
Luca Arnaudo – La questione dell’accesso ai farmaci essenziali rischia di divenire socialmente insostenibile, come del resto è stato sottolineato anche in un forum in tema di fair pricing promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e tenutosi a Johannesburg proprio mentre il nostro libro arrivava nelle librerie. Va notato, peraltro, che gli equilibri economici dei sistemi sanitari non sono messi a repentaglio solo dai prezzi di farmaci a largo consumo, come ad esempio avvenuto nel caso dei nuovi trattamenti anti-epatite C, ma anche da quelli di prodotti a prima vista marginali in termini commerciali, a causa della crescente specializzazione/segmentazione di patologie e relative cure; in questa prospettiva, gli incentivi a suo tempo riconosciuti per lo sfruttamento economico dei farmaci “orfani”, cioè destinati a trattare malattie rare, vanno ripensati a fondo.
Altra criticità rilevante, e che a quella dei prezzi inaccessibili risulta internamente collegata, attiene la corretta remunerazione dell’innovazione farmaceutica, a partire dalla necessità di premiare il ruolo del c.d. “Stato innovatore”: un ruolo spesso espresso nelle fasi di ricerca iniziali, e perciò più rischiose. Personalmente ritengo che ogniqualvolta un farmaco sia stato sviluppato con il contributo di fondi pubblici, o comunque non profit, debbano operare stringenti criteri di controllo sul livello dei prezzi finali.
Quali rischi per la disciplina della concorrenza presenta l’industria farmaceutica e quali strategie anti-competitive la condizionano?
Giovanni Pitruzzella – Nel nostro libro non si troverà alcuna demonizzazione dell’industria farmaceutica, come spesso si rinviene invece in pubblicazioni inclini a un certo sensazionalismo (penso, ad esempio, a un lavoro pur molto interessante in termini di studio e proposte operative come Bad Pharma di Ben Goldacre), e in questo senso spero che i lettori avranno modo di apprezzare la ricostruzione che abbiamo tentato dello straordinario cammino compiuto insieme da ricerca scientifica e industria, legandolo allo sviluppo di una disciplina sempre più specifica di settore. Detto ciò, l’esperienza insegna come nell’industria farmaceutica contemporanea ricorrano alcune condotte anti-concorrenziali, che la pratica antitrust ha ormai per molti versi tipizzato.
In capitoli distinti abbiamo dato conto, ad esempio, di come sia negli USA che nella UE vi siano stati vari casi di pay-for-delay, quando cioè un’impresa titolare di un farmaco molto redditizio, con diritti di proprietà intellettuale in scadenza, si accordi con imprese interessate a produrne versioni generiche, pagandole affinché ritardino il loro ingresso sul mercato: la presenza di concorrenti, infatti, ha sempre come immediato effetto una forte diminuzione delle vendite della versione originale, con la conseguente spinta a una diminuzione generalizzata dei prezzi. Qui, come una decisione della Commissione UE ha dimostrato (caso Servier-Perindopril), si è spesso a cavallo tra le fattispecie di abuso di posizione dominante da parte dell’impresa titolare dell’originale e intesa illecita tra concorrenti, ma non mancano altre fattispecie più direttamente incentrate su condotte unilaterali suscettibili di pregiudicare i diritti dei (pazienti, prima ancora che) consumatori: penso, ad esempio, a campagne di denigrazione delle versioni concorrenti poste in essere dal vecchio monopolista sempre al fine di difendere il proprio “campione”, o ancora a strategie di regulatory cheating condotte ora per estendere capziosamente diritti di esclusiva, ora per imporre ingiustificati aumenti di prezzo anche quando tali diritti siano ormai scaduti.
In una vicenda trattata dall’Autorità garante italiana che ha avuto molta eco anche sulla stampa internazionale (caso Avastin/Lucentis), poi, si è trattato di ricostruire una complessa intesa tra due grandi gruppi farmaceutici volta a pregiudicare gli impieghi off-label di un farmaco – cioè ulteriori a quelli registrati dal titolare del prodotto ma adottati dai medici sotto la propria responsabilità – per avvantaggiare le vendite di un altro prodotto assai più costoso. Come si vede, l’attenzione delle autorità di controllo deve fare i conti con un’inventiva nelle condotte piuttosto spigliata.
Quali norme peculiari disciplinano l’impresa farmaceutica nel nostro ordinamento?
Luca Arnaudo – Quando si tratta di industria farmaceutica occorre tenere ben presente che, perlomeno per quanto riguarda la tutela delle esclusive commerciali dei prodotti, vi è un quadro di riferimento piuttosto omogeneo a livello internazionale, dunque le peculiarità normative di un singolo ordinamento rivestono una rilevanza sempre più secondaria; al tempo stesso, la mancanza di una governance globale di dinamiche competitive che sono di fatto internazionali – la distribuzione dei farmaci di maggior importanza è tendenzialmente mondiale – fa sì che grandi imprese possano fare leva sulla mancanza di coordinamento tra le regole operanti in Stati diversi per ottenere vantaggi indebiti. Un aspetto interessante della casistica antitrust raccolta nel libro è in effetti la centralità della disponibilità di diritti di proprietà intellettuale per lo sviluppo le strategie anti-competitive: diritti che, a seguito del processo di convergenza delle rispettive tutele impostosi a valle dell’accordo TRIPS, da un lato sono disponibili in maniera molto simile nei singoli ordinamenti, dall’altro non rientrano ancora in un modello di gestione organico di tipo sovra-nazionale, e pertanto si prestano a condotte di frammentazione e ricombinazione volte a estendere artificiosamente le esclusive commerciali. Penso, a questo proposito, a casi come AstraZeneca-Losec o Pfizer-Xalatan, decisi rispettivamente dalla Commissione UE e dall’Autorità garante italiana, in cui proprio la possibilità di giocare su più fronti nazionali con vari uffici brevettuali ha consentito alle imprese di ottenere allungamenti indebiti dei periodi di esclusione dal confronto concorrenziale.
Per altro verso, la mancanza di quella che sempre più spesso viene indicata come Global Health Governance (nonostante la sua buona volontà, l’OMS non ha competenze effettive in proposito), fa sì che la disciplina di aspetti regolatori molto importanti per l’industria farmaceutica rimanga a livello nazionale: mi riferisco, in particolare, alle procedure di approvazione dei farmaci e di contrattazione della loro messa in commercio. La dispersione operativa che ne consegue determina inefficienze costose per le imprese, le quali si trovano a dover spesso replicare molte attività amministrative, ma è anche vero che, in una simile struttura a rete più che a piramide, ciò apre ai malintenzionati maglie anche piuttosto larghe per condotte anti-competitive, come ad esempio si è già avuto modo di osservare rispetto alla conduzione di trattative abusive – volte a imporre prezzi eccessivi – nei confronti di sistemi sanitari nazionali diversi.
Su quali basi è possibile configurare una disciplina antitrust per il settore farmaceutico efficace e in grado di garantire il rispetto del diritto alla salute?
Giovanni Pitruzzella – L’antitrust è una disciplina ultracentenaria (lo Sherman Act è stato adottato negli USA nel 1890), e più ancora in generale essa rientra a pieno titolo negli sforzi che hanno attraversato tutta la storia delle comunità umane, sin dai più archeologici esempi di legislazione, di garantire un equilibrio tra ricerca dei profitti ed equità sociale nel godimento di beni e servizi. A partire dalla modernità occidentale ciò è stato fatto, o perlomeno tentato, mantenendo la normativa di riferimento per la tutela della concorrenza in termini minimali altamente flessibili, quasi alle soglie dell’indeterminatezza anche per quanto attiene gli aspetti tecnici più di dettaglio. In questa prospettiva, non credo serva ora una versione specifica della disciplina per il settore farmaceutico – così come, del resto, per altri settori – mentre è essenziale che le caratteristiche e peculiarità dell’industria siano sempre ben presenti alle autorità competenti al fine di comprendere appieno contenuti e ragioni dei comportamenti d’impresa, e perseguirle ove opportuno.
Luca Arnaudo – Le relazioni tra antitrust e settore farmaceutico sono un ottimo banco di prova dei pregi e difetti della globalizzazione, perlomeno di quella più recente. Alla positiva internazionalizzazione di molte dinamiche economiche e commerciali non è corrisposta la definizione di una loro governance efficace nella prospettiva dell’effettivo riconoscimento e tutela dei diritti umani, a partire da quello alla salute. Perlomeno nell’ultimo decennio l’antitrust ha svolto un ruolo senz’altro utile per garantire il riconoscimento di tale diritto in casi specifici, ma sul piano sistemico più di tanto non ritengo si possa attendere dalla disciplina, la quale, più che rivista o ampliata, andrebbe affiancata da altri tipi di intervento: la questione, evidentemente, si proietta sul piano politico, e di connesso normativo-regolatorio, da cui dispositivi para-giudiziari come l’antitrust sono distinti.
Luca Arnaudo è funzionario dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dove lavora presso la direzione istruttoria dal 2001, e insegna Markets, Regulations, and Law alla Luiss. Per Luiss University Press ha già pubblicato La ragione sociale. Saggio di economia e diritto cognitivi e Scambi, mercati, concorrenza.
Giovanni Pitruzzella è avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dopo essere stato presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato dal 2011 al 2018 e consigliere giuridico del Ministero della Salute dal 2008 al 2011. Professore ordinario di diritto costituzionale, ha insegnato nelle Università di Cagliari, Palermo, Luiss. Autore di numerose pubblicazioni giuridiche, il suo Diritto costituzionale, scritto con Roberto Bin, è il manuale della materia più diffuso nelle università italiane.