
In che modo i percorsi dell’attuazione e della riforma della Costituzione si rincorrono e si intrecciano alle ricorrenze della sua entrata in vigore?
Attuazione e riforma in realtà rimanda ad una endiadi. Lo aveva detto lo stesso coordinatore della scrittura della Carta, Meuccio Ruini, presentandola all’Assemblea per l’approvazione finale: abbiamo fatto un buon lavoro, che ci viene riconosciuto anche dagli osservatori stranieri, ma questo lavoro e perfettibile.
Una lunghissima Costituente, quella italiana, due proroghe ed una prorogatio. La più lunga tra quelle coeve. Questa lunghezza si proietta, specularmente, su una lunga attuazione. Che arriva, per quanto riguarda le istituzioni, almeno fino al 1990, quando sono approvate diverse leggi appunto ancora direttamente di attuazione, di sincronizzazione delle istituzioni e della società al dettato costituzionale: basti ricordare la legge comunale e provinciale. L’ attuazione, il tempo lungo dell’attuazione, che fa riferimento di fatto a tutto l’”arco costituzionale”, a proposito della quale, detto del carattere ideologico, e polemico, della formula di Calamandrei, per cui per compensare le sinistre di una rivoluzione mancata la democrazia cristiana concesse una rivoluzione promessa, vale quella utilizzata da Alcide De Gasperi in un discorso a Predazzo, il 31 agosto 1952; “cum granu salis, con l’esperienza, a tempo e luogo”. Una formula nei fatti condivisa da tutto quello che sarà poi definito l’arco costituzionale.
Attuazione e riforma non sono solo processi distinti e antinomici: si sovrappongono, in particolare nel passaggio del 1992-94. E sempre, nei momenti di riflessione, si propone un bilancio. In senso stretto la prima riforma della costituzione è già in discussione nel corso della seconda legislatura, ovvero quella che poi sarà la “piccola riforma” del Senato. E di fatto anche in anni recenti solo riforme condivise sono passate, sia senza che con il passaggio del referendum confermativo.
E in ogni caso, al di là delle riforme disegnate e realizzate, vale sempre la dinamica dell’attuazione di quella idea esigente di democrazia che costituisce la cifra identitaria della Costituzione.
Le celebrazioni del terzo decennale si inscrivono in un clima difficile per il Paese e di solidarietà nazionale: in che modo il rinnovato patto tra le forze popolari e democratiche del paese rivive nel ricordo dell’Assemblea Costituente?
Corrispondendo alla stagione della solidarietà nazionale, che ha segnato l’ottava legislatura, dal 1976 al 1979, il terzo decennale della Repubblica e soprattutto della Costituzione ha comportato una intensa applicazione, una rinnovata attenzione alla Costituzione da un punto di vista nuovo, rispetto ai due presenti. È risaltato con una nuova evidenza ed in una nuova luce, grazie anche ad un importante corpus di ricerche originali il rilievo, la soggettività, l’importanza, il protagonismo delle forze politiche, e in modo particolare di grandi partiti di massa. Sottolinearne il ruolo tra 1946 e 1948 comporta ribadirne la centralità trent’anni dopo. La ricostruzione del loro contributo al momento costituente e alla gestione dei compromessi costituzionali produce importanti risultati di ricerca. Ma soprattutto centra un obiettivo anche politico: la solidarietà nazionale aveva bisogno di legittimazione e la trova nell’unità nazionale. Si tratta di un dato di lungo periodo, destinato a sopravvivere anche alla rottura dei primi anni novanta e alla fine delle forze politiche protagoniste della stagione Costituente.
Il settantesimo anniversario della nostra Costituzione pone all’ordine del giorno l’ineluttabile necessità della sua riforma: su quali basi è oggi pensabile un rinnovamento costituzionale?
Più propriamente direi l’ineludibile politicità del processo di riforma. Che in fin dei conti è essenzialmente una posta.
Dall’ultimo decennio del secolo ventesimo il riferimento alla Costituzione, nelle forme non più dell’attuazione, ma della riforma della stessa, accompagna tutta la contraddittoria vicenda del nuovo sistema politico, che si autodefinisce seconda repubblica, pur senza arrivare mai ad esserlo in senso proprio. In realtà, lungi da rispondere ad un obiettivo di efficienza, il dibattito sulle riforme finisce coll’essere una grande clausola “rettorica”. E siccome i diversi soggetti politici sono diffidenti, perché in debito di legittimazione, risulta molto difficile passare dalle parole ai fatti. I risultati sono dunque stati assi modesti, quando le riforme, per motivi tecnici o politici, non hanno prodotto più problemi di quelli che invece non hanno risolto, come è accaduto per la riforma del titolo V della parte II, ovvero a proposito della riforma dello stato regionale italiano.
La strada non può che essere quella percorsa all’inizio, nel 1963: intervento puntuali, coerenti e il più possibile condivisi, senza la fregola di imitare modelli, come per troppo tempo si è ripetuto in un dibattito in fin dei conti autoreferenziale.
Quale futuro per la “Costituzione più bella del mondo”?
Direi un futuro europeo.
Che ci riporta a due processi storici.
Il primo è il pieno inserimento del processo costituente italiano in quello dell’Europa democratica, come si vede nella successione delle Carte francese, italiana e della Germania Occidentale. Un pieno inserimento che produce nei primi anni Cinquanta, la partecipazione, anzi l’iniziativa con Alcide De Gasperi, del progetto di una comunità politica europea retta da una costituzione europea, e comunque una forte tensione europeista, garantita anche dal pieno inserimento nell’Alleanza Atlantica.
Ne risulta quello che è stato definito il “vincolo esterno”. È il secondo processo, nello stesso tempo clausola di salvaguardia, propellente a comportamenti virtuosi e ad obiettivi ambiziosi di sviluppo e anche, nei momenti difficili, e penso alla crisi dei primi anni novanta, una sorta di vera e propria polizza sulla vita della Repubblica. Ho citato nel libro il governatore della Banca d’Italia, che aveva ricordato nel 1954 l’opera dell’organizzazione europea che ci vincola, ma ci aiuta col suo consiglio e limita indubbiamente i nostri errori”.
Con l’Unione il disegno europeo ha subito una importante accelerazione strutturale, anche se ha perso progressivamente di consenso e di coerenza. Lo dimostra il fallimento del progetto di trattato costituzionale. Quello che rappresenta un fattore di blocco, negli anni della crisi dal 2008 in poi è la percezione diffusa che non si percepisce il carattere biunivoco dell’approdo europeo, che non comporta solo appunto vincoli, anche un contributo al pilotaggio, alla governance di questo sistema multilivello, in cui non solo tutti i tradizionali poteri sono coinvolti – si pensi ad esempio alla Corte Costituzionale, che poco si considera, al dialogo tra le Corti in tema di diritti (e doveri).
Ovviamente questo comporta una classe politica e più ampiamente una classe dirigente consapevole e di qualità. Per questo è importante, utile e anche necessario misurarsi – almeno periodicamente, in forma collettiva e pubblica – con la Costituzione: è il senso e in fin dei conti il valore profondo dei decennali che in queste pagine abbiamo cercato di studiare e di interpretare.
Francesco Bonini, phd a Sciences-Po e alla Normale di Pisa, è professore ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche alla LUMSA di Roma, di cui è rettore dal 2014. Tra i suoi volumi Lezioni di storia delle istituzioni politiche (Giappichelli 2010), Le istituzioni sportive italiane. Storia e Politica (Giappichelli 2006), Storia costituzionale della Repubblica (Carocci 2007). Da ultimo ha curato con G. Tognon e T. Di Maio, Italia Europea (Studium 2017), con V. Capperucci e P. Carlucci), La Costituzione nella storia della Repubblica. Sette decennali: 1957-2018 (Carocci 2020) e con S. Guerrieri, La scrittura delle Costituzioni. Il secondo dopoguerra in un quadro mondiale (il Mulino 2020).