“La cultura americana e il PCI. Intellettuali ed esperti di fronte alla “questione comunista” (1964-1981)” di Alice Ciulla

Dott.ssa Alice Ciulla, Lei è autrice del libro La cultura americana e il PCI. Intellettuali ed esperti di fronte alla “questione comunista” (1964-1981), edito da Carocci: quale rilevanza ebbe, nel rapporto tra gli Stati Uniti e l’Italia durante la Guerra fredda, la “questione comunista”?
La cultura americana e il PCI. Intellettuali ed esperti di fronte alla “questione comunista” (1964-1981), Alice CiullaLa “questione comunista” fu centrale nel rapporto tra gli Stati Uniti e l’Italia per tutta la durata della Guerra fredda. Per Washington, la presenza in Italia di un partito comunista forte, con strutture consolidate, pervasivo nella società e nella cultura e in grado di mobilitare una buona fetta di elettorato era un elemento di forte preoccupazione, sia nella fase di determinazione dei blocchi che in quella più accesa del confronto bipolare e nella fase di distensione sino agli anni Ottanta, anche se assunse connotati diversi. A partire dall’esclusione delle sinistre dal governo del 1947, passando per lo scontro delle elezioni del 1948 e poi per le molteplici azioni diplomatiche -e non solo- degli anni del centrismo, le amministrazioni statunitensi, dai presidenti al Dipartimento di Stato all’ambasciata di via Veneto, guardarono sempre ai comunisti come a dei “sorvegliati speciali”. L’avvio del piano Marshall di aiuti all’Europa e l’adesione italiana furono contestuali alla decisione di escludere le sinistre dal governo e del resto De Gasperi seppe abilmente usare la loro presenza come leva per l’ammissione del paese al programma americano e alla neonata comunità atlantica, con i benefici economici e politici che questo comportava. La difficile trattativa per l’apertura a sinistra tra la fine e l’inizio degli anni Sessanta, che ottenne il placet dell’amministrazione Kennedy dopo lunghe discussioni, aveva anche lo scopo di arginare i comunisti, rafforzare le divisioni tra questi e i socialisti e mantenere quella che è stata definita la “conventio ad excludendum” del Pci dal governo del paese. A differenza di quanto sperato, però, né il centrosinistra organico né la progressiva modernizzazione dell’Italia risolsero la questione comunista, che anzi si ripresentò con urgenza nel corso del decennio successivo, quando la formula di governo entrò in crisi. Il lancio della “strategia dell’attenzione” nei confronti del Partito comunista da parte della Democrazia cristiana guidata da Aldo Moro e, soprattutto, del “compromesso storico” da parte del Pci di Enrico Berlinguer nel 1973 fecero temere la possibilità che i comunisti assumessero un ruolo decisionale nella politica nazionale, che entrassero cioè nel governo del paese. Un timore accresciuto dal fatto che il Pci già amministrava assieme ai socialisti, diverse giunte locali, specie in seguito alla creazione delle Regioni a statuto ordinario del 1970. Non solo: i consensi al partito continuavano a crescere fino al temuto “sorpasso” del 1976, che com’è noto non si realizzò ma che portò alla nascita del “governo della non sfiducia”, alla successiva firma degli accordi programmatici e all’ingresso del Pci nella maggioranza parlamentare nel 1978, passaggi che sembravano cioè presagire l’assegnazione di ruoli ministeriali a esponenti del partito. La stagione della solidarietà nazionale in realtà si chiuse nel 1979 con il ritorno del Pci all’opposizione, ma nel corso di tutto il decennio sia Washington che i governi europei seguirono le discussioni italiane con preoccupazione, come di una delle questioni più urgenti da affrontare. Il timore era che l’ingresso dei comunisti nel governo del paese potesse minare la solidità della Nato e in generale portare l’Italia su posizioni di neutralità, e che generasse un “effetto domino” pericoloso nella regione meridionale dell’Europa, che attraversava alla metà degli anni Settanta una fase di transizione verso la democrazia.

Cosa significarono, per la strategia anticomunista statunitense in Italia, l’avvio della distensione internazionale e i cambiamenti nella linea politica interna ed estera da parte del gruppo dirigente del PCI?
L’avvio della distensione internazionale, quel processo cioè di rilassamento delle tensioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica che cominciò tra la metà e la fine degli anni Sessanta e durò fino alla fine del decennio successivo- per poi riprendere solo alla metà degli anni Ottanta- ebbe tre risvolti. Il primo è interno alla cultura statunitensi: da quel momento, infatti, il liberalismo consensuale, che aveva tra i suoi pilastri l’anticomunismo, cominciò a perdere di significato. Se si facevano concessioni all’avversario sovietico in nome di una collaborazione che doveva prevenire lo scontro totale, sembrava difficile difendere posizioni di intransigente anticomunismo come era avvenuto in passato. Tanto più che, in nome dell’anticomunismo, gli Stati Uniti erano entrati in un conflitto lungo e doloroso come quello del Vietnam, i cui riverberi sul piano culturale, politico e sociale furono profondi. Tuttavia, se una parte della comunità accademica e intellettuale abbandonò posizioni di fermo anticomunismo, in virtù di questi processi e della consapevolezza crescente della diversità delle esperienze dei partiti e dei governi del movimento comunista internazionale, lo stesso non successe nel governo di Washington, dove gli schemi della Guerra fredda erano più resistenti. La distensione, cioè, non era vista dagli Stati Uniti come una fase che apriva possibilità di nuove formule politiche ma come un riconoscimento reciproco che cristallizzava gli equilibri globali. E qui veniamo al secondo risvolto della distensione, che riguarda appunto la diversa accezione che se ne diede negli Stati Uniti e in Europa, dove vi furono tentativi di allentamento delle tensioni tra i blocchi autonomi rispetto all’alleato egemone, come nel caso della Ostpolitik. Da una parte perciò la volontà di conservare, dall’altra quella di esplorare nuove possibilità, che fu anche la posizione del Pci e, per la verità, di una parte della Dc, che tentò appunto l’avvicinamento con l’avversario storico nel corso degli anni Settanta. Il terzo risvolto riguarda invece la politica interna ed estera dei comunisti italiani, che da una parte adottarono una visione “dinamica” della distensione e dall’altra rinnovarono, sotto la segreteria Berlinguer, un ruolo internazionale che tentava un cammino autonomo da Mosca. La stagione del “compromesso storico” e della solidarietà nazionale coincisero infatti non solo con la fase apicale della distensione internazionale ma anche con la creazione dell’Eurocomunismo, che vedeva protagonisti il Pci e i suoi omologhi francese e spagnolo e che fu un prodotto delle dinamiche internazionali di quegli anni. L’esperimento eurocomunista si sarebbe chiuso proprio per il riaccendersi dello scontro bipolare, per il rapporto dei diversi partiti che vi parteciparono con l’Unione Sovietica e per le sconfitte elettorali subite alle urne dei rispettivi paesi. Un ultimo aspetto che vorrei sottolineare è che la ricerca di un percorso autonomo da Mosca, per il Pci, significò anche la progressiva accettazione del processo di integrazione europea e del posizionamento internazionale dell’Italia. Che alcuni, negli Stati Uniti, collegassero la messa in discussione dell’anticomunismo tout court con il policentrismo comunista e le possibilità che i comunisti italiani non rappresentassero più una minaccia ma una risorsa per la stabilità italiana ed europea, appare perciò comprensibile. Tanto più che, quando si verificò la possibilità che il Pci entrasse nel governo, l’Italia attraversava diverse crisi, dal terrorismo alla crisi economica, e la stabilizzazione del paese era l’obiettivo che i suoi alleati si prefiggevano con più urgenza.

Quale evoluzione caratterizzò il dibattito sul comunismo italiano negli Stati Uniti all’interno della comunità accademica, dei think tank e delle reti informali?
All’interno di quei contesti il dibattito fu piuttosto fitto sin dalle origini della Guerra fredda, il cui scoppio fornì un certo indirizzo agli studi accademici oltre a essere oggetto di dibattito tra gli esperti riuniti nei think tank. Per quanto riguarda l’accademia, si pensi per esempio ai cosiddetti Soviet Studies, che negli Stati Uniti fiorirono proprio all’inizio del confronto bipolare con l’intento di studiare il regime di Mosca. Le analisi prodotte contribuivano a plasmare il dibattito delle élite intellettuali e politiche, incluso il cosiddetto establishment della politica estera, che è più ampio rispetto alla sfera strettamente decisionale e include una pluralità di attori che a vi partecipano a vario titolo. Non solo istituzioni ma anche singole persone, che del resto in un sistema partitico fluido entrano ed escono dai luoghi del potere secondo il meccanismo delle cosiddette “porte girevoli”.

Per questo mi sembrava importante portare alla luce l’evoluzione del dibattito sul comunismo italiano all’interno di questi attori, accademia, think tank e reti di informali, o reti deboli, che però forniscono indicazioni sulle ragioni per cui le discussioni si orientavano in un modo o in un altro e soprattutto raccontano delle volontà di dialogo, o osservazione, tra i diversi soggetti. Così come mi è il caso di sottolineare che la visione del comunismo italiano e del comunismo in generale dipendeva anche dall’immagine di sé che i partiti del movimento comunista internazionale volevano proiettare. Nel caso dell’Italia, a contribuire in maniera sostanziale alla lettura della questione comunista erano poi gli interlocutori degli Stati Uniti, cioè i rappresentanti dei partiti e del mondo culturale non comunisti, specie quelli vicini a un’area di sinistra democratica che avevano trovato appoggi oltreoceano sin dagli anni Sessanta.

Prendendo in esame tutti questi attori, l’evoluzione che caratterizzò il dibattito sulla presenza del Pci in Italia nell’accademia e nei think tank statunitensi è evidente: dal fermo anticomunismo e dall’assimilazione al partito italiano a un avamposto di Mosca in Europa occidentale degli anni Cinquanta, alla scoperta delle specificità alla metà degli anni Sessanta, dovute anche alle prime ricerche “sul campo” da parte di diversi politologi americani, sino al dibattito maturo degli anni Settanta, in cui le analisi furono di più e più raffinate e miravano, in alcuni casi, a suggerire dei rinnovamenti anche in campo politico. Ci fu anche chi si spinse a promuovere la caduta del veto anticomunista da parte di Washington, specie quando, grazie al processo di distensione, gli equilibri internazionali sembravano lasciare spazio a formule nuove, cioè durante l’amministrazione Carter.

È bene sottolineare però che posizioni di chiusura al ruolo dei comunisti in Italia rimasero presenti anche nel corso degli anni Settanta, pur se sottotraccia, e che ricomparvero sotto forme nuove alla fine del decennio quando la Guerra fredda entrò nell’ultima fase muscolare. Il dibattito, cioè, non si spense mai né mai giunse a una sintesi, nemmeno nella fase del tramonto dell’esperienza comunista.

Alice Ciulla è assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Roma Tre. È stata borsista della Fondazione Gramsci di Roma e DAAD Research Fellow presso il JFK Institute della Freie Universität di Berlino.

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