
Per giungere a quella che secondo me è una delle grandi domande dei Promessi Sposi ho dovuto superare molti luoghi comuni, che la scuola, soprattutto nel caso del Manzoni (eternamente sconfitto da Leopardi), distribuisce a piene mani. E non solo la scuola. Uno di questi pregiudizi sono “gli umili”. Termine un po’ clericale, pietistico. Ma gli umili sono quelli attaccati alla terra (humus), quelli sotto i quali non ci sono altro che i morti, gli ultimi, quelli di cui non si occupa nessun intellettuale, nessuno scrittore, nessun pensiero politico (nemmeno quello di Marx, che li chiama lumpenproletariat, propriamente: straccioni), sono il “volgo disperso che nome non ha”. Per cominciare a parlare di loro è necessario dunque trasformare questo volgo in un insieme di essere umani con un nome proprio. Così fece Manzoni, e sulla scena, dopo il terribile incipit (“Quel ramo…”, senza dubbio una carta militare), compare tutta una serie di nomi: don Abbondio, Perpetua, Renzo, Lucia, Agnese… Ma il senso vertiginoso dell’essere ultimi viene allo scrittore dal caso di Virginia Maria (Marianna) de Leyva, la cui abitazione si trova a trecento metri da casa sua. Nessuno cade più in basso, nessuno è più “ultimo” di lei, che si è macchiata di tante colpe, tutte conseguenti però a una primissima colpa, una colpa originaria: quella di essere nata. Non è un caso che, in tutto il Romanzo, sia presente un solo padre, il suo, la cui opera è quella di ridurre la nascita della figlia a una non-nascita. Di qui la domanda: cosa ci salva dalla colpa di essere nati? Secondo me il tema è, oggi, bruciante come pochi altri. Ma su questo mi fermo.
Come mai, in un romanzo che si vuole cristiano fino al midollo, Virginia Maria de Leyva, ossia la Monaca di Monza, si trova a pagare senza remissione, senza perdono, la colpa d’essere nata; una colpa di natura così ostinatamente pagana che rimanda non al Vangelo ma piuttosto all’Edipo a Colono?
Nessun romanzo, nessun uomo può essere cristiano fino al midollo. La società cristiana perfetta, il Regno di Dio sulla Terra, per quanto si sia cercato qua e là di edificarli, sono solo un sogno bislacco per sottomettere gli esseri umani. I Promessi Sposi hanno per protagonista non questo o quel personaggio, ma la Storia, e la Storia non produce salvezza. Il suo procedere insensato e inesorabile di causa in effetto è così potente da stritolare anche la nostra piccola libertà, rendendola illusoria: come possiamo pensare di essere liberi? La povera Marianna non può nulla contro il mostro della Storia. “La sventurata rispose” scrive Manzoni, subito sorge la domanda: sventurata perché rispose?, o la sventura c’era da prima, a determinare (senza alcun concorso della libertà) la risposta?
Con questo, non dico – come dice Gadda – che il cristianesimo sia una patina superficiale a nascondere – ma non troppo bene – la sostanza tragica, sofoclea, del romanzo. Dico soltanto che la possibilità di compiere atti liberi (e quindi morali) non è, per Manzoni, un frutto della Storia, ma qualcosa che si trova dentro la Storia senza appartenerle. Io credo che Manzoni abbia cercato soprattutto di parlarci di questo, documentandolo senza alcun intento consolatorio: non a caso la vera conclusione del romanzo è la “Storia della colonna infame”.
Cosa ci salva da una colpa così inespiabile?
Questo ce lo dice il Vangelo di Giovanni, nell’episodio di Nicodemo. Gesù lo afferma senza mezzi termini: bisogna nascere di nuovo. Nicodemo, che conosce le leggi della Storia, gli domanda com’è possibile che un uomo adulto possa rientrare nel ventre materno. Allora Gesù parla di “nascita dall’alto”, e accenna allo Spirito che “soffia dove vuole”. La pagina più calcolata e progettata di tutto il romanzo, quella più attesa, si trova nel Cap. II. Renzo giunge infuriato alla casa di Lucia, la manda a chiamare, e lei compare sulla scena dopo essere scesa dal primo al pianterreno. Scende dall’alto. La raffigurazione che Manzoni ne fa è sorprendente: non una parola su di lei-lei, tutte le parole sono dedicate alla pettinatura (elmo) della ragazza, ai vestimenti (armatura), al gomito/scudo e alla sua grazia “un po’ guerriera”. Lo scrittore ce la presenta appena nata, già in armi, come Atena. Nel fornire una risposta cristiana alla domanda sofoclea, Manzoni usa un’immagine pagana, quella della partenogenesi. Non è la prima volta che verità cristiane si nascondono sotto le apparenze di una scena mitologica: dall’Ulisse dantesco alle figurazioni botticelliane all’Atteone del Parmigianino, l’arte e la letteratura hanno fatto ricorso a questo impianto allegorico.
Tutto il romanzo si svolge secondo un gioco delle coppie: Tonio è Gervaso. Agnese è Perpetua. Don Rodrigo è padre Cristoforo. Lucia è Gertrude e il loro incontro rappresenta «il momento fondamentale, fondativo, di tutto il Romanzo»: in che modo Gertrude nasce di nuovo “con” Lucia Mondella?
Avendo già cercato di rispondere proprio qui sopra, vorrei ora sottolineare i punti di contatto tra le due ragazze. Per cominciare diciamo che sono piuttosto antipatiche tutte e due. Nel gran teatro del romanzo, a dire il vero, non c’è posto per i simpaticoni: quando lo sono, lo devono al loro ruolo di caratteristi (come Azzeccagarbugli). Non c’è posto per personalità dirompenti, per l’ego romantico. Ma andiamo avanti. Gertrude ha venticinque anni, Lucia di sicuro non ne ha venti. Ha forse la stessa età di quando l’altra rispose alla voce di Giampaolo/Egidio: una voce, si badi, venuta dall’alto. Per la poveretta qualsiasi voce diventa la voce di un dio. Più tragedia di così! Eppure la conversazione tra le due è profonda. L’ingenuità dell’una e la malizia dell’altra (unite da un unico moto di rossore, al primo incontro) si incontrano, liberano una conversazione profonda, che va oltre le parole. I sentimenti si sciolgono, Lucia non mette pace nell’animo della monaca (come non mette pace a nessuno), suscita sentimenti nell’assassina: invidia ma anche una specie di amore – in tutti i casi, con lei Gertrude non appare morta a ogni sentimento, qualcosa in lei sussulta. Ci sono conti che si riaprono. Lucia appare a Gertrude come la Differenza Assoluta, ciò che è “altro da tutto”: dalla sua origine, dalla sua famiglia, dal monastero, dalle colpe di cui si è macchiata. È vero, lei “vende” Lucia, ma questo non cancella il suo turbamento. La corruzione prevale, ma l’incontro lascia una traccia: Gertrude ha incontrato il proprio doppio luminoso.
«Manzoni conosce per fede la luce della grazia, ma il suo accadere nel presente della pagina, della riga, della scelta lessicale, è altra cosa»: come l’ha lasciata trasparire, questa luce, Manzoni?
Ogni vero scrittore sa che un testo è un terreno carsico. Il lettore può decidere se scendere in qualche grotta oppure godersi il paesaggio. Ogni livello di lettura (compreso il più totale fraintendimento) è legittimo. Manzoni dissemina il suo testo di migliaia di trappole, e ci anticipa grazie alla sua velocità – la stessa velocità che Mandel’stam attribuiva alla scrittura di Dante. Sta a noi cogliere l’attimo fuggente, non lasciarci scattare l’aggettivo, il sostantivo. Spesso il senso di una scena sta in una parolina che rischia di passare inosservata. Come quando il padre di Gertrude, messo dalla serva malvagia (o forse solo desiderosa di conservare il proprio posto di lavoro) a conoscenza della piccola storia amorosa tra la figlia e un paggetto, caccia via il ragazzo “com’è naturale”, scrive Manzoni. L’introduzione della natura in una scena come questa non è innocente: quella parola è una porta che dà su un altro significato della scena; a noi decidere se aprirla o no. Qui, la “natura” fa la parte di quello che Hegel chiama “il corso del mondo”: il padre di Gertrude sceglie questa parte, ma lo scrittore in questo modo ci ricorda (non avrebbe potuto senza quel naturale) che ne esiste un’altra: soprannaturale.
Nel libro mi soffermo su un altro dei mille casi rintracciabili nel testo. Quando Renzo, guarito dalla peste, torna al paese, gli pare di riconoscere il povero demente Gervaso, finché, guardandolo bene, si rende conto che è Tonio, il fratello intelligente di Gervaso nonché suo migliore amico, ormai malato. La scena della sfigurazione del volto di Tonio è degna di Poe. Tuttavia un particolare non richiesto (Manzoni nasconde spesso i suoi messaggi in bottiglia in questi particolari non richiesti) inverte tutto il quadro: Tonio siede in camicia con la schiena appoggiata a una siepe di gelsomini, i fiori della purezza: bianchi, profumati, impossibili da cogliere. Sono il segno di quella luce che gli orrori della Storia (di cui la peste è l’emblema supremo) non possono annullare. Lo stesso potremmo dire di Fra Galdino e della raccolta di noci, o anche dello spavento che coglie don Rodrigo (figura abissale) di fronte alle parole di Padre Cristoforo.
Luca Doninelli nasce a Leno (BS) nel 1956. Nel 1978 conosce Giovanni Testori, che gli fa scrivere il primo libro, Intorno a una lettera di Santa Caterina (1981). Tra le sue opere narrative ricordiamo I due fratelli (1990), La revoca (1992), Le decorose memorie (1995), Talk show (1996), La nuova era (1999), Tornavamo dal mare (2004), La polvere di Allah (2006), Fa’ che questa strada non finisca mai (2014), Le cose semplici (2015), La conoscenza di sé (2017). Ha insegnato etnografia narrativa all’Università Cattolica di Milano; da questa esperienza nasce il volume Cattedrali (2011). Attualmente insegna Storytelling allo Iulm di Milano. Ha vinto due premi Selezione Campiello, un Grinzane Cavour, un Super Grinzane Cavour. È stato finalista al premio Strega nel 2000.