
Il corpo diplomatico italiano, insieme a quello della Santa Sede, è una delle diplomazie più antiche al mondo, con una continuità di esistenza plurisecolare che trae le sue origini dall’attività dei primi diplomatici della Corte dei Duchi di Savoia nel Quattrocento. La diplomazia è una componente importante della classe dirigente italiana che svolge un ruolo importante nella vita politica del nostro Paese, il quale spesso viene sottaciuto e sottovalutato per il carattere specifico di tale professione, posta al servizio dei vertici politici dello Stato e tenuta alla riservatezza. Il corpo diplomatico è stato una grande fucina di alti funzionari dello Stato nonché un importante centro di elaborazione intellettuale e politica della vita italiana. A nostro avviso, la ricostruzione della storia della diplomazia italiana consente uno sguardo originale e rivelatore su alcuni problemi e aspetti importanti della storia dell’Italia unitaria: la genesi e la composizione della classe dirigente e la questione della continuità e discontinuità storica dello Stato italiano fra epoca monarchica liberale, fascismo e democrazia dei partiti; l’impatto dell’evoluzione del sistema politico mondiale sui caratteri e sui valori della politica estera italiana e i mutamenti sociali e culturali in seno alle élite italiane negli ultimi tre secoli.
Quali sono stati i passaggi più difficili di fronte ai quali si è trovata la diplomazia dell’Italia unitaria?
Il momento più difficile e traumatico della vita dello Stato italiano è stato la sconfitta militare nel corso della seconda guerra mondiale, con la conseguente occupazione straniera del territorio nazionale. La classe dirigente italiana dovette affrontare la difficile sfida di preservare l’indipendenza dello Stato e di realizzare il reinserimento dell’Italia in un sistema internazionale creato e plasmato dalle Potenze vincitrici della guerra mondiale. La diplomazia italiana ha svolto un ruolo importante in tutto ciò, prima sostenendo fortemente l’azione del governo Badoglio di cambiamento di fronte e di costruzione di un rapporto di collaborazione con le Nazioni Unite, poi impegnandosi, sotto la guida di Alcide De Gasperi, per reinserire con successo l’Italia nello schieramento delle potenze occidentali e fare del nostro Paese uno dei leader del processo d’integrazione europea. In quegli anni uomini della diplomazia come Renato Prunas, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri, Pietro Quaroni, ambasciatore a Mosca e a Parigi, Vittorio Zoppi, pure lui segretario generale, Carlo Sforza, ministro degli Esteri con De Gasperi, hanno svolto un ruolo decisivo e positivo per le sorti dell’Italia.
Quali vicende hanno segnato la nascita di un’unica diplomazia al momento dell’unificazione?
Lo Stato unitario italiano non nasce dal nulla nel 1861, ma è piuttosto il prodotto della trasformazione di uno Stato preesistente, quello sabaudo, che muta e cambia ma non svanisce. La vecchia cultura amministrativa e politica della burocrazia statuale sabauda si trasmise al nuovo Stato nazionale italiano mutando e trasformandosi, e in questo modo sopravvivendo. Nel 1861 il nuovo ministero degli Affari esteri italiano mantenne la stessa organizzazione interna di quello del Regno di Sardegna, e l’ultimo segretario generale del ministero degli Esteri del Regno sardo, Domenico Carutti di Cantogno, divenne il primo segretario generale del ministero degli Esteri del Regno d’Italia. Le lingue interne di lavoro della diplomazia rimasero per vari decenni quelle dell’antico Stato sabaudo, l’italiano e il francese, e i piemontesi e i savoiardi dominarono il corpo diplomatico italiano fino all’inizio del Novecento. Ma fin dal 1848 la classe dirigente sabauda aveva perseguito una politica di apertura e di integrazione di esponenti politici provenienti da altre parti d’Italia. Dopo l’Unità, per fare fronte alle esigenze della nuova situazione, si decise di procedere immediatamente ad un ampliamento del personale diplomatico, con l’immissione in carriera di diplomatici in passato appartenenti agli antichi Stati italiani, soprattutto al Granducato di Toscana e al Regno delle Due Sicilie. Il corpo diplomatico italiano, quindi, sorse dall’unione fra i diplomatici sabaudi (al cui interno vi erano tre componenti: la savoiarda, la piemontese e il gruppo di collaboratori e seguaci di Cavour, quali, ad esempio, Costantino Nigra) e alcuni funzionari degli Stati annessi. Un problema cruciale per la diplomazia italiana fu la creazione di una cultura politica organica e omogenea, che conciliasse antichi e nuovi valori. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, quindi, si delineò una nuova cultura diplomatica italiana che fondeva due diverse tradizioni politico-culturali: da una parte, la tradizione diplomatica degli Stati italiani preunitari, con un ruolo dominante di quello sabaudo, fondata sostanzialmente sulla cultura della ragion di Stato, con una visione della diplomazia come arte di governo, il cui supremo e primario obiettivo era la conservazione o l’aumento della potenza dello Stato; dall’altra, la nuova ideologia liberale-nazionale della classe politica risorgimentale, mirante all’affermazione dei diritti di libertà individuale e nazionale e alla creazione di uno Stato italiano unitario e indipendente.
Cosa ha rappresentato, per la nostra diplomazia, il ventennio fascista?
La diplomazia era uno dei gruppi e delle istituzioni che appartenevano più pienamente all’establishment liberale italiano. Essa rappresentava una cultura politica in larga parte estranea al movimento fascista. Vi era una profonda diversità culturale, sociale e politica fra il personale diplomatico e i militanti e i capi del movimento fascista, spesso piccolo-borghesi provinciali privi di esperienze internazionali. Nei primi anni Venti, non a caso, molti fascisti videro nei diplomatici un corpo dello Stato estraneo al fascismo. La diplomazia era ritenuta parte di quella classe dirigente liberale che era stata incapace di difendere le rivendicazioni nazionali e coloniali italiane dopo la guerra mondiale e che aveva collaborato con Giolitti e Sforza nel concludere il trattato sui confini con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, il cosiddetto accordo di Rapallo, presunto simbolo della rinuncia italiana alla Dalmazia e all’egemonia nell’Adriatico, ovvero della «vittoria mutilata». Per tutti gli anni Venti molti ambienti politici fascisti chiesero ripetutamente il rinnovamento del corpo diplomatico e la fascistizzazione del ministero degli Affari esteri. Lo stesso Mussolini disprezzava i diplomatici come corpo sociale chiuso e retrogrado. Ma progressivamente comprese l’utilità che i diplomatici potevano avere per i suoi progetti politici. Il diplomatico possedeva una competenza professionale rara e specifica, non facilmente reperibile; il fascismo non disponeva di personale in possesso di quelle competenze e che potesse sostituire il diplomatico di carriera: da qui la necessità di usare la diplomazia esistente e collaborare con essa. In questo senso la collaborazione che Mussolini sviluppò con il segretario generale del ministero degli Affari esteri, Salvatore Contarini, esponente dell’establishment liberale giolittiano, e la gran parte della diplomazia italiana dopo il 1922 fu una scelta quasi obbligata per il capo del fascismo. Fu una scelta, d’altronde, che rispose successivamente anche alla predilezione del duce per l’uso della burocrazia statale come strumento primario di governo. Di fatto, per vari anni, nonostante le pressioni di molti fascisti, non assistemmo ad una reale fascistizzazione della diplomazia italiana. Negli anni Venti e nella prima metà degli anni Trenta Mussolini non desiderò dare troppa forza al partito fascista e alle sue organizzazioni in seno alle strutture dello Stato. L’ingresso di molti esponenti fascisti nella diplomazia nel 1928 rispose più che altro all’esigenza di trovare una sistemazione stabile e onorevole ad alcuni politici fascisti e nazionalisti rimasti esclusi dalle liste elettorali fasciste o da cariche governative. Non a caso l’ingresso dei ventottisti fu realizzato da quello stesso sottosegretario, Dino Grandi, che s’impegnò anche per escludere i nuovi arrivati da ruoli di rilievo nella carriera diplomatica. I ventottisti ebbero scarsa influenza nella politica estera italiana: di fatto sia nel periodo di Grandi come ministro degli Esteri che in quello del sottosegretariato di Fulvio Suvich, ai vertici del Ministero vi furono diplomatici di carriera di cultura liberale, conservatrice-monarchica, nazionalista o già vicini alle posizioni neo-liberali di Sforza e Contarini (Augusto Rosso, Raffaele Guariglia, Pompeo Aloisi, Vittorio Cerruti, Luca Orsini Baroni). Peraltro, la grande maggioranza dei diplomatici italiani, pur sentendosi estranea politicamente e culturalmente al fascismo, accolse benevolmente l’avvento al potere di Mussolini, considerato un leader energico e capace, in grado di assicurare quella stabilità politica interna necessaria per rafforzare l’Italia sul piano internazionale. Di fatto, poi, le direttive di politica estera del governo Mussolini fino alla guerra d’Etiopia non si mostrarono molto diverse da quelle perseguite dagli ultimi governi liberali: rafforzamento dell’influenza politica ed economica italiana nei Balcani e nel Mediterraneo, ricerca di spazi per un’espansione coloniale in Africa, tentativo di fare crescere il peso internazionale dell’Italia in Europa cercando di divenire l’ago della bilancia fra Francia, Gran Bretagna e la risorgente Germania. Il consenso della diplomazia italiana all’azione di Mussolini fu particolarmente convinto fra il 1932 e il 1936, gli anni del patto a Quattro, della difesa dell’indipendenza austriaca, dell’avvicinamento alla Francia e della realizzazione della tanto sognata espansione in Africa. La convinta collaborazione fra il regime e la gran parte della carriera si affievolì dopo la guerra d’Etiopia, con l’assunzione della carica di ministro degli Esteri da parte di Galeazzo Ciano e la svolta filo-hitleriana che Mussolini impresse alla politica estera italiana. Fra il 1936 e il 1938, per facilitare il consolidamento del suo potere personale e aumentare il consenso in seno alla carriera alla nuova linea politica filotedesca e antioccidentale, Ciano, con il beneplacito di Mussolini, procedette all’accantonamento e all’emarginazione di quei diplomatici che avevano incarnato la precedente politica di collaborazione con la Francia e la Gran Bretagna o che rappresentavano la tradizione politica prefascista. Vennero messi a riposo, prima dei limiti d’età, Pompeo Aloisi, Vittorio Cerruti, Carlo Galli, Giuliano Cora; altri furono privati di ogni sostanziale influenza politica con l’invio in sedi ritenute secondarie nella nuova politica estera imperiale mussoliniana (Fulvio Suvich a Washington, Augusto Rosso a Mosca). La vecchia guardia, spesso di formazione prefascista, liberale, o nazionalista conservatrice, venne sostituita ai vertici della carriera da alcuni funzionari, che si proclamavano, per convinzione o opportunismo, autentici fascisti (Bernardo Attolico, Luca Pietromarchi), da alcuni giovani diplomatici legati personalmente all’entourage di Ciano (Filippo Anfuso, Blasco Lanza D’Ajeta, Massimo Magistrati), e da alcuni ventottisti (Giuseppe Bastianini, Raffaele Casertano, Serafino Mazzolini) finalmente ascesi a ruoli di primaria responsabilità.
È interessante notare che nel corso degli anni Trenta alcuni elementi dell’ideologia politica fascista cominciarono a comparire con una certa frequenza nel discorso diplomatico italiano. Nella cultura diplomatica italiana si fece più evidente un crescente ideologismo di matrice fascista: il nuovo programma ideologico del fascismo imperiale (la centralità della lotta antibolscevica nella politica estera italiana, la solidarietà con i movimenti fascisti o filofascisti stranieri, l’affinità e la fratellanza con il nazionalsocialismo germanico) venne accettato da molti senza troppi dubbi e scrupoli, anche se sostanzialmente estraneo dalla tradizionale cultura politica della diplomazia italiana, e diverso dalle direttive della politica estera perseguita di Mussolini prima del 1936. Dopo la guerra d’Etiopia, come Mussolini, anche molti diplomatici italiani si convinsero che l’Italia era ormai una grande potenza mondiale, uno Stato «forte», che doveva considerarsi pari all’Impero britannico, agli Stati Uniti, alla Germania. Da qui l’esigenza di una politica mondiale, che portasse all’espansione economica e politica italiana nei vari continenti e alla diffusione dell’ideologia fascista.
Comunque, nonostante il diffondersi dell’ideologia fascista nella cultura diplomatica italiana, nel corso degli anni fra le due guerre, a nostro avviso, rimase sempre viva la vecchia tradizione liberalnazionale e realista della diplomazia, seppure costretta a confrontarsi con i drammatici mutamenti provocati dalla guerra mondiale e con i valori di un’ideologia fascista egemone nel Paese e che cominciava a diffondersi con forza nelle nuove generazioni. Questa sopravvivenza fu possibile a causa dell’impossibilità per il regime di fascistizzare completamente il corpo diplomatico. La fascistizzazione, in primis, fu frenata dalla breve durata del regime, che impedì un completo ricambio del personale diplomatico. Altro elemento che limitò la fascistizzazione del ministero degli Esteri fu l’eterogeneità ideologica e politica dello stesso personale di estrazione fascista. Alcuni diplomatici fascisti, in particolare quelli di formazione nazionalista o liberalconservatrice (ad esempio, Leonardo Vitetti, Roberto Cantalupo, Suvich, lo stesso Dino Grandi in fondo), seppur convinti seguaci del regime, erano estranei ad elementi ideologici cruciali del fascismo imperiale e totalitario, ideato da Mussolini a partire dalla crisi etiopica, quali la polemica antiborghese e razzista, il progetto della creazione dell’uomo nuovo fascista e l’alleanza ideologica con il nazionalsocialismo tedesco. Significativa a questo riguardo è la posizione di crescente dissenso verso le direttive della politica estera di Mussolini assunta da un esponente di rilievo della diplomazia italiana come Raffaele Guariglia, ambasciatore a Parigi, ostile alla rottura totale con Francia e Regno Unito, e dopo il 1940 sempre più critico verso vari aspetti della politica del regime fascista come la polemica antiborghese e la propaganda ultra-bellicista.
Come ha affrontato, la nostra diplomazia, la sua rifondazione dopo il secondo conflitto mondiale e l’adattamento della politica estera italiana al bipolarismo sovietico-statunitense?
Personalmente condivido il giudizio positivo che Roberto Gaja ha dato posteriormente dell’operato di Renato Prunas, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri dal 1943 al 1946 e protagonista dell’azione diplomatica italiana fino all’avvento di De Gasperi alla guida del ministero degli Affari esteri alla fine del 1944. Prunas ebbe il merito di delineare, in un contesto difficilissimo, con pochi mezzi, tanta fede e patriottismo, alcune delle linee guida di quel percorso diplomatico che avrebbe portato l’Italia al reinserimento nel sistema internazionale e al riacquisto di un ruolo non marginale nella politica europea e mediterranea. Prunas rifondò il ministero degli Affari esteri, ridando entusiasmo, compattezza, orgoglio e spirito di corpo a una diplomazia italiana uscita denigrata e impoverita politicamente e culturalmente dagli ultimi anni del fascismo. Battaglia cruciale di Prunas e dei suoi collaboratori fu garantire la continuità dello Stato italiano, la riconquista della sua piena sovranità, la sua indipendenza di fronte alle velleità neocoloniali di una Commissione di controllo anglo-americana dominata da Londra. Proprio fra il 1944 e il 1945 si delineò poi l’individuazione degli Stati Uniti come principale punto di riferimento politico, militare e finanziario per l’Italia nella sua azione internazionale. Ma molto importante fu anche l’avvio di una politica di riconciliazione nazionale con gli Stati vicini, in particolare con la Francia e l’Austria. Particolarmente significativo fu l’accordo italo-francese del febbraio 1945 che consentì la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Francia aprendo progressivamente la strada alla costruzione di una stretta collaborazione politica con Parigi, che avrebbe portato al progetto di unione doganale fra i due Paesi, al sostegno francese all’adesione italiana all’Alleanza atlantica e alla partecipazione di Roma al processo di integrazione europea. Infine, fu molto significativa l’iniziativa di Prunas di ristabilire rapporti e cercare di costruire un dialogo sincero e onesto con la Russia sovietica. Vale la pena di sottolineare il significato di lungo periodo di tale iniziativa per la politica estera italiana. Il messaggio che il conservatore monarchico Prunas inviò a Mosca fu quello della volontà di riconciliazione dell’Italia postfascista dopo l’aggressione fascista contro la Russia sovietica, ovvero l’intenzione di abbandonare ogni forma di politica imperialista e antirussa, di rifiutare il sostegno ad ogni disegno antisovietico e di tornare piuttosto ai tradizionali rapporti di amicizia italo-russa stabiliti dall’accordo di Racconigi del 1908.
Possiamo definire quella di Prunas una politica estera conservatrice, ispirata dalla volontà di abbandonare la sbornia ideologica fascista e di tornare alla tradizione politica della diplomazia italiana, fondata sulla difesa della ragione di Stato e sui valori liberal-nazionali del Risorgimento.
Il rinnovamento politico e ideologico della diplomazia italiana prese avvio successivamente all’era Prunas, a partire dal 1947, dopo la firma del trattato di pace e l’inizio della guerra fredda, con l’affermarsi di un sistema internazionale bipolare dominato da Stati Uniti e Unione Sovietica e la scelta italiana dell’adesione al blocco occidentale. L’incontro con il mondo statunitense, il confronto con le élite dei popoli asiatici e africani bramosi d’indipendenza e di emancipazione dagli imperi coloniali europei, le inedite dinamiche politiche e ideologiche della politica internazionale nell’età della guerra fredda provocarono progressivamente in seno alla diplomazia e alla classe dirigente italiana un ripensamento della visione del ruolo dell’Italia nel mondo e dei modi di perseguire l’azione internazionale del nostro Paese. Le grandi sfide che Alcide De Gasperi, Carlo Sforza, la classe dirigente centrista e la diplomazia dovettero affrontare sul piano della politica estera furono, da una parte, reinserire l’Italia nella comunità internazionale su un piano paritario e di eguaglianza con gli altri Stati dopo la rovinosa sconfitta militare e in un sistema politico mondiale che si era venuto costituendo proprio in totale contrapposizione e antagonismo contro il Tripartito tedesco-nippo-italiano; dall’altra, riuscire a riconquistare un peso significativo nella politica internazionale nonostante la perdita di forza dello Stato italiano dopo la sconfitta bellica, la cessione delle colonie e la retrocessione di rango fra le potenze mondiali provocata dal non avere più l’Italia né un grande esercito e flotta e dal non potere costruire e possedere armi atomiche.
I governi centristi e la diplomazia italiana riuscirono ad affrontare queste sfide con successo. La guerra fredda si rivelò un’inaspettata opportunità per l’Italia. Gli occidentali avevano un disperato bisogno della collaborazione degli ex nemici, Germania, Italia e Giappone, per poter far fronte al temibile blocco euro-asiatico costituito dalle potenze comuniste, Russia e Cina. L’inserimento nel blocco occidentale, l’alleanza politica e militare con gli Stati Uniti e i loro partner, la partecipazione al processo d’integrazione europea furono le iniziative che permisero il progressivo rilancio della politica estera italiana su nuove basi e strumenti.
Sempre in quegli anni avvenne un progressivo ripensamento degli obiettivi e degli strumenti della politica estera italiana, con la rivalutazione dell’importanza della diplomazia multilaterale e della cooperazione attraverso le organizzazioni internazionali, la crescente attenzione alle dimensioni commerciali, finanziarie e culturali delle relazioni internazionali e il ripensamento dell’idea di sovranità nazionale al fine di renderla compatibile con lo sviluppo dell’integrazione europea.
Quali sono state le figure più eminenti di diplomatici di questo periodo e come si è esplicata la loro attività?
La politica estera italiana nel secondo dopoguerra fu il prodotto di una stretta collaborazione fra la nuova classe dirigente antifascista e anticomunista guidata da De Gasperi e un corpo diplomatico in gran parte composto da funzionari che avevano partecipato alle iniziative internazionali del regime fascista, chi in posizione di silenzioso dissenso, chi in quella di convinta adesione. Vi fu infatti una sostanziale continuità del personale diplomatico italiano fra epoca mussoliniana e postfascismo. Molti dei diplomatici protagonisti della politica estera italiana del secondo dopoguerra erano entrati in diplomazia negli ultimi anni dell’Italia liberale o nel periodo fascista. Addirittura a partire dalla fine degli anni Quaranta tornarono a posizioni di vertice nella diplomazia italiana esponenti di primo piano della politica estera fascista: dal cognato di Ciano, Massimo Magistrati, a Leonardo Vitetti, a Luca Pietromarchi, già deus ex machina della politica balcanica di Mussolini durante la seconda guerra mondiale, che fu colui che rilanciò i rapporti con l’Unione Sovietica come ambasciatore italiano a Mosca alla fine degli anni Cinquanta. Una delle ragioni di questa continuità del personale diplomatico fra fascismo e postfascismo fu che la nuova classe dirigente antifascista era inesperta sul piano politico e amministrativo, in particolare in politica estera. I diplomatici di carriera avevano una competenza professionale, una conoscenza tecnica, un know how prezioso e irrinunciabile per i nuovi governanti. Da qui la grande influenza che sulla politica estera italiana del secondo dopoguerra ebbero funzionari di lungo corso e esperienza, intelligenti e capaci professionalmente, come il già citato Prunas, Vittorio Zoppi, Pietro Quaroni e altri ancora. Peraltro la grande maggioranza del corpo diplomatico, dopo l’amara lezione dei fallimenti della politica estera mussoliniana, considerò il fascismo un’esperienza storica e politica definitivamente chiusa e collaborò con entusiasmo con De Gasperi, Sforza e i partiti della coalizione centrista. Il ministero degli Affari esteri fu sostanzialmente immune da ogni forma di nostalgia per il passato fascista e si trasformò piuttosto in uno dei motori di propulsione della crescente integrazione dell’Italia nel blocco occidentale e nell’Europa comunitaria. Negli anni del secondo dopoguerra vi era scarsa sensibilità europeista nei partiti, negli intellettuali, negli industriali e nei sindacati italiani, nonché una diffusa reticenza verso l’adesione ad alleanze politiche e militari. Una consapevolezza politica in senso europeista e atlantica era molto più forte nei diplomatici di carriera e la diplomazia italiana giocò un ruolo decisivo nello spingere il Paese verso l’adesione al blocco occidentale e alla partecipazione al processo d’integrazione europea. La scelta dell’alleanza con gli Stati Uniti per alcuni funzionari del ministero degli Affari esteri rispondeva ad una convinta adesione ai nuovi valori liberaldemocratici e capitalisti su cui si fondava il blocco occidentale, ma era soprattutto la realistica presa d’atto che, dopo il fallimento del fascismo mussoliniano, per garantire la propria sicurezza e svolgere un ruolo internazionale l’Italia doveva essere in stretti e amichevoli rapporti con la potenza militare dominante nel Mediterraneo.
Nel secondo dopoguerra Pietro Quaroni, ambasciatore a Mosca e poi a Parigi, fu il diplomatico italiano più noto e con maggiore prestigio sul piano internazionale e presso l’opinione pubblica italiana; fu allo stesso tempo scrittore, commentatore giornalistico, analista politico, uomo con importanti relazioni nel mondo intellettuale italiano e francese. Quaroni costituì un modello su come fare l’ambasciatore in una società democratica e pluralista: per la sua capacità di dialogare con i più svariati interlocutori e per il continuo sforzo di cercare di essere suggeritore e propositore di linee d’azione alla classe dirigente. Dopo la seconda guerra mondiale Quaroni ebbe un ruolo fondamentale nel salvare, rifondare e dare prestigio alla tradizione della diplomazia italiana, uscita impoverita culturalmente dalla lunga collaborazione con il fascismo. Quaroni creò uno stile diplomatico che era nella grande tradizione dei Nigra e dei Visconti Venosta e che salvò e rilanciò il prestigio della “carriera”. Come ha notato Roberto Gaja, il realismo di Quaroni, la sua critica alle utopie e alle astrazioni, mostrarono alla classe dirigente post-fascista l’utilità di mantenere la tradizione della “carriera” diplomatica e aiutarono la diplomazia italiana a conquistare successivamente, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, «una posizione di avanguardia – anzi, una posizione quasi trainante – nel pensiero politico italiano».
Luciano Monzali (Modena 1966) insegna Storia delle relazioni internazionali presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro. È condirettore di Nuova Rivista Storica e autore di numerose opere sulla storia della politica estera italiana dall’Unità ai giorni nostri. Fra le sue opere più recenti: Gli Italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Venezia, Marsilio, 2015; Giulio Andreotti e le relazioni italo-austriache 1972-1992, Merano, Alpha Beta, 2016; Guerra e diplomazia in Africa orientale. Francesco Crispi, l’Italia liberale e la questione etiopica Roma, Società Dante Alighieri, 2019; (con Federico Imperato, Rosario Milano e Giuseppe Spagnulo) Storia delle relazioni internazionali, volume I Dall’ascesa dell’Europa alla prima guerra mondiale (1492-1918), volume II Tra Stati nazionali, potenze continentali e organizzazioni sovranazionali (1919-2021), Milano-Firenze, Mondadori Università, 2022; (con Paolo Soave), Italy and Libya. From Colonialism to a Special Relationship (1911-2021), London and New York, Routledge, 2023.