“La Commedia. Filologia e Interpretazione” a cura di Maria Gabriella Riccobono

Prof.ssa Maria Gabriella Riccobono, Lei ha curato l’edizione degli Atti del Convegno La Commedia. Filologia e Interpretazione pubblicati da LED Edizioni Universitarie: quale rapporto intercorre tra filologia e interpretazione della Commedia dantesca?
La Commedia. Filologia e Interpretazione, Maria Gabriella RiccobonoIl convegno “La Commedia: filologia e interpretazione”, del quale nel volumetto a mia cura si leggono gli Atti, traeva origine dalla presa d’atto che filologia e interpretazione procedono all’unisono e si sostengono reciprocamente. Ciò non impediva a chi professi idee diverse di esprimerle e motivarle (vi è stata una tavola rotonda conclusiva sul tema del workshop). Faccio mie le auree affermazioni del massimo studioso in assoluto della Commedia, Erich Auerbach, esponente della grande scuola di romanisti e filologi tedeschi, tra i quali Spitzer e Curtius, annullata dal nazismo. Si legge, nella auerbachiana Introduction agli Études de philologie romane del 1943: «È chiaro che l’edizione dei testi non è un lavoro del tutto indipendente; è necessario il concorso di altri rami della filologia […] Quando si voglia ricostituire e pubblicare un testo, occorre anzitutto saperlo leggere […] Ma anche quando si sappia leggere un testo, e si capisca la lingua in cui è scritto, spesso ciò non è sufficiente per intenderne il senso; ed è necessario comprendere in tutte le sue sfumature un testo che si vuol pubblicare; in caso contrario, come stabilire se un passo dubbio è corretto o autentico?». E tuttavia è sempre risorgente la posizione ingenua, che crede di essere empirista, pragmatica e via dicendo e non lo è, è ingenua e basta, e perciò stesso scientificamente erronea: dico della posizione secondo cui per capire un testo occorre prima averne costituito mediante la ecdotica la veste più corretta, più vicina alla intentio auctoris. Il lavoro del filologo dantesco e quello del critico procedono invece necessariamente insieme. Al limite, idealmente, quello del critico letterario e dello storico della cultura letteraria precedono quello del filologo, giusta le riferite osservazioni di Auerbach. Se così non fosse le generazioni antecedenti alla metà del 19° secolo non avrebbero potuto capire né la Bibbia, né l’Iliade, né la Commedia e nemmeno i testi per il teatro di William Shakespeare. Certo, aspetti particolari di quelle opere sono stati fraintesi prima dell’avvento della grande filologia otto-novecentesca. Dante stesso, nella Commedia, è incorso in fraintendimenti dalla storia oggi plurimillenaria. Reco un esempio: accoglieva, e come avrebbe potuto non accoglierla? l’interpretazione secondo la biblica torre di Babele fu distrutta da Dio per punire la tracotante superbia degli uomini. Oggi i biblisti e coloro che a essi prestano orecchio sanno che quella tesi è priva di fondamento. Vien da domandarsi: l’errore è stato fugato anche dalla mente degli addetti tutti alla cultura umanistica, filologica e letteraria? L’errore convive con noi e fortunatamente non ci impedisce di comprendere; solo la irreparabile perdita di un testo ci impedisce di comprendere. Avremo l’ottima edizione della Commedia se e quando ritroveremo almeno un autografo di Dante (o equivalente tale). Fino a quel momento andremo avanti, sempre avanti, formulando congetture, ben motivate e pregevoli che siano.

Quale diffusioneha avuto la Commedia prima della sua pubblicazione?
La parola pubblicazione mi mette in difficoltà: se s’intende con essa la stampa del poema, allora rispondo nel secondo capoverso. Se invece con la detta parola s’intende la consegna ufficiale ai copisti dell’intero poema, essa avvenne subito dopo la morte di Dante (Ravenna,1321), grazie ai suoi figli Pietro e Jacopo ma non solo non ci è giunto alcun autografo (o codice equiparabile) ma nemmeno alcun manoscritto dei più antichi. Tra quelli giunti a noi i manoscritti più antichi risalgono alla seconda metà degli anni ’30 del Trecento. Non abbiamo argomenti validi per affermare che Inferno e Purgatorio abbiano avuto diffusione autonoma, antecedente a quella del Paradiso. Certo è soltanto che Dante fece leggere parti relativamente ampie dell’Inferno a suoi amici appartenenti all’ambiente dell’alta cultura entro il 1310. Ci sono “Commedie” in pergamena di ottima qualità ed altre in carta, alcune miniate sontuosamente, altre semplicemente decorate a penna; talune sono prodotte da professionisti, altre vergate da scribi occasionali, di scarsa perizia grafica, per uso proprio o dei loro familiari. Le tre parti hanno avuto anche una circolazione autonoma: ci sono manoscritti che contengono una sola cantica.

Circa la diffusione della Commedia prima della stampa (la prima stampa è del 1472, in Foligno) mi corre anzitutto l’obbligo di riferire le parole esposte sul sito della Società dantesca Italiana: «Di Dante non è rimasto alcun documento autografo; non solo non esiste il manoscritto originale della Commedia, ma nemmeno quello delle opere latine o volgari, una sua lettera, una firma che possa farlo identificare. In compenso il capolavoro di Dante ebbe una larghissima diffusione: a pochi anni dalla morte le copie si moltiplicarono per tutta l’Italia. Con i suoi quasi 800 manoscritti arrivati sino a noi la Commedia è seconda soltanto alla Bibbia. Tale diffusione fu resa possibile da un’ampia produzione di codici redatti da numerosi copisti, alcuni famosi, come ad esempio Giovanni Boccaccio, altri semplici lavoranti nelle botteghe che producevano manoscritti nel ’300 e nel ’400; questo, se da un lato ha facilitato la conoscenza dell’opera in tutta la penisola e oltre, dall’altro ha inevitabilmente portato alla rapida corruzione del testo, impedendo di risalire con sicurezza all’originale».

A ciò possiamo aggiungere che Giorgio Petrocchi, autorevole editore del poema nella prima metà del Novecento, riconobbe nella tradizione manoscritta della Commedia due famiglie (o sub-archetipi): la famiglia toscana a, quantitativamente molto consi­stente e distinta nei tre sottogruppi a, b e c; e la famiglia settentrionale β, numeri­camente minoritaria. Francesco di Ser Nardo di Barberino aveva redatto (copiato) nel 1337 il prestigioso codice miniato che va sotto il nome di Trivulziano 1080, collocato nello stemma di Petrocchi nel sottogruppo a di a, quello della tradizione fiorentina antica del poema. Circa dieci anni dopo Francesco da Barberino dirigerà un’officina di copisti che riuscì in poco tempo a produrre cento copie della Commedia, dette “Danti del Cento”. Il gruppo del Cento e poi l’officina vaticana allargata a Boccaccio costituiscono, intorno alla metà del Trecento, la massima parte della famiglia (il gruppo c di a) corrispettiva alla vulgata toscana o meglio fiorentina del poema dantesco. I manoscritti di tradizione settentrionale (β) sono invece relativamente rari. Il più illustre e noto rappresentante del gruppo, il codice Urbinate (Urb), è unanimamente considerato dagli studiosi come uno dei testimoni più affidabili del poema. Negli anni recenti sono state operate distinzioni e partizioni all’interno del bacino settentrionale, in particolare con articolazione della tradizione della Commedia in tre subarchetipi, al posto dei due (α e β) finora riconosciuti. Per quanto riguarda la strutturazione interna di gruppi, famiglie, sezioni rinvio agli studi (e alle edizioni critiche) di Federico Sanguineti, Giorgio Inglese, Paolo Trovato e Angelo Eugenio Mecca.

Quali difficoltà presenta la traduzione della Commedia dantesca?
Il traduttore che volta la Commedia in un’altra lingua è, per dir così, ‘costretto’ a conciliare filologia e interpretazione. Di più, forse: è lecito parlare di ineludibilità della interpretazione nella filologia applicata a un testo che non è scritto nella lingua madre dello studioso. La traduzione è quasi cartina di tornasole per quelli che sono stati probabilmente nodi di senso sospesi o irrisolti già al momento della scrittura. Da rimarcare, nel fare traduttivo, l’importanza dell’“apertura di spazi semantici”, i quali sono potenzialità del testo, secondo un’acuta intuizione di Walter Benjamin. Il traduttore cerca di capire al meglio il testo con l’ausilio degli “ottimi commenti”, senza mai dare per scontate le difficoltà non piccole di mera comprensione. Si rende conto che non ha compreso tante cose, data la complessità del poema e le tante perduranti discussioni su luoghi oscuri. Repetita iuvant: la traduzione, in quanto scrittura di un “nuovo” testo, è essa stessa una forma notevole di esegesi. Nell’atto traduttivo è giocoforza contenuta una interpretazione, una conoscenza in atto, e non solo teorica, incorporata in nuove parole e dunque soggetta a sua volta ad altre letture, esegesi, interpretazioni… Vorrei soffermarmi brevemente sulla traduzione della Commedia in lingua francese procurata da Jean-Charles Vegliante, il quale ha messo in risalto, come fondamento e non come sovrappiù decorativo della sua riscrittura del poema, il ritmo. Il ritmo può essere condiviso, invece che essere avvertito come vago suggerimento, purché entri in una gabbia metrica. Vegliante ha scelto la concatenazione di 11 e 10 (in francese non esiste l’endecasillabo, ma il décasyllabe), regolata e regolarissima, col beneficio secondario di restituire, come compenso marginale alle rime regolari, la fondamentale catena della terza rima (terzina) dantesca. Le rime in senso stretto nella sua traduzione occorrono quando si presentavano spontanee, in contrasto con ogni tentativo di restituzioni forzate di esse. Arduo e non di rado impossibile è il rispetto della sintassi – ad es. latineggiante – e della morfologia.

Come si esprime in Dante l’invisibile parlare?
Il «visibile parlare» è un’espressione adoperata da Dante in Purg. X. I personaggi istoriati nei bassorilievi (esempi di umiltà) dei quali è rivestita la parete della cornice (girone) par che parlino. Non si ode alcuna voce, e tuttavia non solo gli occhi ma anche le orecchie della mente di Dante spettatore percepiscono ciò che i personaggi fanno e, appunto, dicono. Si tratta di un’arte sovrumana, effigiata da Dio e impossibile agli uomini. La collaborazione di parole e immagini in verità qualifica l’intera Commedia. Il testo di ogni cantica esercita sulla mente del lettore/uditore un formidabile impatto visuale misto a un altrettanto formidabile impatto fonico (fonetico-sonoro o acustico-sillabico). Si tratta quasi di una nuova estetica, fondata sull’attitudine a “pensare per immagini”. Essa affonda le proprie radici con ogni probabilità, nel periodo trascorso da Dante esule a Padova. Giotto, nell’affrescare in quegli anni a Padova appunto la Cappella degli Scrovegni, aveva a sua volta sperimentato una estetica e tecnica del dipingere nella quale scrittura e pittura erano state chiamate a collaborare. Essa influì profondamente su un altro straordinario esponente della cultura del tempo, Francesco da Barberino, fiorentino esule a Padova egli pure. L’Officiolo (1304-1309) di Francesco, il primo libro di preghiere italiano, codice miniato splendido ritrovato nella primavera/estate del 2003, offre la prima attestazione del fascino esercitato da Giotto, soprattutto quello degli Scrovegni, sull’arte pittorica contemporanea impiegata a illustrare il discorso verbale; esso indubitabilmente reca buona conoscenza dell’Inferno dantesco o di ampie zone di esso. Se questi tre grandi sono le pietre angolari della collaborazione di immagini e di parole da cui spicca l’ardito «visibile parlare» di Purg. X non è da dimenticare mai che la formula dantesca designa un’arte possibile solo a Dio e per gli uomini irraggiungibile.

Per quali ragioni si può considerare la Commedia come il più importante testo politico della prima metà del ’300?
Nella Commedia si trova una duplice dimensione politica: quella legata all’attualità, all’interagire di Dante con le vicende politiche del suo tempo, soprattutto in ordine agli scontri tra le città o interni alle città e a quelli tra papato (alleato dal 1300 in avanti dei re di Francia) e Impero; essa pervade, con oscillazioni legate al mutare delle condizioni, l’intero poema. La seconda dimensione è quella della riflessione sull’“ottimo ordine politico”. Essa coinvolge la profonda religiosità di Dante, la sua etica pubblica, la sua cultura filosofica e giuridica e la sua convinzione di essere stato chiamato a svolgere, attraverso la Commedia, una missione profetica, di essere persona a ciò designata da Dio (nel volumetto da me curato due studi si occupano, rispettivamente, di Daniele in Dante e dell’Apocalisse in Dante). I lettori, nel corso dei secoli, hanno spesso permesso che le due dimensioni non venissero distinte e anzi fossero appiattite l’una sull’altra. Lo si nota in particolare nel periodo del Risorgimento: vi era chi, come il cattolico indipendentista, democratico e federalista Tommaseo apprezzava l’originario guelfismo di Dante e riteneva che il Dante filo-imperiale degli anni dell’esilio fosse tuttavia un patriota, il quale desiderava l’unità d’Italia nel quadro di una forte autonomia degli stati regionali e delle città-stato; e vi era chi invece, come Manzoni, riteneva che Dante mirasse di fatto a una Italia unita dal dominio straniero tedesco-imperiale, talché Dante sarebbe un anti-indipendentista privo di sentimenti patriottici veri. La dimensione politico-profetica è oggi la più importante al di fuori della ristretta cerchia dei dantisti, ed è consegnata, oltre che a molti canti del Purgatorio (VI, XVI, XX, XXXII e XXXIII) e del Paradiso, al trattato in latino sulla Monarchia. Il sommo poeta fautore della monarchia universale apre la stagione plurisecolare dei grandi utopisti irenici che vagheggiano un ordine politico capace di instaurare l’unità, la pace e la giustizia nel mondo terreno: una variegata corrente utopica cui sono da ascrivere tanti nobilissimi intelletti (Thomas More ed Erasmo da Rotterdam p.e.) e che trova il secondo maggiore esponente nel Kant della Confederazione mondiale degli Stati.

Maria Gabriella Riccobono insegna Letterature comparate nella Università degli Studi di Milano. Coltiva tre principali sfere d’interesse: la memoria poetica della Commedia nella poesia e narrativa ottocentesca; la letteratura italiana nei suoi rapporti con le letterature antiche (greca, latina, biblica) e quelle europee moderne; il profetismo dantesco. Tra i suoi studi si segnalano Letteratura e civiltà (2 voll., 2010), Dante poeta profeta, pellegrino, autore (2012-2013), Il veggente di Patmos, Dante, Manzoni, Thomas Mann. Studi di letterature comparate (2018), La disperazione e la speranza: metafore politiche dantesche (2020).

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