sicilia come coordinatore politico di una delle alleanze, i ghibellini sotto Manfredi, i guelfi sotto gli Angiò, diede una significativa connotazione “nazionale” ai due schieramenti, che giungevano a comprendere tutta la nostra penisola. Ne nacquero reti di alleanza su scala sovra regionale, che cercavano (non sempre con successo) di coordinare le proprie scelte politiche e militari. La nascita di questi legami, però, favorì le divisioni interne alle città: dato che per Manfredi e per Carlo d’Angiò l’esistenza delle parti era una maniera per proiettare la propria autorità anche nell’Italia centro-settentrionale, essi si opposero con forza a ogni tentativo di pacificazione che mirasse a soffocare la faziosità.
Sempre nel libro, Lei osserva come nell’Italia del Duecento la contrapposizione tra le due parti fosse tutt’altro che ideologica e aprioristica.
Nei loro rapporti reciproci, che fossero di amicizia o di ostilità, le città italiane si fecero sempre guidare da un deciso pragmatismo. L’adesione a un comune fronte guelfo o ghibellino non impediva le guerre fra comuni, così come l’adesione a fronti opposti non impediva le alleanze. Se ci si impegna – come ho fatto nel libro – a dipanare attentamente i rapporti e le posizioni politiche, si scopre che quasi mai, dopo la morte di Federico II, in occasione dei conflitti si ritrovano schieramenti coerentemente “guelfi” o “ghibellini”, ma piuttosto alleanze create con molto pragmatismo attorno a obiettivi comuni. La giustificazione era quella esposta con molta chiarezza in una lettera del comune di Bologna: se noi siamo guelfi, consideriamo guelfi tutti i nostri alleati e ghibellini tutti i nostri nemici, a prescindere da quanto essi dichiarano di essere.
Sono esistiti papi ghibellini e imperatori guelfi?
Uno degli esiti paradossali della funzione prevalentemente retorica e propagandistica delle denominazioni di “guelfi” e di “ghibellini” fu proprio che le stesse autorità universali che in teoria avrebbero dovuto guidare le parti finivano con l’assumere posizioni politiche in contrasto con le parti stesse. Per esempio, alla fine degli anni Settanta del Duecento, papa Gregorio X entrò in conflitto con Carlo d’Angiò. Il pontefice si alleò dunque con l’imperatore eletto Rodolfo d’Asburgo contro Carlo. In circostanze come queste, ci rendiamo conto dell’inefficacia delle nostre etichettature: Gregorio era un papa “ghibellino”? O Rodolfo era un imperatore “guelfo”?
In che modo le lotte fra guelfi e ghibellini hanno condizionato attraverso i secoli la nostra cultura?
Nel libro cerco di mostrare che “guelfismo” e “ghibellinismo” cambiarono natura a cavallo fra XIII e XIV secolo, perdendo i loro iniziali connotati ideologici e restando senza più riferimenti – se non strumentali – alla Chiesa e all’Impero. Questo permise alle due denominazioni di sopravvivere e essere utilizzate per identificare le parti attive nelle città italiane almeno fino al primo Cinquecento. Esse rinacquero poi, come “neoguelfismo” e “neoghibellinismo” nel Risorgimento, a connotare due diversi atteggiamenti nei confronti dei rapporti fra la Chiesa e l’Italia. È indubbio che la figura attraverso la quale l’immaginario “guelfo e ghibellino” si è trasmesso alla cultura italiana contemporanea è quella di Dante Alighieri, elevato nell’Ottocento a “padre della patria” e utilizzato retoricamente come esempio dei danni provocati dalle lotte intestine. In tal modo, con un chiaro valore negativo, i termini “guelfi” e “ghibellini” sono arrivati fino a noi e fanno ancora parte a pieno titolo del lessico contemporaneo, tanto che nel linguaggio giornalistico sono utilizzati per etichettare qualsiasi divisione, da quelle fra i politici a quelle fra i sostenitori dei formaggi vegani.