
Le radici storiche del “miracolo cinese” poggiano su alcuni pilastri essenziali:
- il desiderio di riscatto dal passato semi-coloniale, dal “secolo di umiliazione” vissuto tra la metà del XIX secolo (Guerre dell’oppio, avvio della penetrazione britannica ed occidentale) e la metà del XX secolo (1945-47: fine della Seconda guerra mondiale e Trattati di pace di Parigi che posero fine al periodo semi-coloniale);
- L’idea di “modernizzare” la Cina, uscendo dalla miseria, arretratezza, sottosviluppo e offrendo un futuro che sia all’altezza del grande passato della civiltà cinese ma allo stesso tempo non sia meramente legato alla tradizione ma inserito a pieno nelle nuove tendenze internazionali e globali;
- La convinzione del Partito comunista cinese (Pcc) – basata sull’esperienza acquisita (vittoria nel 1949 e fondazione della Repubblica popolare cinese; capacità di superare gravi problemi e crisi interne ed internazionali, tra cui nel biennio 1989-91 la “crisi politica e sociale” interna [primavera del 1989, Tian’anmen] e la dissoluzione dell’URSS e di larga parte del sistema comunista internazionale) – di costituire l’unica garanzia per il popolo cinese di portare avanti un programma di riforme e di sviluppo accompagnato da una forte difesa degli interessi nazionali.
Quali sono i personaggi che hanno maggiormente influito sul successo dell’economia cinese?
Ritengo che il ruolo essenziale sia stato svolto da Deng Xiaoping, con l’avvio alla fine degli anni Settanta del programma di “riforme, modernizzazione ed apertura verso il mondo esterno”. A mio parere, l’eccezionalità di questa figura non sta solo nelle sue indubbie capacità e nella sua lucida visione di ciò di cui la Cina aveva bisogno vitale dopo la morte di Mao Zedong (1976) ma anche nel fatto che Deng è un uomo della “vecchia guardia”, ossia di quella classe dirigente comunista che ha portato alla vittoria della rivoluzione cinese e in seguito allo sviluppo del socialismo. Intendo dire che i cambiamenti spesso radicali e sconvolgenti avvenuti in questi decenni muovono da quella visione e vengono portati avanti, per quanto possibile, combinando elementi di forte innovazione rispetto al passato (economia, società, cultura) con una forte enfasi sulla “unità e stabilità politica” (ruolo dirigente ed autoritario del Pcc), senza la quale – ritiene Deng – non vi sono concrete prospettive di successo economico-sociale. Ovviamente, come è stato sottolineato, tale sistema comporta seri problemi per quanto riguarda il processo di “democratizzazione” e limiti oggettivi in alcuni campi per quanto riguarda gli effettivi diritti dei cittadini. Va tuttavia sfatata, a mio modo di vedere, la narrativa secondo cui la Cina sia un paese monolitico, ossificato sul piano politico: infatti, la stessa dimensione territoriale e della popolazione, la pluralità etnica, la diversificazione di usi e costumi sociali, le tradizioni e le spinte in molte regioni e località verso forme di maggiore autonomia verso il Centro (Pechino) rappresentano di per sé un limite oggettivo verso qualsiasi ipotesi e strategia di “controllo assoluto dall’alto” da parte del potere.
Quali diverse fasi ha attraversato la storia cinese nel Novecento?
La prima fase è indubbiamente la fine del millenario sistema imperiale e la trasformazione della Cina in una repubblica (1911-\12): si tratta di un periodo storico segnato in gran parte dalla guerra (guerre civili, guerre per fronteggiare la penetrazione ed aggressione giapponese) e dalla frammentazione politico-territoriale, con l’emergere, e in varie fasi con l’affermarsi, di fenomeni di “regionalizzazione” politico-militare del potere accompagnata da governi centrali tendenzialmente deboli e/o divisi al loro interno. La lettura storico-politica di questa fase, protrattasi per poco meno di 40 anni, è stata essenziale per i comunisti cinesi nell’affermazione, come sopra sottolineato, dell’importanza vitale di mantenere l’unità e stabilità politica nel paese.
La seconda fase è rappresentata dal primo trentennio della Repubblica popolare cinese (Rpc, 1949-76), che è nota come “periodo maoista” a significare il ruolo centrale, politico e personale, assunto da Mao Zedong. È stata una fase nella quale si sono intrecciate, aldilà della riaffermazione della centralità politica e di potere del Pcc, momenti di moderazione e di radicalizzazione nello sviluppo della politiche in campo ideologico, economico e sociale, e nella quale la vocazione socialista e allo stesso tempo terzomondista della Cina sono emerse. In questa fase sono stati compiuti indubbi progressi finalizzati alla fuoriuscita del paese dalla situazione di arretratezza e sottosviluppo passati ma allo stesso tempo sono state avviate esperienze, rivelatesi essenzialmente fallimentari, di accelerazione dello sviluppo economico-sociale (vedi Grande balzo in avanti, fine anni ’50) e di radicalizzazione politico-ideologica (vedi Rivoluzione culturale, anni ’60).
La terza ed ultima fase è quella che ha preso avvio dalla fine degli anni Settanta e che, attraverso varie e diverse tappe, la Cina sta oggi vivendo al fine di raggiungere gli obiettivi, fissati per il 2021 (centenario della fondazione del Pcc) e del 2049 (centenario della nascita della Rpc), di diventare una realtà socialista prospera sul piano della civiltà materiale e spirituale ed un paese centrale negli affari regionali e globali.
Qual è l’eredità di Mao in Cina oggi?
È un’eredità complessa, che presenta varie sfaccettature. Da una parte, molti elementi centrali del trentennio maoista sono stati abbandonati o comunque profondamente messi in discussione (ad es., l’autosufficienza, l’ampia chiusura difensiva verso il mondo esterno, il primato della politica ed ideologia); dall’altra, soprattutto negli ultimi anni con la dirigenza guidata da Xi Jinping, è stato avviato un ripensamento – rispetto ai decenni passati – dell’eredità maoista, sottolineandone accanto a errori e limiti l’importanza fondamentale per porre le basi di quella “rinascita socialista” i cui frutti rappresentano oggi, per una Cina pur molto diversa, un lascito positivo senza il quale non sarebbe stato possibile il boom di questi anni.
La Cina può ancora dirsi un paese comunista?
È difficile dirlo: è un paese “comunista” in cui, ad esempio, la proprietà pubblica dei mezzi di produzione è ancora per vari aspetti in mano allo stato, in cui ufficialmente il marxismo svolge un ruolo ancora importante nella formazione della classe dirigente, in cui il ruolo guida del Pcc e della dittatura democratico-popolare rivestono un ruolo molto importante; allo stesso tempo non è più un paese “comunista” come lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, è una realtà in cui mercato, globalizzazione, penetrazione di idee e stili di vita profondamente diversi dal passato rappresentano un elemento essenziale e anche crescente. Diciamo che l’esperienza della Cina ci ha posto e ci pone l’esigenza di riflettere meglio se i “modelli” dicotomici passati (capitalismo-socialismo) siano ancora pienamente validi e in quale misura eventualmente lo sono.
Nonostante il travolgente sviluppo macroeconomico, la Cina vive moltissime contraddizioni: quali sono le principali?
Ve ne sono molte, alcune sono eredità del passato e altre frutto del processo di riforma portato avanti. Tra le prime: il rapporto tra città e campagna, tra multi etnicità e forma centralistica dello stato; tra le seconde: il rapporto tra aspetti quantitativi e qualitativi della crescita, tra esigenze di difesa degli interessi nazionali e compartecipazione alla governance mondiale, tra autoritarismo politico ed esigenze di articolazione dell’espressione della sovranità popolare.
La Cina vede crescere sempre di più il Suo peso, non solo economico, ma anche politico e strategico sullo scacchiere internazionale: quale futuro per la leadership cinese?
Quando quasi 40 anni l’attuale “modello di sviluppo” cinese, incentrato su profonde riforme economico-sociali e allo stesso tempo su di una sostanziale continuità e stabilità del sistema politico, venne avviato e sperimentato, molti osservatori predissero che tale modello sarebbe presto entrato in crisi e non sarebbe sopravvissuto alle proprie contraddizioni. La realtà ha dimostrato che non è stato così e che, nonostante non pochi momenti difficili e critici, esso ha retto le dure prove alle quali è stato messo di fronte sul piano interno ed internazionale. Molti sono i fattori che possono spiegare tutto ciò ma uno è certamente la capacità di adattabilità della leadership cinese, la sua relativa flessibilità nell’affrontare vecchie e nuove sfide, il suo stile politico di programmare con anni di anticipo lo stesso rinnovamento della classe dirigente in modo da consentire cambiamenti ed innovazioni che non mettano tuttavia a rischio la stabilità del sistema. Se tali caratteristiche saranno preservate ed affinate, ritengo che le prospettive a medio termine vedano forti possibilità di mantenimento della stabilità politica e delle capacità di guida e controllo del Pcc. Peraltro, qualsiasi previsione sul futuro appare oggi difficile da definire, soprattutto considerando che non esiste ad oggi un’opposizione politica e sociale organizzata in Cina in grado di fare fronte potenzialmente ad un radicale mutamento del sistema politico.
Ritiene che si giungerà ad un superamento dell’attuale assetto politico cinese?
Credo di avere già fornito una risposta generale sopra. Penso che oggi lo sforzo di “democratizzazione” del potere in Cina – uno sforzo di cui si parla in legame soprattutto con la lotta alla corruzione e al rafforzamento delle radici sociali del partito, radici indubbiamente indebolite nel corso dei decenni – abbia al centro il Pcc: maggiore “democrazia” nel partito significa di fatto renderlo più capace ed adatto a fronteggiare le sfide in corso. In tal senso, il Congresso del Pcc in corso (ottobre 2017) è chiamato innanzitutto a sciogliere il dilemma tra l’esigenza di una direzione collettiva, riaffermata chiaramente da Deng Xiaoping al fine di superare gli elementi di personalizzazione del potere nell’epoca di Mao, e la forte impronta politica e personale che Xi Jinping ha impresso sinora al sistema di potere.
Il prossimo, sarà il secolo cinese?
Penso che siamo già, per vari aspetti, nel secolo cinese. Starà alla Cina, al suo popolo, ai suoi dirigenti, fare in modo che questo “secolo cinese” possa proseguire e produrre risultati positivi per la stessa Cina e per il mondo intero.