“La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale” di Fabio Paglieri

Dott. Fabio Paglieri, Lei è autore del libro La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale edito dal Mulino. Innanzitutto: quando e come nasce la disinformazione?
La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale, Fabio PaglieriLa disinformazione ha un cuore antico, per lo meno se la intendiamo come tentativo, casuale o deliberato, di spacciare su larga scala informazioni false, “travestendole” da verità. In un suo recente contributo (Routledge, 2019), Diego Marconi ricorda un esempio antico di tragica attualità, in questi tempi di COVID-19: descrivendo la pestilenza che afflisse Atene nel 430 a.C., Tucidide riporta la diffusa diceria secondo cui gli untori sarebbero stati gli odiati Spartani, colpevoli di avere avvelenato i pozzi del Pireo. In realtà il contagio veniva dall’Africa, e proprio per questo si era manifestato prima nella zona del porto, ovvero il Pireo: tuttavia la necessità di costruire un nemico e trovare spiegazioni confortanti ai mali del mondo producevano abbagli già all’epoca, e continuano a farlo tutt’oggi. Basta sostituire Atene con gli Stati Uniti, Sparta con la Cina, i pozzi del Pireo coi fantomatici laboratori di Wuhan, e ci accorgiamo di parlare di cronaca corrente. Né le motivazioni sono granché differenti, tanto sul piano cognitivo (il bisogno di spiegazioni semplici e consolatorie) quanto su quello politico (l’uso propagandistico di eventi tragici). Il tema dell’avvelenamento dei pozzi, poi, è un vero e proprio topos della bufala, nelle sue varie declinazioni. Durante tutto il Medioevo, per esempio, si è legato a filo doppio alla propaganda anti-semita, come documenta anche Carlo Ginzburg nella sua mirabile Storia notturna (Einaudi, 1989). Non si creda però che la disinformazione antica fosse solo di carattere pestilenziale: in realtà si presentava in mille forme. Nel libro discuto alcuni casi celebri: l’invenzione del mitico regno del Prete Gianni fra il XII e il XVII secolo, lo svarione cartografico della California tramutata in isola sulle mappe di mezzo mondo, e il ben più tragico caso dei Protocolli dei Savi di Sion. Per inciso, chi avesse una passione per la ricostruzione di questi capisaldi della disinformazione umana dovrebbe leggere o rileggere Baudolino e Il cimitero di Praga di Umberto Eco: per quanto romanzati, contengono una caterva di accurati dettagli sulla fola del Prete Gianni il primo, sulla composizione dei Protocolli il secondo. E se ancora non vi bastasse, non mancano ulteriori letture: l’ottimo La storia falsa (Rizzoli, 2008) di Luciano Canfora, sui falsi storici, e il bel volume di Errico Buonanno Sarà vero. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia (Einaudi, 2009), in cui delle bufale di annata si fa una ricca e minuziosa rassegna. Insomma, la documentazione non manca e dubbi non ce ne sono: viviamo disinformati e felici da ben prima che al CERN inventassero il World Wide Web.

Come riconoscere le bufale?
Questo è il tema principale del mio libro, e in parte anche di quello che lo ha preceduto, La cura della ragione (Il Mulino, 2016): si tratta di questione complessa, che qui potrò soltanto accennare. Tuttavia, in sostanza per riconoscere le bufale bisogna anzitutto comprendere quali sono i meccanismi che ci portano a darvi credito: bisogna cioè volgere lo sguardo verso l’interno, smetterla di essere ossessionati dall’idea che tutta l’informazione in circolazione sia di colpo diventata pessima (non è affatto vero, la qualità è più o meno quella di sempre, se mai è aumentata in modo drastico la quantità) e capire invece che a fare la differenza è la nostra capacità di discernimento, con tutti i suoi limiti. Fatto questo, ci si accorge che ci sono due principali “motori interni” della disinformazione, uno motivazionale e l’altro epistemico: il primo riguarda le nostre motivazioni, che ci rendono più gradevoli, e quindi appetibili, certe narrazioni piuttosto che altre; il secondo invece ha a che fare con le nostre capacità conoscitive e di ragionamento, che, come ci hanno insegnato decenni di psicologia sperimentale, sono afflitte da sistematiche distorsioni. Il tutto fortemente influenzato da filtri sociali, nel senso che l’informazione a cui siamo esposti, buona o scadente che sia, dipende in modo cruciale dalle persone con cui intratteniamo rapporti e scambiamo idee. Quindi saper coltivare le nostre reti sociali, e al contempo imparare come muoversi in esse, è il primo passo verso il riconoscimento delle bufale. Ma molti altri ce ne sono: ad esempio, l’umiltà intellettuale, che dovrebbe portarci ad accettare che non è possibile, e neppure necessario, avere un’opinione fondata su tutto; ad essa dovrebbe accompagnarsi anche una certa onestà, che ci consenta di distinguere fra cose in cui crediamo a ragion veduta, cioè dopo averci dedicato il tempo e gli sforzi necessari per esserne ragionevolmente sicuri, e quelle a cui crediamo per sentito dire, per convenzione, o magari per semplice inerzia. Anche queste opinioni sono legittime, però bisogna prenderle con la giusta leggerezza: c’è infatti la concreta possibilità che siano false, e occorre saperlo ammettere senza drammi. Ecco, forse è questo l’aspetto su cui porre maggior enfasi: bisogna imparare a convivere con l’errore. La quota di panzane che trangugiamo o addirittura infliggiamo ad altri è direttamente proporzionale alla nostra paura di ammettere uno sbaglio. Liberiamocene: sbagliare è un diritto, ma correggersi è un dovere!

Che relazione esiste tra bufale e Internet?
Molti vedono Internet come il principale responsabile del presunto proliferare contemporaneo della disinformazione. Dico “presunto” non perché non vi siano molte falsità in giro, ma perché la loro percentuale rispetto all’informazione attendibile non è mutata, è la quantità totale di informazione a cui siamo quotidianamente esposti ad essere esplosa. Naturalmente questa esplosione è davvero da attribuirsi alle tecnologie di rete, ma guardarne solo gli aspetti negativi sarebbe parziale e fuorviante. Se da un lato è vero che oggi molta disinformazione viaggia in rete, è altrettanto vero che le nostre capacità di verifica e rettifica delle notizie false sono state incredibilmente potenziate da quelle stesse tecnologie. Detto in parole povere, in rete incontriamo molte bufale, ed è sempre in rete che possiamo smascherarle, molto più facilmente di quanto avremmo potuto fare un tempo. Nel libro faccio vari esempi di questa ambivalenza nel rapporto fra Internet e disinformazione, ma per rendersene conto basta pensare all’uso della rete che ognuno di noi ha fatto durante questi mesi di pandemia. Forzati a stare in casa e comprensibilmente ansiosi di raccogliere informazioni su ciò che stava accadendo, tutti noi abbiamo frequentato Internet ancora più spesso di quanto non capiti di norma, e come sempre la disinformazione non è mancata. Tuttavia, avrete notato che, ogni qualvolta una falsa notizia iniziava a diffondersi, ad essa si affiancavano smentite e precisazioni piuttosto puntuali. Un premio Nobel un po’ sopra le righe si lanciava in affermazioni avventate sull’origine del virus? Queste venivano prontamente smontate da altre autorevoli fonti, con dovizia di argomenti. Iniziavano a serpeggiare ipotesi di occulti complotti sul rapporto fra terapia al plasma e ricerca di un vaccino per il COVID-19? Da più parti si levavano voci, pacate e ragionevoli, a spiegare la differenza fra una cura e un vaccino, che è poi quella fra guarire chi è già malato e prevenire che uno si ammali. Si usavano impropriamente i dati sulla crescita del contagio per dichiarare inefficaci le misure di contenimento? Qualcuno interveniva subito a spiegare, con chiarezza e rigore, l’inevitabile ritardo fra interventi ed effetti, nonché a illustrare la corretta interpretazione statistica dei dati. Insomma, nel complesso la nostra personale esperienza con l’informazione in rete al tempo del COVID-19 ci restituisce un quadro complesso, il cui bilancio netto è spesso positivo. Soprattutto, è un bilancio che dipende da noi, dalla nostra capacità di orientarci in un ambiente in cui informazioni attendibili e inattendibili convivono, pur restando chiaramente distinguibili. La vecchia storia per cui la bugia corre veloce, mentre la verità cammina lenta, sembra essere davvero una storia: Internet, rispetto alla disinformazione, non è solo parte del problema, ma anche (e soprattutto) parte della soluzione.

Cosa non va fatto con le bufale?
Innanzitutto, non bisogna averne paura, né esserne ossessionati: non perché la disinformazione non sia importante, ma perché con un po’ di pazienza e attenzione abbiamo tutti gli strumenti necessari per riconoscerla. Soprattutto, è importante non diventare a nostra volta veicoli di disinformazione, magari inconsapevolmente. Molti studi mostrano come le bufale insidiose siano frutto di “fuoco amico”: vale a dire, non provengono da persone o gruppi che consideriamo ostili o ideologicamente lontani, bensì da quelli che riteniamo nostri sodali digitali – gli “amici” su Facebook, i follower su Twitter, e via discorrendo. È comprensibile: spesso si tratta di persone che conosciamo anche nella vita reale e di cui magari abbiamo stima, e ad ogni modo condividiamo con loro una certa affinità di vedute: quindi la nostra vigilanza epistemica si abbassa ed è più facile dare credito alle informazioni che ci suggeriscono. Naturalmente lo stesso vale per i nostri conoscenti, quando siamo noi a proporre loro contenuti: questa, a ben pensarci, è una responsabilità notevole, soprattutto per chi ha reti sociali molto estese. L’ambiente digitale, come tutti gli ambienti, va mantenuto in ordine, e riuscirci è un’impresa collettiva che coinvolge tutti noi. “Non inquinare!” dovrebbe essere la prima regola nelle nostre avventure in rete: fuori di metafora, ciò significa accertarsi dell’attendibilità di ciò che si diffonde, segnalare esplicitamente quanto lo si ritiene credibile, possibilmente indicare la fonte, e in generale essere parchi nel condividere contenuti, visto che anche il rumore è un fattore di inquinamento. Non sono abitudini difficili da acquisire, però non bisogna neanche scandalizzarsi troppo se a molti fanno difetto: in fondo, e purtroppo, anche testate giornalistiche tradizionali trascurano spesso di riportare le fonti, o addirittura riprendono notizie raccattate proprio sui tanto vituperati social media. Anche per questo è salutare coltivare un sano scetticismo, che non significa partire dal presupposto che tutto sia falso, bensì una certa tendenza a sospendere il giudizio, a non accettare come vero qualcosa in assenza di fondati motivi per farlo: siccome tali motivi raramente sono evidenti, questo implica un processo di verifica delle informazioni, che fortunatamente è facilitato proprio dalle tecnologie di rete. Si tratta di un’abitudine fondamentale, anche perché chi della disinformazione ha fatto un mestiere, cioè i famigerati “information agents” a pagamento, sanno benissimo come sfruttare la nostra vulnerabilità al fuoco amico. Contrariamente alla vulgata, non si tratta affatto di fantomatici “hacker russi”, bensì di abili influencer che si infiltrano nelle nostre reti sociali e fomentano il consenso, imitando la nostra posizione di partenza per radicalizzarla ulteriormente: a livello collettivo, l’obiettivo è quello di aumentare polarizzazione e divisione, rinforzando dinamiche di ingroup-outgroup caratteristiche di tutte le società umane. Insomma, parafrasando l’antico adagio, dagli amici su Facebook mi guardi Iddio…

La tecnologia può essere d’aiuto nel contrasto alla disinformazione?
Assolutamente sì! Come dicevo prima, le tecnologie digitali offrono strumenti di inedita potenza per il reperimento, il confronto e la verifica delle informazioni. Naturalmente tutto questo richiede competenze, che per fortuna sono sufficientemente terra terra da essere alla portata di tutti, ma che comunque vanno adeguatamente allenate: da questo punto di vista, la battaglia per la digital literacy è anche, inevitabilmente, una lotta per l’information literacy. Sottolineo il concetto di “allenamento”, che serve a enfatizzare la natura eminentemente pratica delle abilità in gioco. Circola il pregiudizio che la conoscenza sia questione teorica, magari persino nozionistica, ma è una fesseria: costruire conoscenza richiede innanzitutto competenze di ragionamento, e il ragionamento è una prassi, rispetto a cui ci si può e ci si deve allenare, possibilmente di continuo. Questo è tanto più vero oggi, in un mondo in cui larghe porzioni dello scibile umano sono “a portata di click”, e tuttavia avervi accesso in modo critico richiede capacità di ricerca e discernimento. La tecnologia può fare molto anche in tal senso, a patto che non si cada vittima della “mentalità della gruccia”: intendo dire che la tecnologia deve favorire lo sviluppo delle capacità di ragionamento degli utenti, anziché sostituirsi ad esse. Qui si gioca gran parte del dibattito fra apocalittici e integrati sulle tecnologie di rete: i primi le vedono come la morte del pensiero critico e dello sviluppo di una reale autonomia di giudizio, i secondi ne magnificano il potenziale di accelerazione e democratizzazione della conoscenza. Personalmente propendo più per una visione positiva, ma sono consapevole che molto dipende dal tipo di tecnologie che la nostra società deciderà di sviluppare. Su questo, non ci sono davvero limiti alla fantasia. A titolo di esempio, date un’occhiata alla piattaforma Bad News (https://getbadnews.com), sviluppata dall’Università di Cambridge e da un gruppo di accademici, giornalisti ed esperti di media olandesi, chiamati DROG. In questo gioco educativo online, sintetizzato dallo slogan “un buon modo di combattere le cattive notizie”, i giocatori vestono i panni dei disinformatori professionisti: sono cioè invitati a studiare la nascita, la diffusione e il successo della disinformazione dall’interno, contribuendo a crearla e a diffonderla, naturalmente in un contesto protetto e senza peggiorare il generale inquinamento dell’infosfera. L’applicazione è ispirata alla teoria dell’inoculazione, secondo la quale la resistenza ai fattori persuasivi si sviluppa esponendosi a versioni analoghe ma meno forti degli stessi fattori, esattamente come avviene con le vaccinazioni in campo medico. Provando a costruire bufale per gioco si acquisiscono così gli anticorpi per resistere alle panzane che ci minacciano nella vita reale. La cosa bella è che funziona: un primo studio su quasi 15000 utenti della piattaforma ha mostrato un netto miglioramento nella loro capacità di individuare notizie truffaldine e fuorvianti, senza tuttavia accrescere il loro scetticismo verso informazioni attendibili, e dunque scongiurando rischi di eccessivo cinismo. Ecco, se sapremo investire di più in soluzioni tecnologiche creative al problema della disinformazione, allora un certo ottimismo potrebbe essere giustificato.

In che modo è possibile convivere felicemente con la disinformazione?
Il libro si chiude con due riferimenti fiabeschi, Cappuccetto Rosso e Pollicino, usati per stigmatizzare altrettanti modi di convivere con la disinformazione: quella di Cappuccetto Rosso è la storia di una vittima del bosco, in cui si avventura senza strumenti e senza consapevolezza, finendo così nello stomaco del lupo e dovendo affidarsi al salvifico intervento di forze esterne per cavarsi di impiccio; al contrario, Pollicino del bosco vede tanto i pericoli quanto le opportunità, e la sua è una storia di riscatto personale attraverso l’astuzia e l’ingegno. Fuori di metafora, il bosco è l’attuale ecologia dell’informazione, e la storia di Pollicino ci indica il modo giusto di affrontarla: con cautela ma anche con coraggio, con umiltà ma anche con creatività, e sempre con la piena consapevolezza dei propri mezzi e delle opportunità che ci si prospettano di fronte. Pollicino si considera, correttamente, pienamente responsabile del suo destino: nell’affrontare la nostra dose di disinformazione quotidiana, tutti noi dobbiamo assumere lo stesso atteggiamento. Purtroppo, la tentazione del vittimismo è sempre in agguato, non solo per noi, ma anche per le istituzioni, che la declinano nel suo corrispettivo politico, ovvero il paternalismo. Troppe nobili iniziative di lotta alla disinformazione sono viziate da questo peccato originale: considerare i cittadini come minus habens, bisognosi di protezione dai pericoli della rete e incapaci di sviluppare in proprio senso critico e discernimento. Questa è una falsità che rischia di avverarsi, una tragica profezia auto-veridittiva: guai infatti a creare l’aspettativa di un controllo dall’alto sulla qualità dell’informazione, giacché questo rinforzerebbe proprio quello stesso alibi che occorre smantellare – l’idea che il problema della disinformazione sia da qualche parte là fuori, anziché riguardare noi stessi e le nostre capacità di giudizio. Per questo mi preoccupano molto varie proposte di lotta alle fake news su basi legali: non solo perché finiscono col generare prospettive distopiche (e infatti vengono puntualmente criticate dagli organi internazionali per la tutela della libertà di espressione), ma anche perché in ultima analisi cercano solo di scaricare il barile della disinformazione su qualche colpevole di comodo (tipicamente, i fornitori di servizi digitali). È un approccio non solo fallimentare, ma addirittura dannoso. Al contrario, la disinformazione felice richiede innanzitutto una presa di responsabilità da parte di ognuno di noi: sia nel comprendere quali facoltà possiamo e dobbiamo allenare per tutelarci da manipolazioni e falsità, sia nel misurare con cura il nostro contributo al dibattito collettivo, onde evitare di diventare noi stessi spacciatori di bufale.

Quale futuro a Suo avviso per le bufale?
Il futuro che mi auguro è caratterizzato da una maggiore consapevolezza del nostro ruolo nel ciclo della disinformazione: un mondo in cui tutti noi ci facciamo carico della nostra quota di disinformazione, senza patemi ma anche senza alibi, e ci rimbocchiamo le mani per ridurre la nostra “disinformation footprint”, per rubare un’altra immagine all’ambientalismo. In un mondo del genere, le bufale non sarebbero più viste come orrori da abbattere a vista o scherzi di natura da additare al pubblico ludibrio, bensì diventerebbero utile occasione di meravigliose avventure conoscitive, individuali e collettive. Il disvelamento della bufala, infatti, è una pratica da affrontare con rigore e leggerezza, con attenzione e rispetto, con ironia e tenacia: le bufale svelate fanno spesso ridere, ma dobbiamo ricordarci che in fondo stiamo ridendo di noi stessi, degli accidenti umani che hanno reso noi e tanti nostri simili vulnerabili alla menzogna, dall’alba dei tempi fino ai giorni nostri. Da quella risata occorre imparare qualcosa su di noi, altrimenti è il riso dello stolto. Questo è ciò che mi auguro. Invece quello che temo è la militarizzazione della disinformazione, un processo in corso da millenni (la propaganda non è certo nata con Internet), ma che oggi subisce un’accelerazione inedita e rispetto al quale il mondo dovrebbe attrezzarsi, non solo con investimenti di intelligence, ma anche e soprattutto lavorando sull’educazione della popolazione. A costo di fare un’affermazione retrò e un po’ scontata, non possiamo dimenticarci che la lotta alla disinformazione parte dalla scuola, e senza la scuola non potrà mai essere vinta. Il che è facile a dirsi, tant’è vero che molti lo dicono, ma poi di rado si agisce di conseguenza, almeno nel nostro paese. Se la scuola è in prima linea nel garantire a tutti le capacità necessarie a districarsi nella nuova ecologia dell’informazione, allora bisogna fornire alla scuola risorse commensurate all’impresa: non solo in termini di finanziamenti (comunque necessari), ma anche dal punto di vista delle infrastrutture e delle competenze. Purtroppo, in Italia nulla di tutto questo si intravede all’orizzonte.

Fabio Paglieri è primo ricercatore all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR. È stato Presidente dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive (2017-2019), è chair della European Conference on Argumentation, e dirige due riviste, Sistemi Intelligenti (Mulino) e Topoi (Springer). Si occupa di processi di ragionamento, presa di decisione e pratiche argomentative. Su questi temi ha pubblicato oltre 100 contributi scientifici su riviste e volumi, nonché tre monografie: Saper aspettare (2014), La cura della ragione (2016) e La disinformazione felice (2020)

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