
L’identità di una persona, nel linguaggio comune, è in primo luogo quell’insieme di caratteristiche stabili nel tempo, sia somatiche (la mia fisionomia) sia psicologiche (la mia personalità, lo stile costante del mio comportamento) sia sociali (l’età, lo stato civile, la professione, il livello culturale o l’appartenenza a una certa fascia di reddito), per cui ogni individuo è ben distinguibile rispetto agli altri. Questa è l’identità per gli altri o oggettiva: tutto ciò che caratterizza ciascuno di noi come individuo singolo e inconfondibile; ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro.
Così come ognuno ha un’identità per gli altri, ha anche un’identità per sé, un’identità soggettiva. Questa è l’insieme delle mie caratteristiche così come io le percepisco e le descrivo in me stesso.
È l’identità in questo suo aspetto soggettivo o esperienziale l’oggetto delle teorie a cui continua tuttora a riferirsi tutta la riflessione filosofica e psicologica sull’identità personale, quelle cioè di John Locke e William James. Agli albori della psicologia scientifica, verso la fine dell’Ottocento, James aveva infatti offerto una sistematizzazione psicologica del concetto di identità (il “self”) che, facendo tesoro delle osservazioni formulate due secoli prima da Locke, ne chiariva il carattere esperienziale-riflessivo: l’identità, in James come in Locke, non è un’essenza, ma un vissuto.
Dopo James, tuttavia, il tema dell’identità soggettiva scompare dall’indagine psicologica e dalla teorizzazione filosofica di impianto analitico che, in un clima dominato dal comportamentismo logico e metodologico, respingono come epistemologicamente inaccettabile lo studio di entità non osservabili, mentre la psicanalisi freudiana aveva invece spostato l’attenzione sulla nozione di inconscio. Nella prima metà del Novecento l’identità è studiata soprattutto da sociologi e psicosociologi (il più importante fu George H. Mead), poi man mano, nuovamente, anche da psicologi e psicoanalisti.
Oggi il tema dell’identità è centrale nelle scienze psicologiche – e in conseguenza di almeno tre fattori di cui si è progressivamente riconosciuta la centralità. Il primo fattore chiama in causa la psicologia generale, e riguarda l’idea secondo cui non si dà autocoscienza senza che vi sia una qualche descrizione di sé, e quindi senza che vi sia una qualche descrizione di identità (sappiamo di “esserci” solo in quanto sappiamo di “esserci in un certo modo”). Un secondo fattore riguarda la psicologia dinamica e la psicologia dello sviluppo, e segue da riconoscimento del fatto che la costruzione della vita affettiva, nel corso dell’infanzia e poi in tutto l’arco dell’esistenza, è intimamente connessa alla costruzione di un’identità personale ben definita, e accettata come valida. Infine, il terzo fattore concerne la psicologia sociale, e consiste nel fatto che la validità della propria identità è di continuo contrattata, da ciascuno di noi, negli scambi con le altre persone.
Quale sintesi è possibile stabilire fra la psicologia dello sviluppo di ispirazione chomskiana, il costruttivismo a partire dall’individuo di Jean Piaget, la prospettiva socioculturale sullo sviluppo di Lev Vygotskij e la teoria dell’attaccamento di John Bowlby?
A più di un secolo dall’esordio di floridi ed entusiasmanti studi sulla natura della mente e di quel suo aspetto particolarissimo che è l’identità personale, è oggi possibile formulare una sintesi matura e multidisciplinare, che renda conto della complessità dei fenomeni pur lasciando – come in ogni indagine scientifica che si rispetti – domande aperte e territori inesplorati.
A partire dagli anni ’20 del secolo scorso Jean Piaget ci ha insegnato a osservare il bambino assumendone il punto di vista, per meglio indagarne il modo di osservare la realtà e il processo di costruzione della conoscenza sul mondo esterno e su se stesso. Si è trattato di un passo importante, necessario per superare l’adultocentrismo della prospettiva freudiana e inaugurare una nuova stagione della psicologia dello sviluppo. Nella sua attenzione esclusiva all’attività del bambino, tuttavia, Piaget non aveva notato la ricca dotazione di competenze psicologiche innate, restando fermo all’idea di una mente infantile come tabula rasa, un vaso vuoto da riempire di conoscenze nel corso degli anni. Gli studi sul linguaggio di Chomsky, con il confronto vivacissimo proprio con Piaget che ha segnato la transizione tra due stagioni della psicologia del ’900, hanno aperto gli occhi sulle competenze innate e specifiche, sull’ampio bagaglio di conoscenze in potenza che attendono solo di maturare per aprire al bambino mondi di sapere ingenuo specializzato: aritmetica, fisica, psicologia, etica, almeno.
Quanto a Vygotskij, l’altro colosso della psicologia dello sviluppo del primo Novecento, pur condividendo con Piaget quello che oggi possiamo considerare “l’errore della tabula rasa” ebbe indubbiamente il merito di intuire il ruolo della dimensione sociale per lo sviluppo cognitivo del bambino. Azioni casuali come protendere del braccio assumono un significato – il gesto di indicazione – grazie all’attribuzione di senso da parte dell’adulto, all’interno di un contesto sociale fatto di scambi di segnali. Ma la stessa dimensione interpersonale della coscienza, ci ricorda Vygotskij, è primaria rispetto alla dimensione privata, con buona pace non solo di Piaget e Freud, che avevano teorizzato rispettivamente uno stato di egocentrismo iniziale e di narcisismo primario, ma anche di buona parte della filosofia almeno da Cartesio in poi.
Quanto a John Bowlby, già pienamente attivo negli anni in cui Chomsky contribuiva a fondare la psicologia cognitiva, ne accoglie l’idea della mente come elaboratore di informazioni, respingendo il modello idraulico freudiano di una mente carica di energia pulsionale. Lavorando all’intersezione tra psicologia dello sviluppo e pratica clinica, Bowlby porta alle conseguenze ultime il percorso di riscoperta della natura sociale della mente e dell’identità, mostrando l’influenza della relazione personale sullo sviluppo non solo cognitivo, ma anche emotivo e motivazionale del bambino. Dalla culla alla tomba, ammonisce Bowlby, abbiamo bisogno di attaccamento e di una base sicura per avere protezione e – aggiungiamo noi in linea con gli sviluppi successivi della teoria dell’attaccamento – per avere un buon accesso alla nostra interiorità e far fronte a quella fragilità che caratterizza l’identità personale di ciascuno.
In che modo i dati delle scienze psicologiche consentono di ricostruire la traiettoria che dalla nascita della coscienza di sé legata al corpo e alle emozioni giunge al costituirsi del senso di sé nel tempo?
Innanzitutto, noi riteniamo che la psicologia del primo sviluppo abbia un legame privilegiato con l’etologia. Da un punto di vista metodologico, non vi è alcuna differenza fra lo studio della soggettività animale e lo studio della soggettività nel bambino sotto l’anno di vita. Il neonato, al pari degli altri animali, vive in uno spazio che è il suo mondo di vita; il rapporto con questo mondo fonda una soggettività elementare, per cui il campo oggettuale è mondo soggettivo (Umwelt nell’etologia fenomenologica di Jakob von Uexküll). In quest’ottica, l’eventuale attribuzione al bambino di forme di autocoscienza già prima dell’anno e mezzo, e perfino già verso i sei mesi, è la conseguenza di un errore adultocentrico e proiettivo.
Ora, nel primo anno di vita il bambino è in grado di costruire rappresentazioni di parti periferiche del corpo separate, come le mani o i piedi o il sommo della testa, con cui stabilisce un’affettuosa domesticità, ma non è affatto in grado di coglierle come parti di una globalità corporea rappresentata come corpo proprio. Esperimenti condotti secondo le tecniche originariamente elaborate da Gordon Gallup per i primati mostrano che il lattante, se posto davanti a uno specchio, vi scorge solo un altro bambino; e vedendosi riflesso non tocca mai la parte del corpo (il naso, la fronte, la guancia, una gamba) su cui è stata apposta una macchia di colore. La situazione comincia a mutare intorno al quindicesimo mese, per giungere a compimento verso la fine del secondo anno: il bambino supera il test di autoriconoscimento nello specchio in quanto ora è in grado di costruire un’immagine corporea di sé come oggetto (intero) considerando al tempo stesso questa immagine come soggetto, cioè come fonte attiva della rappresentazione di sé.
Ma si noti: nel secondo anno di vita il bambino diviene capace di riferirsi riflessivamente a sé stesso secondo un’autocoscienza corporea la quale, però, non è ancora pienamente psicologica. Egli è in grado di oggettivare le proprie azioni nel corpo, ma non è ancora bene in grado di oggettivare la propria esperienzialità all’interno dello spazio virtuale della mente. È intorno al terzo e quarto anno che il bambino scopre di avere una interiorità, ossia diviene in grado di identificare e oggettivare la propria soggettività. Qui l’esperienza soggettiva vissuta prende a oggetto non solo il mondo esterno percepito, né solo il mondo viscerale “interno” racchiuso nei confini del corpo, ma anche il mondo “interiore” della mente.
Ebbene, noi sosteniamo che il costituirsi dello spazio esperienziale interno della mente avviene in un contesto microsociale. Nella prospettiva contestualista e sistemica da noi adottata, biologia individuale e relazionalità sociale sono inscindibili: l’individuo è preorganizzato al rapporto interpersonale fin dalla nascita. Ed è in questa prospettiva che si iscrive la concezione dell’individuo propria delle correnti più autorevoli della psicologia dinamica, che si sono sforzate di ristrutturare la psicoanalisi in base alla doppia tematica delle relazioni oggettuali primarie e del legame di attaccamento.
Nel nostro libro la psicodinamica dell’attaccamento è in effetti la cornice entro cui ricostruiamo l’ontogenesi dell’identità psicologica. E qui viene in primo piano la teoria del rispecchiamento emotivo basato sul meccanismo di biofeedback sociale, un modello socio-costruttivista dell’introspezione emotiva proposto da György Gergely e John Watson a metà degli anni ’90. Questo modello vede nel rispecchiamento emotivo sintonizzato e marcato messo in atto dal caregiver il processo che dà luogo all’interiorizzazione delle emozioni allorché, nel secondo anno di vita, la fenomenologia delle emozioni di base (gioia, tristezza, rabbia, paura ecc.) si radica nell’immagine corporea di sé. Pertanto, pur non sottoscrivendo la tesi jamesiana, obiettivamente parziale, secondo cui tutte le emozioni sono ridotte a percezioni di stati di attivazione del corpo, l’introspezione emotiva è definibile come la capacità acquisita di raggruppare dati somatici primari in categorie di emozioni discrete che vengono poi attribuite a sé stessi (ovvero interiorizzate nel proprio mondo psichico).
Dopo aver raggiunto, attraverso il rispecchiamento genitoriale, una prima comprensione, implicita e preverbale, delle proprie emozioni di base, il bambino deve ancora imparare a riconoscere e attribuire a sé gli altri stati mentali e la rete concettuale che reciprocamente li lega. Deve, cioè, costruire una vera teoria della propria mente. Ciò avviene in un contesto in cui l’interazione sociocomunicativa con i caregiver muove dalla fase preverbale a quella verbale. Di conseguenza, tutto un nuovo repertorio di attività mentalistiche più avanzate – che si costituiscono a partire dalle competenze mentalistiche più basilari – emerge in virtù dello scaffolding (per usare un concetto caro a Lev Vygotskij, altro autore di riferimento nella nostra riflessione) linguistico fornito dal caregiver che parla al bambino degli stati mentali interni in un modo che è adeguatamente sintonizzato con i suoi pensieri e le sue emozioni.
Fra i 5 e i 6 anni il bambino inizia a comprendere che gli stati psicologici perdurano nel tempo e hanno un’influenza causale sul comportamento nel presente. È a quel punto che il soggetto comincia a razionalizzare la propria identità in termini di autobiografia; inizia cioè a integrare il ricordo di stati psicologici – i quali in precedenza non erano connessi in una organizzazione causale e temporale coerente – in un concetto di sé esteso nel tempo. Questa rappresentazione di sé autobiografica organizzata, coerente e unificata è l’identità narrativa.
Le origini evolutive dell’identità narrativa risiedono nello strutturarsi della memoria autobiografica nella prima infanzia e nello sviluppo della capacità di ragionamento autobiografico nella tarda infanzia e nel corso dell’adolescenza. Il ragionamento autobiografico è un processo di pensiero o di discorso che intreccia eventi della propria vita fra loro e con la rappresentazione di sé col fine di mettere in relazione l’identità nel presente con il passato e il futuro. Esso è perciò costitutivo dell’identità narrativa; è una facoltà che inserisce i ricordi personali in una storia di vita coerente sotto il profilo tematico, causale, temporale e culturale; in tal modo, il formato della storia di vita stabilisce e ristabilisce la continuità di sé.
Quali dinamiche attivano la precarietà dell’identità soggettiva?
È stato Sigmund Freud a inaugurare l’idea di precarietà dell’identità soggettiva e dei meccanismi di difesa attraverso cui l’Io mette ordine nella mente, conferendo agli eventi psichici struttura, familiarità, comprensibilità e gestibilità pragmatica. I meccanismi di difesa permettono all’Io di presentarsi alla coscienza come unitario, autonomo e primario, mentre in realtà esso è eterogeneo e secondario rispetto a eventi psichici radicati nella dimensione istintuale-pulsionale. In questo senso l’Io realizza, per autodifesa, un autoinganno primario: il soggetto freudiano è agito da pulsioni, ma ha interesse a nasconderlo a se stesso.
La dimensione difensiva della soggettività autocosciente su cui Freud ha richiamato l’attenzione è stata pressoché ignorata dai filosofi che hanno attinto alle scienze cognitive per proporre una nuova teoria del soggetto. E tuttavia è proprio questa dimensione a costituire la chiave di volta di un’antropologia filosofica congruente con i dati delle scienze psicologiche discussi nel libro. Il soggetto umano è un soggetto impegnato a costruire integralmente se stesso in base a un bisogno primario di consistere soggettivamente, e dunque di esistere solidamente come “io” (e cioè in pratica come io descrivibile), come soggetto unitario. Ma questo io non è dato una volta per tutte: è qualcosa di perpetuamente ricostruito e attivamente riconfermato ogni giorno, qualcosa di perennemente precario. Questa precarietà rende comprensibile la difensività immanente al processo di autocostruzione identitaria.
Il bisogno di sapere che la propria identità, così com’è descritta e raccontata, risulta chiara, coerente e valida nelle sue caratteristiche è un bisogno che ognuno di noi mantiene per tutta la vita. E non potrebbe essere altrimenti: il processo di costruzione/accettazione della propria identità è ciò che costituisce la solidità dell’autocoscienza, ovvero del “senso di sé”: di quel senso di sé, in pratica, la cui solidità e chiarezza è il fondamento dell’equilibrio psichico.
Nel corso dell’adolescenza il processo di costruzione/autoaccettazione della propria identità si lega a uno dei due aspetti principali del processo di realizzazione di sé: l’autonomia (l’altro aspetto è l’individuazione).
Nell’approccio eriksoniano allo sviluppo dell’identità, l’adolescente affronta il problema di sostenere e gestire la fine dell’eteronomia dell’identità (per cui il proprio “esser così” era fino a quel momento una funzione delle definizioni date dai genitori); e questo è il problema di come passare, in un salto rischioso, all’acquisizione di una definizione di sé autonoma: un’identità svincolata da ogni “riconoscimento” protettivo, mediata da identificazioni con figure transazionali e incardinata sulla vita extrafamigliare.
Secondo Erikson, l’esito ottimale del processo di autonomizzazione è il prevalere del polo “sintonico” dell’integrazione dell’identità sul polo “distonico” della dispersione di identità. Quest’ultima è definita come un’insufficiente integrazione di immagini di sé che ha origine da una debolezza dell’Io. Il giovane che soffre di dispersione di identità avverte l’intimità e l’impegno come una costante minaccia di fusione e perdita della sua fragile identità – minaccia contro la quale i sintomi dei disturbi di personalità borderline, istrionico e narcisistico possono costituire una difesa disadattiva. Anche i rischi di uno screzio psicotico, e anzi di una crisi o di uno scompenso psicotici, così drammatici e frequenti fra i 16 e i 18 anni, sono interpretabili in larga misura come fallimenti nell’acquisizione dell’autonomia dell’identità.
Il concetto di dispersione di identità ci introduce agli aspetti clinici del nesso inestricabile fra autodescrizione di identità e autocoscienza. Non è possibile dare concretezza e solidità alla propria autocoscienza se quest’ultima non ha come centro, e come essenza, una descrizione di identità che deve essere chiara e, inscindibilmente, “buona” in quanto degna di essere amata. Ciò che è definito equilibrio psichico, o salute mentale, poggia sulla solidità del proprio consistere autocosciente, che però, in quanto costruzione precaria, deve essere continuamente difeso dal soggetto. Ciò trova una chiara illustrazione nella psicopatologia dell’attaccamento, in cui carenze e distorsioni nelle cure genitoriali sono considerate all’origine di disturbi di identità.
Rispetto alla psicoanalisi freudiana, le teorie delle relazioni oggettuali e dell’attaccamento spostano l’asse teorico dalla dimensione affettiva tipica del bambino fra i 3 e i 6 anni alla dimensione affettiva del primo anno di vita, e quindi dai conflitti nascenti dal triangolo delle rivalità edipiche al tema più precoce della debolezza, o fragilità, o scarsa coesione, o insufficiente integrazione delle strutture mentali che Freud denomina “Io”. Questa condizione strutturale di fragilità è esperita come sentimento (o vissuto) cronico di insicurezza, o mancanza di autostima, o mancanza di fiducia in sé stessi, o mancanza di coesione del self (espressioni tutte sostanzialmente sinonime).
Ronald Laing ha denominato “insicurezza ontologica” questa situazione cronica di insicurezza interiore. Per chi si trova nella condizione di insicurezza ontologica – come i pazienti affetti dal disturbo di personalità narcisistico o borderline – l’ipertrofia dei meccanismi di difesa costituisce un baluardo indispensabile contro un mondo esterno e un mondo interno avvertiti entrambi come minacciosi.
Nel contesto della teoria dell’attaccamento i sintomi di insicurezza ontologica di cui ci parla Laing sono le tracce ultime di un remoto “difetto primario” (come lo ha definito Michael Balint, padre della teoria delle relazioni oggettuali), avente origine sia in precoci insufficienze di relazione fra il bambino piccolo e il caregiver sia nella costituzione genetica del soggetto.
Si può dunque affermare in conclusione, che una enorme mole di ricerca sistematica in psicologia dello sviluppo, infant research, psicologia sociale e psicologia della personalità induce a ipotizzare che l’intero ciclo di vita prenda forma in accordo con un bisogno primario di esistere solidamente come io unitario. Dunque, l’incessante costruzione e ricostruzione di un’identità accettabile e adattivamente funzionante è qui vista come il processo che produce i nostri equilibri intrapsichici e interpersonali, e quindi come il fondamento del benessere psicologico e della salute mentale.
Massimo Marraffa insegna Filosofia della mente e Filosofia teoretica presso l’Università Roma Tre. Fra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: Filosofia della mente (con M. Di Francesco e A. Tomasetta, Carocci, 2017); Psicopatologia e scienze della mente (con R. Guerini, Carocci, 2019); Percezione, pensiero, coscienza (Rosenberg & Sellier, 2019).
Cristina Meini insegna Filosofia dei processi cognitivi e Filosofia della comunicazione presso l’Università del Piemonte Orientale. Ha all’attivo numerose pubblicazioni, in Italia e all’estero, sul tema della conoscenza di sé e dell’altro. Per Carocci ha pubblicato Psicologi per natura (2007) e L’identità personale (con Massimo Marraffa, 2016).