
In quale contesto sociale e politico nasce la Confederazione dei coltivatori diretti?
Nata il 30 ottobre del 1944, in un’Italia ancora in guerra e occupata militarmente (a Nord i tedeschi, a Sud i neo-alleati angloamericani), costituì indubbiamente un’azione temeraria, capeggiata da Paolo Bonomi e sostenuta fortemente dai vertici della Democrazia cristiana e da settori del Vaticano. La rappresentanza autonoma dei cattolici di quei ceti sociali su base familiare era d’altronde troppo importante perchè fosse lasciata alla Cgil, che si era costituita su basi unitarie proprio nell’estate di quell’anno. E la Federazione dei coltivatori diretti (dal 1945 Coldiretti) si presentava per questo una formazione doppiamente scissionista: da un lato rispetto alla Cgil; dall’altro rispetto alla ex-Confederazione fascista degli agricoltori. Il percorso dell’autonomia fu estremamente difficile; ma Bonomi e i suoi sostenitori lo batterono convintamente, resistendo poi anche all’idea di sciogliersi all’interno della Cisl, quando questa, nel 1950, prenderà forma. In questo senso, fu determinante il controllo della Federconsorzi, che consentì a Bonomi di invertire i rapporti di forza con tutte le altre organizzazioni e di strutturare anche una relazione preferenziale col mondo dell’industria.
Quali legami internazionali contribuirono alla sua crescita?
I servizi segreti americani registrarono la nascita della Confederazione nel 1944 e ne monitorarono l’attività e le implicazioni politiche, intercettando ad esempio le lettere scambiate tra De Gasperi e Sturzo sul tema. E nell’ampia ragnatela di contatti che l’Ambasciata americana Roma tesseva durante la prima fase della Guerra fredda non potè ovviamente mancare Bonomi, assieme a tutti gli altri sindacalisti di area governativa. È verosimile inoltre pensare che nelle importanti elezioni del 18 aprile 1948 anche la Confederazione abbia ricevuto finanziamenti per azioni di propaganda e di lotta politica, come accadrà successivamente. Ma uno stretto legame con gli Stati Uniti si cementò solo nella seconda parte del 1954, quando Bonomi si recò negli Stati Uniti, insieme ad altri giovani dirigenti della Dc, come Giulio Andreotti. È da quel momento in poi che la Coldiretti sarebbe entrata in un intricato flusso di attività anticomuniste sostenute da Washington, divenendo a tutti gli effetti attrice della Guerra fredda. E con il mondo americano si strutturò una relazione privilegiata, destinata a durare fino alla fine degli anni Ottanta, sebbene la politica commerciale statunitense fosse ormai sempre meno attenta agli interessi italiani, proprio nel settore alimentare, dando vita a sconosciute – ma sostanziali – guerre diplomatiche. Diciamo che la Coldiretti ha provato a conciliare l’atlantismo con la una visione nazionale del cibo; ma questo connubio è stato difficile da sviluppare e da sostenere in modo lineare e vantaggioso nel tempo.
La Coldiretti ha vissuto una lunga stagione di collateralità alla DC: quando e come maturò tale avvicinamento?
Se il sostegno della DC, e di De Gasperi in particolare, fu decisivo nella fase della nascita e del primo consolidamento, un vero e proprio rapporto di collateralismo con il partito si delineò alla fine del 1958, quando Ferdinando Truzzi fu eletto membro della Direzione del partito di maggioranza. Fin a quel momento – e la cosa è poco nota – non furono pochi i momenti di tensione, sebbene ci si muovesse comunque in una direzione comune. Va anche precisato che per la Coldiretti credo sia proprio necessario rispolverare il concetto del “collateralismo alla rovescia”: è tale la forza economica e organizzativa (proprio grazie alla Federconsorzi e all’assistenza americana e dei vertici dell’Azione cattolica), che la Coldiretti non vive in modo subordinato il rapporto con la Dc; anzi, è lei che punta a condizionare quel partito, garantendo assistenza elettorale e controllo sociale in cambio di provvedimenti economici. Uno schema che salta negli anni settanta, quando le contestazioni verso la Dc e il declino irreversibile del sistema dei partiti misero seriamente in crisi quel modello di funzionamento e di relazione con la politica.
In che modo la Coldiretti fu coinvolta nei momenti più significativi della storia d’Italia?
Direi che lo fu, semplicemente, da protagonista. Forse i suoi associati non se ne resero conto, ma il loro peso politico, seppure declinante nel tempo, rimase ancora alto fino alla metà degli anni settanta nonostante la profonda crisi agro-alimentare di quegli anni e la veloce industrializzazione: e dunque quel che decidevano i vertici aveva un peso negli equilibri generali del governo e del paese. Coldiretti prese posizione su tutti i momenti più significativi della storia della Repubblica, nazionali e internazionali; economici, sociali e politici. È possibile trovare interventi di Bonomi e dei vertici confederali sulla crisi del 1956 (repressione sovietica in Ungheria e Polonia) come su quella dei missili a Cuba; sulla crisi del vino come sul “caso Montesi”; sulla presidenza Kennedy come sulla guerra in Vietnam; sui problemi della montagna come su quelli generati da un torrenziale flusso migratorio; sui valori messi in discussione dal referendum sull’aborto allo spopolamento della montagna, e così via…
Quale orientamento impresse all’organizzazione la lunga presidenza di Paolo Bonomi?
L’anticomunismo ne fu certamente la caratteristica più evidente, ma forse anche quella meno interessante per chi voglia capire davvero la funzione svolta nelle diverse fasi della storia della Repubblica. Certo l’opposizione alle sinistre fu manichea, dicotomica e portata avanti secondo una costante azione di delegittimazione (come verso l’Alleanza nazionale dei contadini, poi Confcoltivatori, nata nel 1955). L’orientamento era poi, almeno per gli anni cinquanta, estremamente centralizzato e fortemente condizionato da una visione “maschile”: colpisce il fatto che, secondo dati interni, all’inizio di quel decennio non vi fosse neanche una donna su oltre duecento funzionari territoriali e centrali. Si trattò a tutti gli effetti, di un’organizzazione “totalitaria”, in grado di seguire i propri associati dalla culla alla tomba. Ma oltre all’impegno per una più avanzata legislazione sociale (su cui si legga sotto), segnalerei quando accadde dopo i tragici e tristemente noti fatti di Piazza Fontana a Milano, quando esplose una bomba piazzata nella Banca dell’Agricoltura, nel dicembre de 1969. Sebbene si guardasse alla pista anarchica, Bonomi non assecondò le spinte eversive dietro la cosiddetta “strategia della tensione”; e anzi svolse un’azione di contenimento delle spinte provenienti da destra. Il mondo delle campagne era d’altronde attraversato da proteste a volte molto dure, come quelle organizzate dai Centri di azione agraria, che giunsero fino a Bruxelles e che avrebbero dilaniato la Confederazione. Rispetto ai problemi emersi fin dagli anni cinquanta e poi esplosi nei due decenni successivi (conflitto generazionale tra giovani e anziani; deficit della bilancia agro-alimentare; bassa produttività, ecc.), l’orientamento fu spesso di chiusura e di rifiuto rispetto alle proprie responsabilità, con l’idea di una sorta di autosufficienza che impediva il confronto e la discussione allargata, con uno scarso coinvolgimento di tecnici che non fossero di completa fiducia dei vertici confederali. Uno dei nodi mai risolti, ad esempio, fu di come riformare la Federconsorzi (celebre fu un Rapporto critico stilato da Manlio Rossi-Doria); oppure la questione di come costruire una filiera con il mondo del commercio (supermercati) o di come attivare una rete funzionante di cooperative, soprattutto a partire dall’entrata in funzione della Pac (Politica agricola comunitaria): da quel momento in poi, l’Europa sarebbe diventata, volenti o nolenti – una dimensione imprescindibile. Ma rispetto ad essa, come verso le Regioni, le resistenze furono numerose, per poi divenire gradualmente, invece, spazi di azione e di impegno.
Quali battaglie politiche e sociali hanno segnato la storia dell’organizzazione?
Credo che le misure sociali più rilevanti siano state le leggi istitutive delle mutue per i coltivatori diretti (1954), delle pensioni (1957) e degli assegni familiari (1967). Sono provvedimenti che hanno inciso negativamente sul bilancio del nostro paese (spesso in deficit rispetto ai contributi versati) ma che hanno indubbiamente costituito momenti importanti nel processo di integrazione dei contadini nello Stato e di costruzione del Welfare State (Stato sociale). Sul piano politico, è più difficile dare una risposta netta: l’opposizione e la critica ad alcuni provvedimenti e istituti (come nel caso delle Regioni o del processo dell’integrazione europea), in difesa di una visione dello sviluppo e dello Stato centralista e dei suoi supposti interessi economici nazionali, è stata di fatto una posizione minoritaria, che è stata presto riassorbita nel corso della storia e delle vicende di quegli anni. Anche l’opposizione ai governi di centro-sinistra si è nel tempo trasformata in un sostegno alla Dc guidata da Aldo Moro, nella convinzione che solo agendo dall’interno la Confederazione avrebbe potuto difendere i propri interessi mentre garantiva l’unità della Dc. E il dialogo a sinistra rimarrà comunque una richiesta continuamente avanzata da parte della base, come nella Conferenza di Montecatini del 1974-75, nella convinzione che solo facendo sistema si potesse reagire alla marginalizzazione che stava colpendo le campagne e l’immagine stessa del contadino italiano (si pensi anche alla Tv). In quel contesto, la funzione democratica svolta dalla Coldiretti quale “barriera anticomunista” nelle campagne veniva meno: il paese era profondamente cambiato e le battaglie comunque sostenute, e perse (come nel referendum sul divorzio nel 1974), mostravano tutti i limiti di un modello associativo che andava almeno in parte ripensato, riflettendo sulla propria identità. Ma questo sarà un problema lasciato da Bonomi al suo erede, Arcangelo Lobianco.
Qual è la situazione della Coldiretti oggi e quali le prospettive per il futuro?
Analogamente alle altre organizzazioni (Confagricoltura e Confederazione italiana coltivatori, oggi alleate), al di là degli errori e delle considerazioni critiche che possono essere avanzate, la Coldiretti ha svolto una funzione fondamentale nella rappresentanza, nell’affermare dignità e diritti di ceti sociali altrimenti destinati a scomparire. Questi ceti sociali sono stati e sono tutt’ora base importante della Repubblica italiana, ancora di più ai tempi della pandemia che stiamo vivendo. Sarebbe tempo che la politica e l’opinione pubblica, anche alla luce della storia, se ne rendano conto. E mi auguro quindi che il mio libro, seppur in minima parte, possa contribuire a questo processo di consapevolezza.
Emanuele Bernardi insegna Storia contemporanea nel Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo dell’Università «La Sapienza» di Roma. Tra le sue pubblicazioni, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti (il Mulino-Svimez, 2006); Riforme e democrazia. Manlio Rossi-Doria dal fascismo al centro-sinistra (Rubbettino, 2010) e Il mais «miracoloso». Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione (Carocci, 2014).