Innanzitutto occorre definire il concetto di “ricezione”. Utilizzata nel dibattito teologico nella lectio di “recezione”, si riferisce al processo di assimilazione del Concilio. In questo libro è stato investigato solamente un aspetto di questo processo che possiamo considerare ancora in corso. Si tratta del problema della prima “ricezione politica” in relazione allo scoppio della contestazione. Il punto di partenza della ricerca è stato capire quali resistenze si sono sviluppate al modo in cui le diverse forze del “mondo cattolico” ufficiale – Conferenza episcopale, Azione cattolica, e Democrazia cristiana in primis – hanno interpretato il messaggio del Vaticano II e lo hanno messo in pratica. Occorre tenere presente, infatti, che documenti come la Gaudium et spes e Dignitatis Humanae (per citare i principali) si prestavano a interpretazioni diverse. In un sistema socio-politico in cui il cattolicesimo era parte integrante e costituente del compromesso repubblicano e in una fase di profonda secolarizzazione, il Concilio aveva svelato agli occhi dei certi suoi ricettori la distanza tra il cristianesimo vissuto, la dottrina rinnovata e la continuità di schemi dei vertici, che pretendevano di leggere nel Vaticano II solamente una conferma dei rapporti tra fede e politica dell’Italia post-fascista. Sono da ricercare qui le origini della contestazione post-conciliare. Questa è stata traversale alle componenti in campo, ha preceduto l’esplosione del ’68 e ha riguardato, in primo luogo, il superamento della concezione « nuova cristianità » democratica. Per alcuni gruppi intellettuali e del cattolicesimo “di base”, l’impostazione di Maritain era stata sostanzialmente disattesa (in Italia) e andava considerata superata dalla fine dell’“Era costantiniana”, dalla “teologia della diaspora” e dalla separazione netta tra appartenenza religiosa e identità politica: il cristiano doveva militare politicamente in quanto cittadino, mettendo da parte la propria fede o comunque reinterpretando politicamente (a sinistra) le categorie evangeliche alla luce dei “segni dei tempi” di una società secolarizzata. Ne conseguiva che l’unità politica dei cattolici nella Dc (con il sostegno dei vescovi) non fosse più accettabile, così come non lo erano le battaglie contro il divorzio e per il mantenimento del Concordato. Altri punti di conflitto sono stati ricercati nella legittimità dell’“apostolato gerarchico”, e quindi dell’associazionismo tradizionale, delle istituzioni cattoliche (giornali, scuole, università), nel modo di gestire concretamente la funzione della Chiesa nella politica mondiale, ma il discorso ci porterebbe lontano…
Col Sessantotto entrò in crisi anche l’associazionismo cattolico
La crisi dell’associazionismo cattolico dopo il Concilio è stata un fenomeno europeo e risponde principalmente alle ragioni di quella crisi delle organizzazioni tradizionali che ha coinvolto l’intera società italiana negli anni Sessanta. Nel libro ho cercato di mettere a fuoco le motivazioni specifiche della crisi dell’Azione cattolica che la porterà nel giro di pochi anni a ridimensionarsi notevolmente dal punto di vista del numero degli iscritti e della presenza nelle diocesi. Naturalmente all’origine c’è ancora una volta il Concilio con le sue diverse opzioni interpretative. In Italia, dove l’Azione cattolica poteva vantare una lunga storia, il problema è stato particolarmente avvertito dai nuovi movimenti ecclesiali, che hanno messo in campo esperienze alternative all’“apostolato gerarchico”. La dirigenza nazionale (Vittorio Bachelet e mons. Franco Costa in primis) ha reagito con la “scelta religiosa”, che si è tradotta in un progressivo allontanamento dalla Dc. Tuttavia il cambiamento di registro non ha comportato una critica all’unità dei cattolici nella Dc e, soprattutto, un disimpegno definitivo dalla politica. A questo proposito, lo studio dei verbali della Giunta centrale ha rivelato la presenza di uno scontro interno con i settori giovanili della Giac/Gf e (in misura minore) della Fuci, che desideravano una riforma “dal basso” della struttura e una rottura netta con la Dc e con le campagne dei vescovi. Si è cercato quindi di mettere a fuoco le posizioni in campo sulla riforma dello Statuto e il ragionamento politico-conciliare che vi stava alla base. Non è casuale, infatti, che soprattutto dopo la “sconfitta” della battaglia contro la centralizzazione (1969) le organizzazioni giovanili diventeranno dei bacini della contestazione cattolica e studentesca.
Un secondo caso di studio è quello delle Acli. Specularmente all’Azione cattolica, anche la dirigenza dell’associazione dei lavoratori cristiani (con Livio Labor alla presidenza) ha posto al centro il problema dei rapporti con il partito politico. Dal suo punto di vista, l’azione pastorale raccomandata dalla Gaudium et spes non poteva che svolgersi a stretto contatto con lavoratori e quindi nella dimensione politica e sindacale. Inoltre, il Concilio aveva fornito le pezze per giustificare la rottura del collateralismo tra le associazioni cattoliche e la Democrazia cristiana, alla quale si imputava di aver abbandonato la rappresentanza delle istanza sociali. Il passo successivo (mai realizzato) doveva essere il superamento dell’assistentato ecclesiastico e il percorso si sarebbe concluso con l’approdo all’ “ipotesi socialista” del 1970 a cui seguirà un parziale rientro nei ranghi negli anni a seguire.
Nel Suo testo Lei avanza l’ipotesi che in seguito alle vicende del ’68 sia finita anche l’unità politica dei cattolici
Dal punto di vista formale l’unità politica dei cattolici è finita solo nel 1994 con lo scioglimento della Dc. Gli storici sono però concordi nel sostenere che dopo il Vaticano II il principio dell’unità politico-religiosa è entrato in crisi, come dimostrato dai referendum sui diritti civili e dalla progressiva diaspora dei voti democristiani. Tenuto presente che un’effettiva unità non c’era comunque mai stata – si pensi alla variegata composizione dell’elettorato del Pci – nel libro ho cercato di mostrare come l’esplosione della contestazione cattolica abbia rappresentato la punta di un processo di scomposizione del blocco cattolico del dopoguerra, sia dal punto di vista delle organizzazioni che lo componevano – vedi anche la nascita di nuovi movimenti – sia, più in profondità, nelle mentalità diffuse. Da parte sua la Dc ha cercato di rispondere alle accuse a partire dal convegno di Lucca del 1967, in cui ha sostanzialmente presentato il Vaticano II come un momento di ratifica del progetto storico di Sturzo e De Gasperi: un’occasione mancata e un passaggio chiave per comprendere la contestazione cattolica degli “anni ‘68”.
Come e in che forme esplose il dissenso all’interno della Chiesa?
Come ho anticipato nelle risposte precedenti, il fenomeno del cosiddetto “dissenso” post-conciliare non può essere ricondotto alla sola contestazione politico-religiosa e neppure alle vicende interne all’universo cattolico. Per quanto riguarda le dinamiche legate alla ricezione complessiva del Concilio, occorre tenere presente le tensioni legate alle mancate o parziali riforme applicative del Concilio in materia di collegialità, liturgia, ecumenismo, nonché le rettifiche e i passi indietro rispetto alle aperture conciliari. Se teniamo presente il rapporto tra contestazione cattolica e “momento ‘68”, il discorso si complica ulteriormente perché non c’è dubbio una parte significativa dei credenti abbia condiviso un immaginario generazionale di stampo ribellistico che aveva per oggetto tutte le istituzioni autoritarie, compresa la Chiesa. Il libro non ha quindi la pretesa di aver sciolto le tante questioni relative al dissenso e anche dal punto di vista dello studio delle fonti tanto è ancora il lavoro da fare. Nell’ottica della mia ricostruzione l’esplosione della “contestazione aperta” nel biennio 1968-1968 rappresenta il momento in cui le tensioni e le contraddizioni maturate negli anni precedenti sono venute al pettine e, nello stesso tempo, una discontinuità nel discorso di fondo. Nel cuore del Sessantotto, la cui esplosione ha determinato un salto d’intensità e di qualità della protesta post-conciliare, la battaglia era quella per una chiesa povera, evangelica e libera dai condizionamenti del potere. Una chiesa “altra” che non voleva diventare però un’altra chiesa. Nelle prime assemblee i gruppi, pur rivendicando un’origine cristiana, dichiaravano di concepire il proprio impegno come civile e areligioso. Nel giro di qualche anno sarebbero nati i primi gruppi cristiano-rivoluzionari, mentre contemporaneamente giovani cresciuti nella Chiesa decidevano di mettere da parte definitivamente la questione della fede. Cosa era successo? La radicalizzazione trova una prima spiegazione nell’atteggiamento di chiusura assunto da subito nei confronti di quei movimenti che non si inquadravano più nel blocco cattolico. Un altro vettore è costituito dall’incontro con la cultura della sinistra (tradizionale e nuova sinistra). L’idea di una riforma post-conciliare non poteva che uscirne fortemente ridimensionata. Come si poteva confidare ancora in un cambiamento dopo il caso Lercaro, Humane vitae e la repressione dell’Isolotto? In questo senso, è legittimo parlare di una specificità cattolica nel momento Sessantotto. Ugualmente, la contestazione religiosa va considerata come un effetto della trasformazione della società italiana sul mondo cattolico: una società che non rispondeva più alla rappresentazione che ne veniva data dai vertici ecclesiali e politici e della quale il dissenso denunciava gli anacronismi, gli elementi considerati inconciliabili con il rinnovamento conciliare. Il fenomeno della contestazione risulta in tale prospettiva decisamente più rappresentativo di quanto l’estremismo linguistico e la politicizzazione esasperata delle sue componenti più radicali farebbero pensare.
In che senso la nascita di Comunione e liberazione può essere considerata una risposta identitaria al ’68?
Negli ultimi tempi gli studiosi hanno discusso sulla fedeltà del gruppo di Giussani al Concilio, ma si tratta di un falso problema. È innegabile, infatti, che Gioventù studentesca, dalla cui evoluzione e crisi nascerà nel 1969 Comunione e liberazione, si considerasse legittimamente vicina alla lezione della Lumen Gentium sul “popolo di Dio” e che nel Vaticano II vedesse la conferma della propria missione. A ciò si aggiunga che in questo particolare movimento, intrinsecamente alternativo alle strutture dell’apostolato gerarchico dei laici, si può riscontrare la proliferazione di molte delle parole d’ordine della contestazione (terzomondismo, pacifismo, critica alle istituzioni borghesi, etc). Ma quale era la visione “politica” del Concilio di Giussani e del suo entourage più stretto? Dallo spoglio della stampa legata a Gs sembra emergere un’estraneità all’interpretazione “progressista” del Vaticano II, soprattutto per quanto riguarda le campagne sulla laicità. Inoltre, nella proposta di “presenza” del cristianesimo come alternativa alla modernità “illuminista”/secolarizzata si possono leggere i caratteri di una linea tanto moderna nelle forme (si pensi alla mancata divisione di genere nei raggi) quanto anti-moderna nei contenuti di fondo. Cl sarebbe nata nel pieno delle lotte studentesche alla Cattolica che avevano decimato il gruppo originario segnando l’apice dell’egemonia della sinistra (laica cattolica). L’intuizione del nucleo di Giussani si sarebbe evoluta all’insegna di una contrapposizione alla nuova sinistra e di un progetto di rilancio dell’identità cattolica. Si profilava, in sostanza, una nuova visione dei rapporti tra fede e politica che avrebbe portato all’impatto con l’Azione cattolica di Mario Agnes. Erano i prodromi di ciò che succederà negli anni Ottanta con la contrapposizione tra la “cultura della mediazione” dei vertici della Cei e la “linea della presenza”: una posizione, quest’ultima, che, forzando gli schemi della “cristianità profana”, declinava in modo aggressivo la campagna per l’inculturazione della fede fino a sostenere l’inutilità della mediazione di un partito laico sia pure di ispirazione cristiana.