
Quali caratteristiche contraddistinguono la condizione neomoderna?
Si tratta di una condizione non facile. C’è bisogno di lottare perché ci sono nuove sfide. Non si può più essere comodamente nichilisti perché siamo chiamati ineludibilmente a prendere posizione, a schierarci nelle sfide della storia: dalla parte della civiltà o della barbarie, da qualunque parte provenga. Il neomoderno è il tempo in cui non ci si culla nell’assenza di certezze, ma si ha l’ansioso bisogno di ridefinirne almeno alcune che siano condivise. È un momento in cui aumentano i conflitti, i cambiamenti sono più rapidi, più globali e per questo più difficili da governare. È tramontata sia l’ideologia secondo cui la storia è un cammino necessario e inevitabile verso il compimento di un destino (la società senza classi, il dominio incontrastato di qualche razza o cultura) sia quella che la vede come un caos insensato, o peggio un cammino verso il peggio, una deriva anch’essa inarrestabile. Oggi sappiamo che la storia è un rischio, che è un dramma di cui solo noi possiamo scrivere gli atti, anche se non ne conosceremo mai il finale. La condizione neomoderna è quella della ricerca di nuovi canoni: canoni di bellezza, di validità del sapere, di principi morali condivisibili su scala globale, di asserzione di ciò a cui non siamo disposti a rinunciare, come i diritti umani.
Quali sfide pone la nuova modernità?
Le sfide sono appunto quelle di affrontare i conflitti, non evitarli, come invece suggeriva il postmoderno, secondo cui i conflitti sono insolubili e perciò o ci si rassegna o li si evita con l’ironia, la contingenza, l’atteggiamento disincantato e passivo. La nuova modernità impone di affrontare il problema che pongono le scienze (genetica e neuroscienze in testa), senza voltarsi dall’altra parte; di considerare i conflitti come eventi potenzialmente tragici ma nei quali prendere parte per la posizione più ragionevole, più solida; di accettare la sfida di cercare nuove forme espressive che parlino all’opinione pubblica e non solo agli addetti ai lavori dell’arte; di valutare quando i confini vadano rinserrati, allargati, dissolti, ridisegnati. Insomma la sfida di fare la storia, non subirla. Così fecero i primi moderni e così siamo costretti a fare noi. In particolare noi europei, che siamo sempre stati sul fronte della storia (nel bene e nel male) e non possiamo certo ritrarcene oggi, anche solo per un senso di responsabilità.
Nel Suo libro Lei sostiene che a ripresentarsi su scala globale e in forma accelerata sono esattamente i problemi dell’Europa fra Cinquecento e Seicento.
Sono problemi analoghi, non gli stessi. Abbiamo conflitti politici a sfondo religioso, come in Europa erano le guerre di religione. Che fecero centinaia di migliaia di morti ma che risolvemmo con il principio della tolleranza e la strategia dell’equilibrio dei poteri, base del moderno diritto internazionale. Oggi su scala globale si presentano conflitti politici enormi, senza equilibri prestabiliti, spesso a sfondo religioso. Poiché l’alternativa è soccombere a essi, dobbiamo trovare i principi con cui fronteggiarli. La globalizzazione, che iniziò nella prima modernità con le scoperte geografiche, è reale per ciascuno di noi solo ora, perché solo ora abbiamo davvero l’intero globo interconnesso in tempo reale.
Nella prima modernità crollarono il canone scolastico che aveva retto la filosofia medievale, il quadro teorico della scienza tolemaica e i canoni artistici dell’estetica. Gli uomini e le donne del Rinascimento si impegnarono allora nel tentativo di ridefinire questi canoni andando a recuperare e riformulare in maniere nuove i canoni del classico, dell’antico in quanto espressione di equilibrio e armonia non in quanto antico. Lo stesso siamo chiamati a fare noi: definire il nostro canone classico, riprendere e riformulare le basi della filosofia (questo sta accadendo in etica, in filosofia della scienza, in metafisica), della scienza (questo stanno facendo la genetica e le neuroscienze) e dell’arte (questo stanno facendo le arti performative, quelle pubbliche e le nuove esperienze artistiche).
Quali speranze ci consegna la neomodernità?
Le speranze di questo tempo sono affini alle paure che esso suscita: il timore di perdersi, di essere sopraffatti da altri o dalla catastrofe, di disorientarsi nel comportamento individuale e sociale, di non saper più riconoscere il bello, il brutto, il giusto e l’ingiusto. Ma queste sono anche le speranze, la sfida che vedo molti giovani sono pronti a raccogliere: provare, azzardare un nuovo cogito, ergo sum, un nuovo imperativo categorico, una nuova prospettiva che va oltre la geometria, un nuovo modo di definire la fede religiosa e la tolleranza. In quest’ultimo campo, il Cristianesimo ha avuto un’evoluzione più profonda e più rapida di altre religioni: esso è oggi uno dei principali motori di speranza e di dialogo nel mondo, per la capacità che ha avuto di passare dalle persecuzioni all’accoglienza, dall’Inquisizione alla tolleranza, dal dogmatismo alla riflessione innovativa (penso qui alla teologia dell’ambiente e a quella al femminile, soprattutto).
Il neomoderno non è una passeggiata. È un tempo di conflitti profondi, di fatica, di incertezze e di disorientamento. Ma è cambiato l’atteggiamento con cui guardiamo a queste tensioni: mentre il postmodernista si adagiava a contemplarle con distaccata ironia, il soggetto neomoderno ne accoglie la sfida e si prepara ad affrontarle anche a costo della vita.