
Venendo alla vostra domanda, il Parlamento, riunito a Torino all’inizio del 1861, convalidò i risultati dei plebisciti. Nel frattempo un disegno di legge ministeriale, attestando il ruolo-guida del governo nel procedimento unitario voluto da Cavour, proponeva di attribuire a Vittorio Emanuele II il titolo di re d’Italia, dopo aver sondato la non contrarietà della maggioranza delle Corti europee. Infrangendo una prassi che stabiliva la precedenza dell’esame alla Camera, tale disegno di legge, di una sola riga, fu presentato prima in Senato, dove fu votato il 26 febbraio con due soli voti contrari, e passò poi alla Camera, dalla quale fu approvata il 14 marzo all’unanimità.
La legge, promulgata il 17 marzo, è la seguente: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sè e pei suoi successori il titolo di Re d’Italia” e sancisce la nascita di questo nuovo Stato.
Come avvenne l’annessione al Regno di Sardegna delle varie provincie?
Con i plebisciti del 1860, effettuati in primavera in Emilia e Toscana ed in autunno in Sicilia, nel Napoletano, nelle Marche e in Umbria, le popolazioni, convocate nei «comizi nazionali» a suffragio universale maschile, avevano aderito alla “monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II”, pur con formule tra loro leggermente diverse: in primo piano era stata posta la figura del re, con un messaggio semplice per la gran parte di cittadini che si recava per la prima volta alle urne. In effetti, però, l’impostazione costituzionale del regno si basava sul parlamento: Cavour volle quindi che fosse quest’ultimo a prendere atto dei risultati emersi tramite i plebisciti. In conformità a tale valutazione, la Camera dei Deputati subalpina a fine dicembre 1860 fu sciolta, affinché fossero indette nuove elezioni e se ne costituisse una nuova, in cui si insediassero i rappresentanti di tutti i territori che erano venuti a far parte del Regno di Sardegna, mentre il Senato veniva integrato con la nomina di componenti provenienti da quelle stesse zone.
Come si articolarono i plebisciti risorgimentali?
Considerate nel loro insieme, le formule dei plebisciti sono il risultato di elementi diversi. L’opzione tra «Monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele» e «Regno separato», sulla quale erano state chiamate ad esprimersi Emilia e Toscana, aveva tenuto conto anche della soluzione delineata sin dagli accordi di Plombières e nuovamente riproposta, nel febbraio, dalla diplomazia francese di un vicariato papale nelle Romagne e di un regno indipendente in Toscana sotto un principe di Casa Savoia. Essa, tuttavia, era pure venuta incontro, attraverso l’uso del termine «annessione» per l’Emilia e di quello di «unione» per la Toscana, alle forti remore toscane ad accettare una pura e semplice aggregazione nel Regno sardo. La formula «Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele, Re costituzionale, e suoi legittimi discendenti», predisposta dal Pallavicino per le votazioni nell’Italia meridionale ed egualmente adottata per il plebiscito siciliano, dava invece rilievo al passaggio dalla dimensione subalpina del progetto di unificazione a quella italiana e poneva l’accento sul carattere unitario di tale progetto. Molto più neutra è quella utilizzata nelle Marche e nell’Umbria, con cui gli elettori sono chiamati a rispondere al quesito «Volete far parte della Monarchia Costituzionale del Re Vittorio Emanuele II».
Quale veste giuridica acquisì la proclamazione del Regno d’Italia?
È sicuramente emblematico che la prima legislatura dell’Italia unita abbia iniziato la propria attività parlamentare con un atto – in un’assemblea eletta a suffragio molto ristretto e costituita da rappresentanti di territori lontani e spesso nemmeno confinanti tra loro – che legittimasse la presenza di un nuovo soggetto giuridico nella scena geopolitica e testimoniasse l’avvenuta integrazione unitaria di popolazioni precedentemente soggette a sovranità diverse. Quell’atto fu la prova dell’esistenza del nuovo Stato e della sua volontà di essere riconosciuto e, soprattutto, di consolidarsi. Se i plebisciti furono spesso condotti facendo leva sul ‘culto della personalità’ di un re ‘buono’ come Vittorio Emanuele II, allora la sua stessa figura carismatica poteva essere utilizzata per farne l’emblema dell’unità nazionale. L’immagine del parlamento appariva adeguata a soddisfare l’ambiente colto della borghesia liberale; quella del re – soldato e “galantuomo” – era invece adatta ad attirare la più ingenua sensibilità delle “masse popolari”, tanto da farne il “padre” della patria.
Tuttavia, al di là di questa immagine del re, che considerava utilizzabile unicamente sul piano della propaganda elettorale, Cavour mirava a porre in essere una creazione giuridica del Regno attraverso una soluzione unitaria e monarchica ma anche, e necessariamente, parlamentare. A fronteggiare la temporanea dittatura garibaldina molti avrebbero voluto contrapporre, non un primo ministro moderato come Cavour, ma una dittatura a lungo termine di Vittorio Emanuele II. Lo stesso sovrano si mostrava propenso a una prospettiva di questo genere. Il Presidente del Consiglio – come da lui stesso affermato– non aveva invece nessuna fiducia nelle dittature e riteneva che si potesse fare e ottenere “di più” attraverso il passaggio parlamentare rispetto all’esercizio di un potere assoluto.
Quali atti formali sancirono la nascita del nuovo regno?
Il volume intende evidenziare come nel febbraio-aprile 1861 – quando si conclude peraltro il ciclo politico e umano di Cavour, con le sue ultime “battaglie parlamentari” – la creazione giuridica del Regno d’Italia avvenga attraverso alcuni atti fondamentali approvati del Parlamento. Essi completano e perfezionano, parafrasando Vittorio Emanuele Orlando, l’atto di nascita del nuovo regno, costituito con la legge 17 marzo 1861. Tali atti sono individuati nella predetta legge sul titolo di re d’Italia; in quella, immediatamente successiva, sull’intitolazione degli atti di governo; nel celebre dibattito sulla “questione romana”, in cui, proprio indicando una netta discontinuità con il Regno di Sardegna, il Parlamento già designa Roma quale capitale del Regno d’Italia; nel definitivo confronto alla Camera tra Cavour e Garibaldi sull’esercito meridionale, nel quale fu respinto il tentativo estremo dell’eroe dei due mondi di democratizzazione dell’esercito e in cui, di fatto, fu sancito il passaggio dalla fase “eroica” risorgimentale alla monarchia costituzionale guidata dal “re galantuomo” Vittorio Emanuele II. Quest’ultimo dibattito, nonostante il suo contenuto fosse prevalentemente militare, assunse un’importanza cruciale per il futuro politico del Regno d’Italia a causa delle divisioni che avrebbe determinato tra il nord e il sud del paese, condizionando di fatto il processo di unificazione e lasciando una questione, quella meridionale, ancor oggi aperta e ben lungi dall’essere risolta a più di centocinquant’anni dall’unificazione. Si dovevano indubbiamente fare gli Italiani: ma intanto una nuova ed originale entità statale, l’Italia, era nata.
Mario Riberi è ricercatore presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino