“La disperazione d’amore” di Stefano Bonaga

La disperazione d’amore, Stefano BonagaSi intitola La disperazione d’amore il pamphlet di Stefano Bonaga, edito da Aliberti, che offre considerazioni a vario titolo sul tema del dolore d’amore: una collezione di aforismi più volte ristampata che, come si affretta a precisare l’Autore nella sua Avvertenza al lettore, rappresenta un’«operetta» che «non ha che fare con la filosofia».

La premessa epistemologica delle argomentazioni del filosofo bolognese è dichiarata: «In queste pagine si dice la verità della disperazione d’amore con la certezza serena di chi si disinteressa delle confutazioni», una verità che, «come ogni verità, va venerata da chi la conosce.»

Innanzitutto la definizione: «La disperazione d’amore è quel peculiare stato d’animo che fa sì che l’anima non abbia più status dove riposarsi, né figura in cui identificarsi. La disperazione d’amore è la progressiva sottrazione del sé a sé stessi» e che comporta «la completa sparizione della libertà di agire e di pensare».

La causa è presto detta: «Il disperato d’amore non vive il suo stato come perdita in senso stretto, nel senso in cui si perde un orologio, un treno o un parente. Egli lo vive piuttosto come sconfitta, cosa che prevede la presenza di un contendente il quale non è perduto, ma assente, e non gli dà rivincite. Il disperato d’amore non è interessato, a rigore, a ritrovare l’oggetto perduto – nella disperazione non lo si cerca anche se si sa che c’è e si sa dov’è – ma a poter battersi di nuovo con lui, come a bei tempi. È la presenza indifferente e lontana del contendente che produce la disperazione, non la sua perdita. Ciò che il disperato d’amore ha perduto nell’abbandono è la propria potenza, la radice del proprio essere.»

Sì, perché, – afferma Bonaga – «l’amore è la lotta in cui ciascuno vuol vincere». L’origine profonda dello struggimento amoroso è del resto adombrata dal filosofo bolognese con una vividezza che non lascia adito a dubbi: «Quando si soffrono le pene della disperazione d’amore bisognerebbe buttare l’io nella pattumiera. In genere esso è già là che ci attende.»

Ecco descritti i sintomi che la caratterizzano: «la sopravvalutazione del proprio dolore», «tipica nella disperazione d’amore», una «dedizione straziante» ai «propri terminali di telecomunicazione. Cassette delle lettere, segreterie telefoniche, telefoni vari e l’indirizzo email. Solo il parossismo dell’attesa di Godot può essergli paragonato. Con la differenza saliente che comunque Godot non si manifesta mai, mentre le telecomunicazioni continuano normalmente a funzionare con ogni tipo di messaggio, meno uno», quello dell’amato verso il quale si indirizza l’«inane attesa metafisica» di un contatto. «Nessuno apprezza l’oggetto d’amore come quando se lo immagina dopo la separazione.»

Ecco allora l’ingenuità di «chi spera che sia possibile usare la propria sofferenza come ricatto; ma non si conosce un solo cedimento dell’amato a tale presunta tattica». Sulla scorta di Hume, Bonaga ricorda che «la solitudine involontaria è la più triste delle passioni.» Una solitudine che si concreta anche nell’incomprensione del proprio dolore: «La disperazione d’amore degli altri è sottovalutata come l’altrui mal di denti: chiunque si sente in grado di darti un consiglio qualunque quando ti trova in quello stato, consiglio per il quale in genere fai fatica a non accopparlo, eppure lo devi ringraziare.»

Certo, i rimedi proposti dall’Autore possono talvolta spiazzare: «Quando si è disperati d’amore bisognerebbe vendicarsi subito, in qualunque modo, senza scrupoli. Una sana ribellione degli oppressi contro l’arroganza in sé della dittatura. Meglio ancora se l’altro è innocente, perché sarebbe ora che gli innocenti si assumessero le loro responsabilità.»

E poi la triste constatazione: «Lo stato di entropia della disperazione d’amore rende il desiderio di morte una spinta naturale. […] Non tutti i disperati d’amore naturalmente si suicidano, ma tutti pensano di farlo.»

Con una nota certamente popolare, perché condivisa da molti, se non da tutti: «L’offerta di amicizia da parte dell’amato che si è sottratto all’amore è frequente e spaventosa. Con essa l’assente esercita un altro degli atti di pura crudeltà di cui è specialista. Mentre considera l’amante ancora a sua disposizione – cosa peraltro quasi sempre drammaticamente vera – sembra addirittura sinceramente ritenere di compensare il di lui stato con una proposta generosa, che solo la cupa testardaggine dell’altro sottovaluterebbe. L’amato, pur non avendo più alcun interesse autentico per l’amante, non rinuncia all’ultimo piacere perverso: quello di mantenere e addirittura legittimare il suo precedente potere, attraverso un nuovo nome – amicizia – che comporta ancora bestialmente il tutto dei suoi diritti, a fronte del nulla dei diritti dell’amante. Il carnivoro giunge a proporre dunque alla sua vittima addirittura un menu senza carne: non è questa cosa, in fondo, l’amicizia?»

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