
In questo nuovo contesto, anche la pratica e i presupposti dell’evangelizzazione cristiana iniziarono a essere messi sotto accusa.
Le gerarchie ecclesiastiche vaticane si videro dunque rapidamente costrette a confrontarsi con problemi assai complessi – a cui molti missionari attivi sul campo non erano preparati – e a mettersi alacremente in moto per non dilapidare un patrimonio missionario conquistato con un lavoro durato secoli. Nel gennaio 1961 l’organo missionario dei Frati minori cappuccini italiani (il mensile «Continenti») ricordò significativamente che la Seconda guerra mondiale aveva profondamente cambiato il rapporto «tra bianchi e neri»: «I bianchi si combattevano e si uccidevano a vicenda. I soldati africani ricevevano dai loro capi bianchi il comando di sparare sui bianchi. Da che parte stavano quindi i selvaggi?»..
Era una sfida che apriva scenari davvero inediti per la Chiesa, sia per quanto concerneva i nuovi rapporti da instaurare con i neonati stati indipendenti, sia per quanto riguardava l’esigenza di dar vita a un nuovo confronto con culture sino ad allora considerate inferiori o, quanto meno, marginali.
Come si erano intrecciate colonizzazione ed evangelizzazione?
L’inizio dell’epoca moderna e l’avvio della stagione delle grandi spedizioni oceaniche avevano segnato un significativo convergere di interessi tra il mondo missionario e le principali potenze coloniali. Il trattato di Tordesillas del 7 giugno 1494 aveva introdotto l’istituto del patronato (portoghese e spagnolo), stabilendo una condizione di duopolio planetario esclusivo fra i due imperi. Il patronato imponeva l’evangelizzazione sulle terre conquistate, garantendo ai due sovrani interessati il diritto di costituire le sedi episcopali e i conventi, di presentare i candidati alla carica vescovile e di nominare i cappellani. Ai missionari erano invece assicurate fondamentali prerogative, tra cui la protezione diplomatica, i trasporti gratuiti, la corresponsione di un salario. L’entrata in vigore del trattato fece da prologo a una vasta azione di evangelizzazione di territori abitati da popolazioni allora ritenute barbare e selvagge, rispetto alle quali generalmente il missionario cattolico tese a investirsi del privilegio e dell’onere di diffondere il messaggio cristiano, facendosi promotore di modelli culturali e sociali capaci di favorire le esigenze di governo e di amministrazione dei colonizzatori europei.
Ma la colonizzazione e l’azione missionaria non rappresentarono sempre due fenomeni esattamente sovrapponibili. Il rapporto di collaborazione tra potenze coloniali e mondo missionario fu attraversato da vari momenti di ridefinizione e persino di tensione.
Sopratutto a partire dall’inizio del XIX secolo, all’interno della Sacra congregazione di Propaganda fide si fece strada il convincimento che un maggiore sganciamento dell’azione missionaria dalla tutela spagnola e portoghese potesse costituire un presupposto utile per rilanciare il processo di evangelizzazione, permettendo ai missionari cattolici di distinguere meglio i propri fini da quelli dei poteri coloniali. Tale mutato approccio, che intendeva affermare anche il carattere apolitico e sovranazionale delle missioni cattoliche, ebbe nel corso dell’Ottocento una delle più esemplari espressioni nell’aumento del ricorso, da parte della Santa Sede, allo strumento dei vicariati apostolici. Al contrario degli esistenti vescovati, che continuavano a esistere sotto il vessillo della Spagna e del Portogallo, i vicariati apostolici potevano essere affidati a dei vicari apostolici che «rappresentavano» il papa nei territori di missione e solo da lui dipendevano direttamente.
Quali furono le scelte della Santa Sede sul tema di missioni e decolonizzazione?
Come ho detto, la Santa Sede si convinse abbastanza in fretta che si stesse rapidamente costituendo un nuovo ordine internazionale, al quale i missionari avrebbero dovuto prontamente adeguarsi, puntando in maniera via via crescente sullo sviluppo del personale ecclesiastico autoctono e dimostrando una concreta intenzione di mettersi al servizio – e non alla guida – del clero indigeno.
Sotto vari aspetti, l’obiettivo della «decolonizzazione religiosa» fu accolto dalla diplomazia vaticana prima ancora che, a livello internazionale, si aprisse la vera e propria fase della «decolonizzazione politica». Già durante la guerra alla Santa Sede fu ben chiaro che colonie erano destinate a scomparire e che le missioni – meno squalificate di fronte agli indigeni rispetto alle amministrazioni coloniali – avrebbero potuto essere «salvate» solo a patto che si fosse agito con accortezza e, soprattutto, con rapidità. La ratio – strategica, prima ancora che pastorale – era la seguente: se per le ex potenze imperialiste lasciare il governo politico ai leader locali significava perdere una colonia, per la Chiesa affidare una missione alla gerarchia indigena significava mantenerla in vita. E ciò perché i vescovi e i sacerdoti locali avrebbero certamente incontrato molte meno difficoltà a mettersi in una posizione di dialogo con i nuovi governanti.
Pur di garantire la sopravvivenza delle strutture missionarie, molte chiese in terra di missione si dimostrarono persino disponibili, quando all’orizzonte non si intravedeva il «pericolo comunista», a mettere in secondo piano i giudizi sulla caratterizzazione politica dei nuovi regimi post-coloniali. L’importante, per il momento, era salvare il salvabile da una dirompente crisi.
Per favorire un rapido avvio del necessario cambiamento, non fu neanche atteso il raggiungimento di livelli di particolare eccellenza sotto il profilo della preparazione teologica e pastorale dei sacerdoti e dei vescovi locali. Anche in questo caso il necessario supporto sarebbe potuto venire tranquillamente dopo: il problema immediato – lo ribadisco – non era di natura teologica ma di tipo strategico.
Vanno anche ricordati due documenti papali essenziali per la trasformazione delle chiese delle missioni in giovani chiese: la lettera enciclica Evangelii Praecones, del giugno 1951, e la lettera enciclica Fidei donum, dell’aprile 1957, su cui naturalmente non posso soffermarmi in questa sede.
Come vissero i missionari il processo di decolonizzazione?
Certo in maniera molto diversa – da soggetto a soggetto, da luogo a luogo, da ordine a ordine – ma, non di rado, con un malcelato sentimento di ripulsa (ciò soprattutto da parte dei missionari più anziani).
Le domande che vari rappresentanti del mondo missionario iniziarono presto a porsi furono anzi, in qualche caso, tali da minarne nel profondo la volontà e certezze. Se il «regno di Dio» era ormai «il mondo» – iniziarono a pensare molti di loro – per quali ragioni si sarebbe ancora dovuto lottare con tanto sacrificio per far entrare delle persone nella Chiesa? Se per le nuove chiese locali ottenere denaro dalla vecchia chiesa madre era divenuta un’umiliazione, per quale ragione si sarebbe dovuto continuare a inviare denaro e nuovi missionari? Che senso aveva ancora esportare altrove un modello di Chiesa che in Occidente stava subendo processi di grave contestazione? Quale significato poteva ancora avere consumare le proprie forze e spesso la propria salute per sentirsi poi accusare di imperialismo culturale da neonati governi post-coloniali?
A ben vedere, anche il processo di superamento del pregiudizio verso il clero autoctono non fu affatto un passaggio indolore per il mondo missionario. Le carte che ho potuto consultare documentano in maniera difficilmente equivocabile i ripetuti – e spesso inascoltati – inviti lanciati dai vertici centrali degli ordini missionari e dalla stessa Congregazione vaticana di Propaganda fide per convincere tantissimi missionari recalcitranti ad abbandonare le vecchie posizioni e a voltare decisamente pagina.
Certo, non va nemmeno dimenticato che, oltre al pregiudizio culturale e sociale verso i sacerdoti neri, esistevano anche degli oggettivi problemi pratici, legati alla gestione del nuovo personale indigeno e al suo effettivo «controllo» dal punto di vista gerarchico, che non potevano non esercitare una qualche influenza sull’atteggiamento dei missionari occidentali. Da chi, ad esempio, avrebbero dovuto essere governati i nuovi sacerdoti autoctoni: dagli ordini missionari di appartenenza, dall’ordinario locale (peraltro, sino ad allora, spesso di origine europea) o dal nuovo ordinario indigeno?
Quali processi coinvolsero le chiese locali?
Come si è detto, in quegli anni furono avviati vari processi di rilievo. A partire da quello di una crescente indigenizzazione del basso clero e da quello di una sempre maggiore promozione di presuli autoctoni.
Solo per fare qualche esempio, se nel 1951 i territori ecclesiastici affidati a vescovi di origini asiatiche e africane erano 91, nel 1959 diventarono 139. Nel dicembre 1961 ben 162 vescovi e arcivescovi residenziali erano di origini asiatiche o africane.
Spesso ai vescovi locali iniziarono anche a essere attribuite le sedi di maggiore peso e prestigio: solo per fare un altro esempio, se nel 1961 in Africa i vescovi autoctoni guidavano circa un quarto delle sedi vescovili (esattamente 56 su 236), essi erano tuttavia già a capo di ben 33 su 66 di quelle di rango arcivescovile.
Nel marzo 1960 furono creati da papa Giovanni XXIII il primo cardinale di origini africane, il tanzaniano Laurean Rugambwa, e il primo cardinale di origini giapponesi, Peter Tatsuo Doi.
Al Concilio Vaticano II i vescovi africani accreditati costituirono, da soli, un gruppo di ben 75 prelati.
Per quanto concerne il basso clero, nel 1951, l’anno della lettera enciclica Evangelii Praecones, i preti «indigeni» erano nel mondo quasi 27.000. Solo in Africa, nel 1957, erano 1.811 e diventeranno oltre 2.000 nel 1960.
In che modo il Concilio influenzò le scelte della Chiesa?
A livello ecclesiale, l’espressione cultura – nel senso che venne poi ad essa comunemente attribuito dalle scienze umane – fu introdotta per la prima volta dalla Chiesa proprio attraverso i documenti conciliari (a partire dalla costituzione Gaudium et spes, in cui era fatto anche esplicito cenno alla «pluralità» delle culture).
Nel decreto Ad gentes, inoltre, «tutta» la Chiesa – e non solo quella occidentale – era identificata come missionaria ed ogni chiesa locale era individuata come il frutto e l’espressione delle varie culture.
Limitatamente all’Italia, proprio in quegli anni, come frutti tangibili nel nuovo clima conciliare, nacquero varie opere missionarie o di cooperazione allo sviluppo e alla pace (come il Sermig di Ernesto Olivero, l’associazione Mani Tese, il movimento Cooperazione internazionale, l’Operazione Mato Grosso, la Comunità di Sant’Egidio), mentre vari istituti di formazione missionaria iniziarono a manifestare un’inedita attenzione per varie discipline scientifiche, quali l’etnologia, l’antropologia culturale e lo studio delle religioni non cristiane.
Furono tutti sviluppi di notevole rilievo, in cui per la prima volta la Chiesa e il mondo cattolico dimostrarono davvero di volersi interrogare sul valore universale della propria teologia e sull’esigenza di de-occidentalizzarne i tratti fondanti.
Con la Costituzione Regimini Ecclesiae Universae, del 15 agosto 1967, Paolo VI dispose infine un’ampia riorganizzazione dei dicasteri, secondo le direttive del Concilio, mentre fu realizzata la trasformazione della Congregazione di Propaganda Fide in Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
Una domanda sembrava tuttavia ancora aleggiare all’interno della Chiesa, senza incontrare una risposta pienamente rassicurante. Come ho scritto anche nelle pagine conclusive del mio libro, nel momento in cui ci si sforzava di «decolonizzare le missioni», non si ponevano forse anche i presupposti per decretare la loro ineluttabile crisi? Nel momento in cui si accettava il principio secondo cui a ogni popolo era dato di «salvarsi» attraverso la sua cultura e la sua religione, non si ponevano forse persino le premesse per la «scomparsa» delle missioni stesse?