
«Il combattivo pamphlet Sull’antichità degli Ebrei (Contro Apione) è la sola opera di Giuseppe che ci sia giunta priva di alcune pagine, che però si recuperano nell’accurata versione latina dell’intero corpus di Giuseppe promossa da Cassiodoro (VI secolo). Gli altri ventotto libri (7 della Guerra, 20 delle Antichità, e l’Autobiografia) sono giunti integri, sorretti da una tradizione manoscritta cospicua (127 manoscritti greci censiti da Heinz Schreckenberg) e, nel caso delle versioni latine (oltre 200 testimoni), addirittura imponente.»
«Come si è salvato questo imponente corpus?» si interroga dunque Canfora, «Si è salvato tutto […] ciò che era disponibile in greco: non dunque l’originaria stesura, pur largamente diffusa in Oriente, della Guerra giudaica in aramaico. È notevole una tale forza di conservazione. Opere di pari ampiezza, e di molto prestigio negli ambienti che ci hanno trasmesso la storiografia greca antica (Polibio, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, Appiano, Dione Cassio) e latina (Livio, Tacito, Ammiano Marcellino), ci sono arrivate a pezzi: di Polibio si son persi 35 libri su 40, di Diodoro 25 su 40, in blocco i primi 36 e gli ultimi 20 dei complessivi 80 di Dione Cassio; per non parlare della perdita totale dei 144 libri di Nicola Damasceno. E si potrebbe seguitare con la perdita di circa un terzo dei libri di Appiano e di quasi la metà dei 20 libri della Storia antica di Roma (Ἀρχαιολογία ῥωμαική) di Dionigi di Alicarnasso […]. Solo Giuseppe ci è giunto intero. Si è salvata persino la sua Autobiografia, pur distaccatasi, ad un certo momento, dal xx libro delle Antichità, di cui costituiva una sorta di appendice. E si badi che l’Autobiografia appartiene a un genere di opere che, nel caso di autori ben piú “autorevoli”, e anche più significativi, di Giuseppe sono andate perse: quasi tutti i Commentarii autobiografici dei grandi protagonisti della storia romana, da Silla ad Augusto, a Vespasiano, a Tito. Abbiamo invece l’Autobiografia di Giuseppe e le Confessioni di Agostino. Presto si perse financo la grande biografia di Cicerone scritta da Tirone, che era di fatto quasi un’autobiografia.»
È possibile dunque «arguire che da molto presto l’opera di Giuseppe è approdata in mani cristiane. E, dato l’intervallo così breve tra l’uscita di scena dell’autore e la frequentazione e utilizzo cristiani della sua opera, non sembra azzardato supporre che la circolazione di quei suoi libri in quel mondo derivi da una reciproca opera di avvicinamento […] Le sue opere, poiché ritenute utili (forse indispensabili), sono state ricopiate in ambienti il cui patrimonio testuale è approdato alle cerchie decisive del cristianesimo sia occidentale sia orientale. […] il salvataggio e la conservazione di quel corpus avvennero cioè per merito, e ad opera, di copisti operanti in ambienti cristiani: copisti cui era stato commissionato il compito (impegnativo, data la mole) di “tenerlo in vita”. […] Giuseppe è stato dunque da molto presto preso in carico dalla tradizione cristiana, al pari dei LXX»
Canfora, con la consueta acribia filologica che caratterizza tutti i suoi scritti, ci conduce nel cuore del dibattito filologico sull’autenticità del testo flaviano dandoci così conto di una battaglia per la supremazia culturale consumatasi nel momento in cui la setta prima perseguitata è assurta a élite dirigente. Lo storico barese si incarica così di decifrare il mistero di «un dotto sacerdote ebreo, che ostenta, nell’Autobiografia, la propria discendenza da antica e illustre famiglia sacerdotale» divenuto, suo malgrado, naturaliter christianus.