“La consolazione della filosofia” di Severino Boezio

La consolazione della filosofia, Severino Boezio, riassuntoLa consolazione della filosofia (De consolatione philosophiae)
di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio

«Delle numerose opere di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (circa 477-524/25) questa è la più interessante e universalmente nota. Fu scritta durante la prigionia, e quindi probabilmente nel 524/25, e consta di 5 libri, in cui, alternandosi prosa e versi, si svolge un dialogo fra l’autore e la sua visitatrice, la Filosofia, che, mentre egli sta cercando sollievo alle sue miserie nella poesia, gli appare sotto le sembianze di una donna di venerabile aspetto, dagli occhi fiammeggianti e dotati di un’acutezza sovrumana, abbigliata in una preziosa veste, sul lembo inferiore della quale sta scritta una P e sul superiore una T. Queste lettere, che senza dubbio simboleggiano la divisione platonica della filosofia in pratica e teoretica, sono congiunte da gradini, che richiamano l’altro concetto platonico complementare dell’ascensione dalla pratica alla teoretica.

Boezio, riconosciuta la visitatrice, si lamenta con lei dei mali in cui è caduto ed essa gli risponde che in realtà egli ha avuto più beni che mali dalla fortuna. Il torto è di lui stesso, anzitutto perché si è fidato di lei, che è incostante e falsa, poi perché ha attribuito valore a beni, quali la fama, la potenza, la voluttà, che producono sventura, non felicità. Quella fortuna che il mondo giudica avversa giova invece assai di più della prospera, perché libera l’anima, sollevandola alla verità e alla virtù, quindi alla vera beatitudine, e a Dio, aspirazione suprema del pensiero umano. A Dio (che evidentemente presenta qui analogia col concetto platonico del Sommo Bene) debbono riferirsi tutte le cose, perciò anche la felicità e infelicità nostre. Ma se Dio regge il mondo – obietta Boezio – il vizio dovrebbe essere sempre punito e la virtù sempre premiata. La Filosofia risponde che l’ingiustizia della ripartizione è solo apparente: la Provvidenza proporziona i beni e i mali secondo i meriti e noi lo intenderemmo se potessimo conoscere la causa di tutto. Come le vicende del mondo possono aver origine tanto da Dio quanto dal fato e devono compiere il loro ciclo, così la nostra fortuna avversa può aver origine dal fato e da Dio, il quale darà in ultimo la giusta mercede. Se il mondo è retto da Dio – ribatte Boezio – non dovrebbe esservi posto per il caso. La Filosofia gli spiega allora che rispetto a Dio nulla è in potere del caso, ma molte cose sembrano esserlo rispetto agli uomini. La previdenza di Dio, che è infallibile, si concilia pure con la libertà umana. Come nella mente umana vi sono gradi e modi di conoscenza superiori ad altri e che non sono comuni né a tutti gli uomini né agli uomini e agli animali, così bisogna ammettere che nella mente divina, tanto superiore alla nostra, possa esservi accordo tra la prescienza del futuro e la libertà umana. In noi stessi la debolezza dei sensi non giustifica la negazione dell’immaginazione, né la debolezza dell’immaginazione la negazione del ragionamento, né la debolezza del ragionamento la negazione dell’intelligenza; allo stesso modo dal fatto che la nostra intelligenza è debole non abbiamo diritto di negare a Dio un’intelligenza più alta.

Alla nuova obiezione di Boezio, che si diminuisca la prescienza divina facendo delle future azioni umane la causa di essa, la Filosofia oppone che “la facoltà preconoscitiva della sapienza divina, abbracciando tutte le cose, dà loro essa stessa la loro legge, ma non è affatto legata alle cose future. Quali queste siano, rimane inviolata per i mortali la libertà d’’arbitrio”. Prevedere un avvenimento non è produrlo né forzare a produrlo; tuttavia la conoscenza anteriore, senza necessitare i fatti, è un segno di questa necessità. Ma quando la conoscenza, anziché essere anteriore, è contemporanea, non condiziona affatto ciò che conosce; ora la conoscenza di Dio è atemporale; Dio vede in un presente eterno. “Al di sopra di tutto sta come spettatore Dio presciente di tutti gli eventi e l’eternità sempre presente della sua visione si accorda con la futura qualità dei nostri atti dispensando ricompense ai buoni e castighi ai malvagi. Non invano sono a lui rivolte speranze e preghiere, che, se sono rette, non possono essere inefficaci. Opponetevi dunque alle colpe, coltivate le virtù, sollevate l’animo alle rette speranze, innalzate al cielo umili preghiere; grande è per voi la necessità di esser buoni, poiché operate davanti agli occhi di un giudice che ogni cosa vede”.

Con questo commosso appello che ricorda la fine del Fedone si chiude l’opera dell'”ultimo dei Romani”, che per tutto il medioevo fu considerata come la suprema espressione del pensiero latino e diventò uno dei libri più popolari. Si risentono in essa echi della filosofia neoplatonica, specialmente di Proclo, e continui riferimenti alla dottrina stoica e specialmente a Seneca, ma, cosa strana, non vi è mai alcun accenno diretto alle dottrine cristiane, il che è stato spiegato dicendo che Boezio abbia voluto dimostrare come, anche prescindendo dalle verità rivelate, la ragione naturale possa bastare a fornire le giustificazioni di un atteggiamento forte e rassegnato di fronte alla sventura, dando così a queste giustificazioni valore universale. Altri sostengono che l’opera è incompleta, altri ancora che è allegorica. Comunque, benché riveli una salda fede nella Provvidenza, raramente questa si identifica con un Dio personale, anzi si sconfina spesso nel panteismo; e tutta l’opera, sebbene contenga parole e frasi che implicano una conoscenza degli scrittori cristiani, potrebbe essere ascritta a un contemporaneo di Cicerone o di Seneca. Essa ha ispirato però tutta la letteratura e la filosofia cristiana occidentale dall’VIII al XIV sec., fino a quando cioè nel sorgente splendore della rinascita la sua luce impallidì. Molti elementi del De consolatione verranno infatti assorbiti nelle grandi sintesi dei secc. XII e XIII; Dante ne trasse conforto negli anni che seguirono la morte di Beatrice e molti motivi di ispirazione per la Divina Commedia, come già se ne erano ispirati i poeti provenzali e se ne ispireranno più tardi il Petrarca nel Disprezzo del mondo e il Boccaccio nell’Ameto. Per noi l’opera ha valore soprattutto in quanto segna il punto di contatto fra il pensiero del paganesimo e quello cristiano e fu per molti secoli il solo veicolo per cui la filosofia si mantenne viva in occidente.»

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