
Quale funzione ricopre oggi la città?
Il rapido aumento dell’urbanizzazione è un esempio di processi derivanti inizialmente dalla modernizzazione delle società occidentali e divenuti poi, nel corso del ‘900, caratteristici di tutte le società; processi che, tuttavia, solo recentemente vengono letti come tratti “epocali” del mondo contemporaneo. La proclamazione, da parte delle Nazioni Unite, dello storico “sorpasso” della popolazione urbana su quella rurale – che sarebbe avvenuto attorno al 2007 – contribuisce certamente all’affermazione secondo cui il mondo attuale è un mondo di città; un’affermazione che, peraltro, ha suscitato un dibattito acceso e polemico, specie nell’ambito della geografia urbana internazionale. Da parte di quest’ultima emerge invece – non senza trovare oppositori – una interpretazione che privilegia i processi di urbanizzazione planetaria: essi non corrispondono all’ampliamento e alla moltiplicazione a scala mondiale delle città ma, nel loro sviluppo superano ogni distinzione tra città e non-città. Perciò, l’urbano non si contrappone a qualcosa di esterno (ad un mondo rurale) ma è una realtà globale senza un “fuori” e in continua trasformazione.
Nel mio testo, pur evidenziando la ragionevolezza di molte argomentazioni di questa corrente di pensiero, non aderisco ad essa e ripropongo con forza il tema della città come protagonista della fase attuale. Tuttavia, cerco di mantenere le distanze anche da chi si limita ad una esaltazione della supposta perenne natura della città. In realtà, la città è un fenomeno relativamente recente nelle vicende del genere umano e dai suoi inizi ha fatto conoscere molteplici versioni e mutamenti, che negli ultimi 200 anni sono divenuti più rapidi e multiformi. La concentrazione di popolazione in grandi agglomerati riguarda tutti i continenti e dà luogo a modelli spaziali e sociali altamente diversificati, con una distinzione sempre meno netta tra l’ “interno” e l’”esterno” di tali agglomerati da ogni punto di vista. Tutto questo è vero, ma non giustifica la rinuncia a ogni interesse per la città, intesa quanto meno come una delle molte forme dell’urbanesimo contemporaneo. Semmai suggerisce di non continuare a cercare la distinzione tra città e non-città basandola su un quadro predefinito di criteri spaziali, o socio-spaziali, che consentano di operare una netta cesura tra queste due modalità di organizzazione delle società umane sul territorio. Questo tipo di ricerca implica di voler individuare ad ogni costo un oggettivo denominatore comune ad ogni entità definibile come “città” e può condurre spesso a identificarlo con caratteri propri soprattutto dei paesi occidentali. La città postmoderna non è completamente oggettivabile: l’essere-città di un insediamento dipende anche dalle diverse progettualità che in essa si sviluppano, in campo non solo politico, ma anche economico, culturale, sociale. Così pure, dipende dalle modalità, anche routinarie, di interazione tra i cittadini e l’ambiente costruito, dalle pratiche che hanno luogo nei suoi vari ambiti, dalle reti di relazioni interne ed esterne.
Questo essere-città, tuttavia, non ha un valore astratto e generico: è un processo che fa assumere alla città una propria singolarità, che la rende distinguibile dalle altre. Preferisco usare il termine “singolarità”, piuttosto che quello di “identità” – a mio avviso alquanto equivoco – per sottolineare che non si tratta di un carattere stabile ed essenziale, ma dell’esito di un processo, che può dissolversi e dar luogo a nuovi tentativi di ricostruzione. In base a questa concezione, piuttosto che cercare un denominatore comune tra tutte le città è interessante studiare queste modalità di formazione delle singolarità urbane e trovare fra queste delle “somiglianze di famiglia” al di là di ogni distinzione tra Nord e Sud del Mondo, ormai ben poco significativa.
Quali effetti produce la frammentazione delle “province di significato”?
Usando una metafora tratta da Sloterdijk, parlo della modernizzazione come di un percorso che implica la rottura di una macrosfera culturale – la cui consistenza era garantita in primo luogo dal primato della religione – e dalla sua suddivisione in molteplici bolle di significato, dotate di reciproca autonomia. Si dovrebbe aggiungere che qui si parla della modernizzazione del mondo occidentale, perché è necessario riconoscere che si danno oggi ambiti culturali diversi, nei quali i percorsi evolutivi della cultura hanno assunto altre forme.
Questa suddivisione non soltanto libera le diverse sfere culturali e sociali (la politica, il diritto, l’arte…) dalla subordinazione alla religione, ma garantisce anche la possibilità di costruire modalità indipendenti di creazione e di organizzazione dei significati, all’interno di ciascuna di esse. Tuttavia, a differenza di quanto la metafora potrebbe indicare, le bolle di significato non solo non occupano uno spazio predefinito, ma hanno anche confini porosi ed instabili, rendendo sempre precari gli equilibri reciproci e quelli degli stessi sistemi sociali. Per questo non sono mancati nel corso della modernità i tentativi di ricostruzione di una unità della sfera culturale, funzionali anche alla restaurazione di gerarchie sociali stabili, garantita da un’autorità para-religiosa. Nel testo faccio solo un accenno ad alcuni di essi: dalla proposta di una religione scientista di Comte, ai nazionalismi degli stati “etici” e totalitari, sino alla religione del capitalismo di cui parla Benjamin. Tutte queste proposte hanno mancato – per buona sorte – i propri obiettivi, ma molte di esse hanno prodotto (e in parte continuano a produrre, nella misura in cui si ripropongono anche oggi sotto nuove vesti) grandi catastrofi sociali e, comunque, tendenze culturali regressive, anche quando si sono presentate come paladine del progresso. Va dunque sgombrato il campo da ogni possibile nostalgia per la ricerca di nuove grandi sfere di significato.
Ciò non toglie, tuttavia, che la postmodernità abbia ulteriormente accentuato la frammentazione delle province di significato e soprattutto – anche in presenza di una crisi delle strutture di intermediazione tra i macrosistemi e gli individui – che venga a gravare quasi esclusivamente su questi ultimi il compito di attribuire senso alle proprie esperienze di vita e di relazione sociale. Il rischio derivante da questa situazione è che l’effetto liberatorio che la modernità ha prodotto, attraverso la rottura della macrosfera, si rovesci dando luogo ad una generalizzata carenza di significati condivisi, o quanto meno oggetti di confronto attivo. Una condizione, questa, che può aprire la via a tentativi deliranti di ricomporre fittizie unità di senso, come avviene nelle forme di fanatismo religioso o di teorie del complotto, oppure, più semplicemente, nell’adattamento dei soggetti a quelli che Benesayag chiama “esoscheletri”, vale a dire schemi di pensieri, emozioni e comportamenti precostituiti e funzionali al mantenimento del modello dominante di società, atti a sostenere una personalità fragile e in condizioni di incertezza.
Quale ruolo svolge in tale contesto l’urbanesimo contemporaneo?
In molti suoi aspetti l’urbanesimo contemporaneo interagisce attivamente con questa condizione di frammentazione, ovvero da un lato la rispecchia mentre, dall’altro lato, è esso stesso parte attiva del processo che la produce e riproduce.
Nel testo ho lasciato uno spazio relativamente ridotto alla argomentazione di questo tema perché, in definitiva, mi sembra quello maggiormente evidenziato dalla letteratura degli studi urbani, che ha molto insistito sulla dispersione sociale e spaziale degli insediamenti, sulle varie forme di segregazione ed auto-segregazione che si accompagnano alla generalizzazione dell’urbanesimo e ne accentuano gli squilibri, a varie scale. Ad ogni modo, seguendo questa linea di riflessione, ho sottolineato la presenza di una tendenza diffusa verso quella che è stata definita la “capsularizzazione” dell’urbano, e cioè l’emergenza di una molteplicità di spazi chiusi e sottoposti a controllo, di carattere tendenzialmente monofunzionale, tra loro collegati da canali di comunicazione, anch’essi monitorati e securizzati. L’esempio più ovvio è quello degli spazi del consumo, con i grandi complessi commerciali suburbani, gli outlet e i parchi tematici in prossimità delle autostrade, ma molti altri esempi di capsule possono essere ritrovati anche nelle bolle turistiche, nei complessi museali ed espositivi, nella concentrazione dei centri ospedalieri e di quelli sportivi (con stadi di proprietà ed attività ad essi collegate), per non parlare poi delle aree residenziali sul modello delle gated communities.
Lo stesso linguaggio – quello della comunicazione commerciale, ma anche quello dei media e della politica locale – tende ad utilizzare sempre più frequentemente termini che evocano questa tendenza: al di là delle intenzioni, “città della salute”, “cittadella del calcio” ed espressioni analoghe sembrano rinviare non solo a spazi specializzati, ma anche a città nella città, se non a luoghi cintati e presidiati, dove i significati dell’interazione sociale sono interamente rivolti ad un solo tema.
In tal senso, si potrebbe dire che queste capsule funzionano a loro volta come esoscheletri che sorreggono la personalità, in una forma molto concreta, perché la loro funzione di organizzatori dei significati si appoggia a veri e propri gusci architettonici e a dispositivi di controllo appositamente progettati per questo scopo.
In che modo la città favorisce anche processi di ricomposizione dei significati?
I celebri versi di Hölderlin, commentati da Heidegger, che affermano che dove si trova il pericolo cresce anche ciò che salva, potrebbero essere evocati a proposito del rapporto tra città e strutture di senso; a patto, però, di intendere la via verso la “salvezza” non come una pericolosa ed improbabile ricomposizione di una macrosfera di significati ma, assai più semplicemente, come la ricerca di terreni su cui trovare delle parziali condivisioni e modalità di relazioni sociali ed interpersonali capaci di creare senso.
In altri termini: la città è sì frammentata e capsularizzata, sotto il profilo fisico e simbolico, ma non lo è (e non può esserlo) in modo globale e definitivo, così come il processo di individualizzazione non esclude la formazione di reti sociali e di relazioni che possono anche essere intense e durature. Lo spazio urbano, infatti, è complesso e poroso e ogni forma di controllo finisce col presentare punti deboli; l’imprevedibile può manifestarsi in qualsiasi momento e dar luogo ad incontri non programmati e ad ibridazioni di significato. Per questo si può dire che proprio nella città, là dove la frammentazione e l’individualismo si esprimono con maggiore evidenza, esistono anche condizioni che rendono possibili alcuni processi di ricomposizione, nel senso prima chiarito.
Nel testo propongo alcune linee di riflessione a riguardo di tali condizioni, senza alcuna pretesa di svolgerne un’analisi sistematica. Un concetto che introduco a tale riguardo – e che qui vorrei evidenziare – è quello di “situazione”: la città è un luogo in cui si presentano, spesso in modo imprevisto e con forti specificità in ogni contesto, delle situazioni, ovvero complessi di fenomeni che coinvolgono tutti, sia pure in varia misura e con diverse manifestazioni e reazioni. Queste situazioni presentano rischi e potenzialità, ed è possibile che la loro evoluzione converga sino a configurare un “momento opportuno”, che sollecita un insieme di soggetti all’azione comune. Questo presuppone un comune “sentirsi dentro” alla situazione, che fa emergere significati condivisi al di là delle singole bolle di significati; talora genera anche conflitti, ma in base ad una comune individuazione dei termini della contesa e della posta in gioco. Ne possono nascere progetti ed iniziative, magari anche di natura transitoria, come quelle esemplificate da molte forme di temporary urbanism, che si sono moltiplicate come iniziative dal basso e che in qualche caso hanno anche dato luogo a politiche pubbliche di più ampio respiro.
Forse, la fase aperta dalla pandemia – e in particolare i mesi del lock down – potrebbero essere interpretati come un esempio di situazione urbana; una situazione paradossale perché, proprio nel momento della chiusura e della sospensione dei modi di vita abituali della città, ha fatto immaginare modi alternativi di vita e di relazione, nuove configurazioni dello spazio pubblico, diverse forme di mobilità e di organizzazione dei servizi essenziali. In qualche misura, è emerso un nuovo possibile significato della città e della convivenza in essa, al di là dei singoli campi di interazione sociale. Come per ogni situazione, non esistono esiti che necessariamente si producano, ma solo ambiti di opportunità per gli attori interessati a coglierle; ad ogni modo dobbiamo augurarci che, per quanto temporanea e non universale sia stata questa immaginazione di una città alternativa, essa possa consolidarsi anche al di fuori dell’emergenza sanitaria e trovare il momento opportuno per una traduzione in progetti effettivi.
Alfredo Mela è stato professore ordinario al Politecnico di Torino, dove ha insegnato sociologia urbana e sociologia dell’ambiente. Si occupa in particolare di temi legati alla dimensione sociale delle trasformazioni urbane, all’interculturalità, agli effetti psico-sociali dei disastri e delle emergenze sulle comunità. Tra i suoi lavori più recenti si può ricordare Le città contemporanee. Prospettive sociologiche (Carocci, 2020), con Daniela Ciaffi e Silvia Crivello.