“La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano” di Francesco Stoppa

Dott. Francesco Stoppa, Lei è autore del libro La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano edito da Vita e Pensiero: la costola perduta di Adamo quale simbolo della natura dimidiata dell’umano?
La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell'umano, Francesco StoppaQuella costola in meno sta a significare la perdita di simmetria, di stabilità e autoreferenzialità che colpisce l’uomo nel momento dell’arrivo nel mondo della donna, l’Altro per eccellenza. Un evento che comporta un rimaneggiamento della sua identità di partenza. Ma si tratta di un danno che non tarda a rivelare la sua natura di dono. La nostra avventura nasce da lì, l’essere umano si scopre mancante e quindi desiderante, realizza che non è fatto per bastare a se stesso; esce da una sorta di edenico Centro benessere e ha inizio la Storia. In effetti, a ben vedere, lei è la prima creatura pienamente umana, perché invece è dal fango, da un materiale ancora grezzo e inorganico, che Dio ha estratto Adamo.
Questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che la donna è, assai più del maschio, una figura della civiltà. Ne sono la prova – come cerco di dimostrare nel mio lavoro – il suo rapporto con la verità, il legame, decisamente più sofferto, critico e autentico, che intrattiene col corpo e col linguaggio. E, come se non bastasse, il suo anelito all’amore.
Tutto ciò sembra segnato da una profondità, un riconoscimento della complessità delle cose – accompagnati da un preciso senso di concretezza – che al maschio il più delle volte difettano.

In cosa consistono l’‘anomalia’ e la diversità femminile?
Il femminile appare subito come una forma del tutto radicale della diversità. In un certo senso – servendoci di un concetto di Lacan – nel caso della posizione femminile potremmo parlare di una differenza assoluta, che non a caso è un’espressione che egli usa per indicare l’eterotopia, l’indicibilità di fondo dell’identità soggettiva tout court (l’essere dell’uomo – dice – “è sempre altrove, sempre puntiforme ed evanescente”). L’anomalia della donna ha a che vedere col fatto che la particolarità della sua identità non rimanda a una categoria o a un insieme; a una qualche totalità alternativa, nella fattispecie, a quella a cui sente di appartenere il maschio. Esistono gli uomini, dice ancora Lacan, identificati alla loro “divisa” fallica, appartenenti quindi ad un Tutto, mentre una donna è sempre “non-tutta”. È come dire che le donne non fanno massa, funzionano “una per una”. In questo senso rappresentano un paradigma della soggettività, per quello che di essa sfugge a ogni categorizzazione e omologazione.

Quali sono le risorse civili del femminile?
Se da un lato la strutturale asocialità della donna, derivante dalla non piena adesione alla divisa fallica, sembrerebbe deporre a favore di una deriva individualistica della sua posizione soggettiva, dall’altro è indubbio che tale condizione la porta a esercitare una naturale resistenza all’uniformità e alla massificazione dei legami. La posizione di eccezione della donna non le permette di accedere o dare corso ad alcuna identità collettiva, ma in compenso rappresenta la forma più compiuta di resistenza ai legami di massa e ai suoi effetti. Più in generale, mostra di avere qualcosa di antitetico al bisogno dell’uomo di istituire e dare forma compiuta alle cose e agli eventi, alla necessità di costituire aggregazioni e insiemi autoreferenziali e auspicabilmente perpetui. Se il momento fondativo prevede un raccogliersi e fissarsi dell’azione creatrice su se stessa – assegnare un nome, sancire norme e divieti, stabilire criteri di inclusione e esclusione -, al contrario il tocco femminile è indice di un’apertura ancora incondizionata, di un credito concesso all’inatteso. Il che spiega perché la psicoanalisi faccia della donna il paradigma dell’umano in quanto tale. Essa incarna infatti la mancanza di un fondamento certo dell’essere, il suo realizzarsi sempre in un altrove e nei modi di una realtà mai compiuta. Allo stesso tempo, la donna è la prova vivente dell’incompletezza e precarietà di qualsivoglia insieme, a partire dall’impossibilità di significare se stesso, cioè di garantirsi in termini di autoreferenzialità.

Ciò detto, la strutturale instabilità del femminile non esclude affatto le donne da tutto ciò che ha a che vedere con il sorgere e soprattutto il mantenersi del legame sociale. Tutt’altro, esse rappresentano l’elemento fluidificante del gruppo umano, di cui possono infatti ridimensionare la spinta centripeta e l’ossessione claustrofilica. Per ciò però che riguarda una corretta tessitura del legame sociale, l’approccio femminile alla vita può offrire ancora qualcosa di più perché fa proprio un trattamento del reale, della vita e delle sue eccedenze, decisamente altro da quello maschile, cosa che, a determinate condizioni, può prevenire gli scivolamenti più scabrosi o devastanti nell’esercizio del potere. Va ricordato che ogni forma di potere ha sempre di mira il governo dei godimenti, l’addomesticamento della vita: alla dimensione totemica e patriarcale che tendeva a normare, proibire e sanzionare, si è oggi aggiunta o sostituita la deriva consumistica e tecnocratica delle società occidentali che, al contrario, ‘istiga’ al godimento, ma il rischio, tuttavia, rimane lo stesso, e cioè che sia la paura – anche quando è ammantata di permissivismo – il vero mandante delle azioni del singolo e il collante del gruppo. La paura è il difetto di fondo nel rapporto dell’uomo con la vita – l’orrore, in sostanza, per ciò che di essa è fuori controllo, non padroneggiabile – e le difese adottate sulla base della paura portano a una gestione sostanzialmente fobica e paranoica del potere e della legge così come al richiudersi del soggetto in forme di esasperato, tanto cinico quanto disperato individualismo.

Quali sono le ragioni profonde della violenza di genere?
Dal lato maschile la drammatica difficoltà di riconoscere nella partner un soggetto di diritto: questo sia sul versante della libertà che su quello della sua condizione umana. La donna viene temuta (ma anche invidiata) e quindi punita per la relazione che mostra di saper intrattenere con la vita, con quel mistero e profondità delle cose a cui lui raramente mostra di sapersi avvicinare (si pensi, di nuovo, alla relazione col corpo, il godimento o il dolore). L’uomo violento, non a caso, pensa di “sapere cosa ci vorrebbe per lei”, in sostanza vorrebbe irreggimentarla. Teme in lei la vita di cui ha sostanzialmente paura. Freud non esita a scrivere che “l’uomo teme di essere indebolito dalla donna, di essere contaminato dalla sua femminilità e perciò rifiuta la donna come estranea e ostile”.
Dal lato della donna, invece, subire la violenza ha spesso il valore di una resistenza attuata in nome di un amore senza limiti: stare al proprio posto nella speranza (il più delle volte un’illusione) di vedere prima o poi apparire il padre amorevole sotto la pelle del lupo.

Quale percorso dunque per la costruzione dell’umano?
La costruzione dell’umano è l’opera della civiltà. Un cantiere aperto che ci vede impegnati giorno per giorno, fin nei piccoli atti, nella cura del mondo e di noi stessi, riuscendo a mantenere le condizioni che fanno di noi degli esseri viventi, in grado di esercitare le proprie competenze civili e le proprie responsabilità con capacità critica e sufficiente creatività. Tutte cose che non bisogna mai dare per scontate, soprattutto in una società come la nostra, dove la spinta all’omologazione e al pensiero unico è piuttosto forte.
La donna, come scrivo alla fine del libro, ha in sé delle caratteristiche che sono in qualche modo riconducibili a quelle della comunità come elemento critico, affettivo, dinamico della società. Cantiere aperto, luogo discorsivo che dà modo ai suoi membri di uscire dalla logica inebetente dei godimenti imposti dal mercato (una sorta di Centro benessere diffuso) per esplicare le proprie responsabilità civili e forme condivise, creative, evolute di godimento. Il percorso da seguire è dunque questo, oggi, passa necessariamente per la riabilitazione della comunità (che ha appunto un’anima femminile), per il rilancio di tessuti comunitari dove ragionare e agire non più solo come individui ma come costruttori e manutentori di legami umani significativi.

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