
La coercizione, tuttavia, non era e non è la regola nella cura della sofferenza psichica. Abbiamo alcune importanti eccezioni, tanto nel passato, come nella contemporaneità. Nel 1839, a Hanwell, nella Contea inglese del Middlex, John Connolly – allora quarantacinquenne – assume la direzione del locale ospedale psichiatrico cui imprime un orientamento clinico e morale innovativo allora e ancora oggi. Connolly propone un approccio alla cura del male mentale che programmaticamente rifiuta ogni forma di coercizione – no restraint – che valorizza la gentilezza, la dolcezza della relazione. A Hanwell non si usano catene, cinghie di contenzione e tutti gli strumenti empirici escogitati dai primi alienisti per curare i folli, basati sul terrore e la punizione. A onor de vero, va comunque detto che, in forma attenuata, la coercizione era presente anche a Hanwell, con il ricorso alle camere imbottite, nelle quali venivano rinchiusi i pazienti altrimenti non governabili. In tempi più recenti, e proprio nel nostro Paese, il superamento delle pratiche coercitive prende il via con la rivoluzione Basagliana che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha avviato la chiusura dei manicomi e l’attenuazione delle misure coercitive d’impronta manicomiale. Poco prima di allora, negli anni Cinquanta, vengono scoperti gli psicofarmaci con i quali è stato possibile smussare le condotte meno governabili con il solo strumento del dialogo e della relazione. Questo di certo ha facilitato la chiusura dei manicomi, ma non è nelle sole innovazioni della psicofarmacologia che si possono ritrovare le ragioni del mutamento epocale che ha vissuto il nostro Paese. Sulla scia della rivoluzione Basagliana, si è costituito un movimento che ripropone l’approccio no restraint di Connolly nella gestione della crisi psicotica, non più nei manicomi, ma nei piccoli reparti ospedalieri, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) nei quali vengono trattate le patologie psichiatriche acute. Nel nostro studio abbiamo incontrato alcune di questi reparti psichiatrici, in Friuli Venezia Giulia e anche in Piemonte.
In sintesi, la psichiatria ha un legame stretto con la coercizione, ma non si tratta di un legame necessario. In molti casi – alcuni dicono in tutti – è possibile contenere la crisi del paziente psichiatrico senza il ricorso a pratiche coercitive. Questo tuttavia, richiede risorse da destinare alla formazione del personale, al rinfoltimento del numero dei tecnici che operano in psichiatria, all’ammodernamento delle strutture di cura, di quelle ospedaliere, ma anche di quelle territoriali. In tempi di COVID 19 ci siamo accorti dell’importanza di un sistema sanitario pubblico ed efficiente. Ma quanto durerà quest’attenzione? E poi, la valorizzazione del sistema sanitario pubblico potrà riguardare anche la cura della sofferenza psichica? Il male mentale, nell’immagine pubblica e nel discorso dei politici, è spesso percepito come un problema minore – a dispetto del carico di sofferenza che lo accompagna – e a questo settore i fondi pubblici arrivano con il contagocce.
Esistono criteri scientifici di generale applicazione relativi all’adozione di pratiche coercitive in psichiatria?
La sofferenza psichica, per molti versi, sfugge allo sguardo oggettivante del sapere scientifico. A differenza di quel che accade in altre branche della medicina, la psichiatria non dispone di procedure o strumenti tecnologici che consentono di vedere cosa non funziona sotto la pelle. La diagnosi in psichiatria si basa sull’osservazione di sintomi e non già di segni. Lo psichiatra emette la propria diagnosi a partire dall’analisi dei discorsi dei propri pazienti, che dicono di sentire voci, di essere perseguitati dai demoni o dai propri vicini di casa o di essere – come nelle barzellette sui matti – un re, una divinità o un alieno. Non servono, in psichiatria, i raggi X o la Tomografia a emissione di positroni, non c’è un test di laboratorio che consenta di asserire di là da ogni dubbio, se chi si ha di fronte, è sano o matto. Se non temessi di irritare gli psichiatri, sarei portato a sostenere che la psichiatria è, sotto molti punti di vista, più vicina alle scienze sociali – che io pratico – che alle discipline mediche di maggior richiamo mediatico, come l’oncologia e, di questi tempi, la virologia.
Se è difficile la misura della follia (nonostante da anni l’American Psychiatric Association ci provi con il DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ancor di più è difficile stabilire criteri oggettivi e trans-contestuali che autorizzino o suggeriscano il ricorso a pratiche coercitive. Il ricorso alla contenzione meccanica, alla pratica con la quale il paziente viene legato mani e piedi a un letto, a ciò di cui ci siamo occupati in questo studio, dipende più da fattori culturali e organizzativi che caratterizzano l’équipe clinica, che dalla diagnosi o dalla condotta osservata nel paziente. Nel corso del nostro studio abbiamo osservato pazienti assolutamente tranquilli – direi docili – legati perché si temeva di lì a poco, un loro accesso d’ira. Abbiamo anche visto pazienti agitati, minacciosi, preceduti da una cattiva reputazione (non sempre immeritata) tranquillizzati con il potere della parola, contenendo la loro sofferenza senza ricorrere ai lacci.
Come viene disciplinata nel nostro Paese la contenzione in psichiatria?
Al momento non esiste un dispositivo normativo che disciplina il ricorso a questa pratica. Più che discutibile dal punto di vista etico, questa pratica non è tuttavia contra legem. Alcuni giuristi ritengono che sia la stessa Carta Costituzionale a decretarne l’inammissibilità, ma di fatto chi ricorre alla contenzione meccanica non è penalmente perseguibile, laddove il suo ricorso sia motivato dallo «stato di necessità», un pericolo imminente per il paziente, per chi gli sta attorno e/o per chi se ne prende cura. Altro, sono i casi di malasanità, quale, ad esempio quello di Franco Mastrogiovanni, morto nell’agosto del 2009 in un’SPDC di Vallo della Lucania, dopo 87 ore di contenzione meccanica, praticata nel totale disprezzo dei diritti del malato, senza una costante rilevazione dei parametri vitali, senza cibo, privato della possibilità di ricevere la visita dei suoi cari. Mastrogiovanni muore per un edema polmonare, causata più dal modo in cui la contenzione meccanica è stata praticata, che dalla pratica stessa. In molti dei reparti sui cui abbiamo condotto il nostro studio etnografico, la contenzione meccanica durava talvolta poche ore e con una rilevazione dei parametri vitali ogni ora. Nessuno è morto per quelle – pur deprecabili – contenzioni. È comune, in una parte dell’opinione pubblica, assimilare la vicenda – indubbiamente drammatica – di Mastrogiovanni al ricorso alla contenzione meccanica tout court. Con ciò non voglio legittimare il ricorso alla contenzione meccanica, soprattutto nei casi – talvolta osservati sul campo – il suo ricorso avveniva in una condizione di “innocenza morale”, nella convinzione che legare un paziente mani e piedi a un letto fosse nulla più di una pratica terapeutica non diversa dalla somministrazione di un farmaco o dalla misura della pressione arteriosa. Dire che di contenzione si muore è sbagliato e non ci aiuta a comprendere il fenomeno di cui vogliamo arginare la diffusione. Di contenzione si può morire, così come di appendicectomia si può morire, se chi ricorre all’una o all’altra misura agisce con leggerezza, in mala fede e, in ultima istanza, con dolo. La contenzione fa male, ferisce l’orgoglio e la carne di chi la subisce, introduce una lacerazione profonda nella cultura dell’équipe di cura, ma non può essere assimilata a una forma legalizzata di eutanasia del folle pericoloso. Penso che non sia così.
Quali limiti di compatibilità con la Costituzione e le leggi incontra la contenzione?
Al tema ho già fatto riferimento poco fa. Posso acconsentire alla sua richiesta di un approfondimento solo dopo aver premesso che non sono un giurista, né un esperto di diritto costituzionale e che quindi le mie risposte hanno di necessità uno statuto congetturale. L’articolo 13 della Costituzione stabilisce che la libertà personale è inviolabile e questo porterebbe ad escludere dall’area della legittimità le pratiche coercitive in psichiatria. Sempre la Costituzione, all’articolo 32 dichiara l’impegno della Repubblica alla tutela della salute del cittadino e aggiunge che nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario «se non per disposizione di legge». La legge di Riforma sanitaria del 1978 contiene quella specifica disposizione di legge per il Trattamento sanitario obbligatorio (TSO). Come ho già detto, esiste un vuoto normativo per il ricorso alla contenzione meccanica, colmato solo in parte dai codici etici di alcune professioni sanitarie. Personalmente ritengo che questo vuoto normativo debba essere colmato e che il semplice riferimento alla carta costituzionale non sia sufficiente. Alcuni sostengono che una norma di legge sulla contenzione finirebbe per legittimarne il ricorso. Io non la penso in questo modo, penso invece che una legge che la proibisca, individuando specifiche condizioni (nel gergo giuridico, scriminanti) che non rendono punibile chi ne faccia ricorso in presenza di uno stato di necessità, di cause di forza maggiore, sarebbe opportuno.
Qual è la disciplina giuridica della contenzione e del trattamento obbligatorio negli altri paesi europei?
Nel contesto internazionale, di cui si sono occupate Marta Caredda e Cristina Pardini, si riscontra una consistente eterogeneità di norme e prassi. Dall’analisi delle disposizioni normative nazionale e internazionali, Caredda e Pardini concludono – e io con loro – che la contenzione meccanica dovrebbe essere considerata come l’extrema ratio, come una misura eccezionale in nulla assimilabile a una prassi terapeutica.
Mario Cardano è professore ordinario di Sociologia della salute e Metodi qualitativi per la ricerca sociale presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino