
L’antica Grecia ci offre diversi esempi di governi basati sul terrore, sia in relazione ai regimi tirannici, sia in relazione al governo di Sparta, fondato sulla Grande Rhetra di Licurgo, che prevedeva annualmente la dichiarazione di guerra agli iloti. In questo senso dobbiamo considerare anche istituzioni come la kripteia, ossia una squadra di giovani spartani che venivano educati alla violenza. Elementi che consolidavano una gestione del potere fondato sul terrore, appunto, e sul controllo della popolazione come sua conseguenza.
Nemmeno Roma fu esente dall’utilizzo di tali tecniche di governance a partire da Silla, attraverso la diffusione delle liste di proscrizione per eliminare i nemici della dittatura e soffocare nel sangue le numerose rivolte degli schiavi. Specularmente, se estendiamo il concetto anche al terrorismo di opposizione, ossia a quello che lotta contro l’ordine costituito, si possono annoverare altri esempi ugualmente rappresentativi. Nel I secolo D.C. in Giudea si costituì una società segreta che lottava contro la dominazione romana e l’amministrazione tributaria dell’Impero: i cosiddetti sicari che, attraverso omicidi, rapimenti e incendi, combattevano contro i romani, attaccando i propri compatrioti ebrei collaborazionisti, con modalità terroristiche.
Quali fattori lo alimentano?
Premettendo che ci troviamo difronte a un fenomeno poliedrico che, muta e si evolve continuamente, sono diversi i fattori che si pongono come sue componenti fondamentali. Innanzitutto il terrorismo è un’arma di rivendicazione politica feroce, violenta e drammaticamente spettacolare.
Altra caratteristica che lo connota, soprattutto nelle sue fasi preparatorie, è la clandestinità, ossia la necessità di rendere segreta l’organizzazione e l’identità dei propri membri, i quali continuano a vivere apparentemente una vita normale, ma sono sempre pronti a entrare in azione.
Altro fattore fondamentale è l’imprevedibilità. Una minaccia sconosciuta e poco prevedibile genera angoscia in una comunità e fiacca la sua percezione della sicurezza. L’aspetto imitativo è altrettanto importante. Le pratiche terroristiche si reiterano anche in contesti politici e sociali diversi: dirottamenti aerei, bombe, cinture e zaini esplosivi sono diventate drammatiche consuetudini in questo ambito negli ultimi anni.
Anche Il simbolismo è fondamentale: i significati espliciti e sottesi degli obiettivi colpiti, la metacomunicazione e la rivendicazione identitaria sono aspetti centrali nell’origine e nell’evoluzione del fenomeno. E infine, soprattutto per quanto riguarda quello islamico, anche l’esclusione sociale: come ricorda Bauman l’esclusione viene vissuta come un prezzo troppo altro da pagare dagli immigrati di seconda e terza generazione che vogliono integrarsi ma che invece ricevono rifiuto e stigmatizzazione dalle comunità di accoglienza, sviluppando così forme di appartenenza radicalizzata come quelle terroristiche.
Che ruolo svolge la narrazione terroristica per il reclutamento e la persuasione dei suoi attori?
Un ruolo decisamente centrale, che oltre a prolungare nel tempo gli effetti distruttivi dell’atto stesso nell’immaginario e nella percezione sociale, celebra le azioni come risultato delle sedicenti ingiustizie subite da una determinata comunità. Inoltre, essa svolge anche funzioni di promozione e fidelizzazione con precise strategie comunicative fondate su due elementi principali: la dicotomia tra un “noi” e gli “altri” che si oppongono alla visione del mondo per cui il terrorismo si concretizza e poi il senso di appartenenza che ne consegue e che, in una logica di diffusione, aumenta il consenso secondo dinamiche di causa-effetto.
Quali caratteristiche specifiche assume il terrorismo di matrice islamica?
Il terrorismo è una realtà duttile che muta nel tempo, figlio di contingenze geopolitiche, storiche o legate meramente a questioni di opportunità: le organizzazioni evolvono col tempo o spariscono, sostituite o fagocitate da nuovi gruppi, a volte sotto la pressione delle classi dirigenti nelle diverse realtà statuali. Oggi conosciamo soprattutto realtà come Al-Qaeda e Isis, per le azioni che realizzano, ma la galassia terrorista è davvero variegata. La prima, Al-Qaeda, si pone come obiettivo la difesa dell’islam dal sionismo, dal cristianesimo, dall’Occidente secolarizzato e dai governi musulmani filoccidentali o moderati, come quello dell’Arabia Saudita che è visto come poco islamico, ossia troppo distante da un’ortodossia rigidamente osservante. Lo Stato Islamico invece rappresenta un’organizzazione molto particolare, che si distingue da tutti i suoi competitor: infatti definisce sé stesso come stato, appunto, e non come gruppo. Utilizza metodi così violenti che anche Al-Qaeda, in alcune occasioni, se ne è paradossalmente distanziata. Entrambi poi si frammentano in una miriade di sottogruppi.
Che rapporto esiste tra comunicazione e terrorismo?
Un rapporto biunivoco. La comunicazione è indispensabile per il terrorismo e viceversa. Ormai il processo comunicativo non è solo narrazione dell’atto ma ne è parte integrante nel momento stesso della pianificazione e della successiva realizzazione. L’attentato al Word Trade Center fu concepito affinché tutte le telecamere del mondo fossero accese sul secondo aereo che si abbatteva sulla seconda torre. Pensate a quanto quell’atto abbia influenzato le nostre esistenze proprio perché reso così drammaticamente visibile. Da lì in poi le nuove tecnologie comunicative hanno amplificato quegli stessi effetti ma soprattutto generato nuove figure professionalizzate pronte a dedicarsi a questo aspetto, quello comunicativo-visuale, con estrema cura, reputandolo di fatto, un elemento irrinunciabile dell’atto terroristico stesso.
Quali tecniche comunicative adotta il marketing terroristico?
Oggi il terrorismo si avvale dell’invasività e delle grandi possibilità comunicative delle I.C.T. Il web, nelle sue declinazioni deep e dark, rappresenta un valido vettore per la sua comunicazione. Al-Qaeda agiva attraverso una personalizzazione mediatica della missione terroristica centrata sulla figura di Bin Laden che registrava i suoi messaggi su VHS come un profeta del terrore dall’interno della sua grotta, accompagnato dai segni di una simbologia profondamente ragionata: Il giaccone militare, l’orologio da polso, il microfono, l’ Ak 47, elementi che funzionavano come cornice del suo stile dialettico molto riconoscibile. Lo Stato Islamico, invece, ha creato e organizzato uffici stampa in ogni territorio in modo tale da poter “adattare” il messaggio a ogni tipo di platea. Dai video delle esecuzioni fino a quelli di propaganda è tutto pianificato in ogni minimo dettaglio. Chi li realizza molto spesso proviene da anni di formazione universitaria e nel settore del giornalismo, da scuole di regia e di montaggio. Altro elemento di cui tener conto è la targettizzazione del pubblico: Il messaggio viene concepito a seconda del pubblico verso cui si rivolge, per esempio, nel caso delle periferie europee, calcando la mano proprio sull’esclusione sociale sopracitata. Tutto ciò avviene soprattutto attraverso i new media.
In che modo il terrorismo si serve delle nuove tecnologie?
Con grande disinvoltura e abilità. Il terrorismo non si diffonde solo su spazialità reali ma anche su quelle digitali come i social network. Facebook e Twitter, grazie all’utilizzo profili fake, sono stati per lungo tempo, mezzi di comunicazione ed informazione privilegiati. Anche WhatsApp e Telegram, hanno rappresentato un canale importante, con la possibilità, per quest’ultimo, di eliminare qualsiasi conversazione, impostando una tempistica ben precisa, nell’intento di evitare intercettazioni. Esistono siti dedicati al reclutamento in cui si mostrano ragazzi sorridenti, felici di condividere quel tipo di appartenenza o addirittura siti d’incontri finalizzati al matrimonio con un militante. Anche L’utilizzo delle chat nelle console da gioco, come per la PlayStation 4 nell’attentato di Parigi del novembre 2015, sono una modalità comunicativa tenuta in considerazione. In questi scenari il terrorismo islamico si diversifica in diversi ambiti e riesce a sfruttare la diffusione capillare consentita dal web nel desiderio di raggiungere un pubblico potenzialmente globale con tutte le drammatiche conseguenze del caso.
Marino D’Amore è un sociologo, docente, dottore di ricerca geopolitica e geoeconomia, dottore di ricerca in criminologia. Nell’attuale anno accademico copre i seguenti insegnamenti: Internet e social media, Social network analysis e Sociologia generale presso l’Università degli studi Niccolò Cusano.