“La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine” di Francesco Forleo

Dott. Francesco Forleo, Lei è autore del libro La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine edito da Universitas Studiorum: qual è stato lo sviluppo storico della cibernetica?
La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine, Francesco Forleo La cibernetica fa parte della nostra vita! Quando, ad esempio, prendiamo una matita sul tavolo, o quando il timoniere aggiusta la rotta della nave perché sospinta dai venti fuori da quella prestabilita, siamo dinanzi a due esempi cibernetici di autoregolazione: il primo naturale, il secondo artificiale. Ora, la scienza e la filosofia che stanno alla base di tali fenomeni, in particolare dei processi che permettono la realizzazione di tali fenomeni, furono riunite dal matematico Norbert Wiener (1894-1964) sotto il nome di “cibernetica”, una parola che deriva proprio dal nome greco del timoniere, il cibernauta, cioè colui che aggiusta la rotta (e l’esempio non era del tutto casuale). Se la cibernetica naturale è nata con gli esseri biologici, la disciplina che si occupa dello studio dei processi che stanno alla base dei fenomeni stessi, sia naturali sia artificiali, nasce ufficialmente nel 1948, quando Wiener pubblicò a Parigi il suo volume La cibernetica. In realtà Wiener era giunto all’idea cibernetica già nel 1943, in pieno periodo bellico, quando si stava occupando dello studio di un complesso dispositivo antiaereo. Il sistema era composto sostanzialmente di tre elementi: un cannone antiaereo, un radar e (considerando l’epoca) un potente calcolatore. I tre elementi potevano comunicare fra loro grazie ad un processo di feedback circolare: il cannone, in base ai calcoli eseguiti dal calcolatore analizzando la posizione dell’aereo fornita dal radar, aggiustava il tiro, riducendo l’errore colpo dopo colpo, sino a colpire necessariamente l’aereo nemico. Sembrava una delle tante invenzioni che, specialmente nei periodi bellici, vengono messe a punto nel tentativo di sconfiggere il nemico, ma in realtà il dispositivo aveva evidenziato qualcosa che non si era mai visto prima. Cosa c’era di nuovo in quel sistema? Erano presenti due novità: la prima consisteva nel fatto che il sistema era in grado di autoregolarsi verso l’obiettivo; l’altra, diretta conseguenza della prima, permetteva al sistema, calcolando la posizione dell’aereo nel tempo, di prevedere il futuro, e tale futuro si basava su operazioni di calcolo compiute nel suo passato. Entrambi questi comportamenti appartenevano sia agli esseri biologici evoluti, sia al sistema artificiale.

Era però evidente che non bastava mettere insieme i singoli componenti del sistema per ottenere il risultato appena descritto. Bisognava fare in modo che gli elementi, sotto una forma di governo, potessero dialogare fra loro, e molto velocemente. Il baricentro teorico per gestire tali comportamenti artificiali si spostò pertanto dal come funzionavano i singoli elementi che costituivano il sistema al come comunicavano gli elementi fra loro (oggetto di studio dell’informatica, la nuova scienza dell’informazione), lasciando un ampio margine all’ipotesi che vi fosse una sostanziale analogia fra i processi di comunicazione naturale con cui si regolano gli esseri viventi in vista di un obiettivo e quelli artificiali con cui si regolano le macchine teleologiche. Per entrambi i casi, secondo Wiener, alla base di questi meccanismi di regolazione vi erano processi governati da un organo superiore e basati sulla comunicazione costituita da una grande quantità di operazioni elementari: cervello e impulsi elettrici discreti (discontinui e/o intermittenti) per il sistema nervoso degli esseri biologici; calcolatore e sequenze di informazioni digitali elementari, i bit («binary digit») per i dispositivi artificiali.

Fin dagli inizi, quindi, la cibernetica, così come l’aveva intesa Wiener, configurava un campo di studi in cui l’analogia fra cervello e calcolatore era considerata decisiva per la realizzazione di automatismi e applicazioni riproducenti attività umane/animali. Il limite era costituito dalle modalità operative, che essendo ottenute con procedimenti propri, non permettevano di riprodurre i processi biologici.

Ma la neonata disciplina e le sue potenziali ricadute nel tessuto produttivo e accademico delle società occidentali avevano intrapreso in modo irreversibile il percorso che porta sino ai nostri giorni, agendo a tutti i livelli di applicazione. Offrendo numerosi stimoli alla ricerca tecnologica e alle speculazioni filosofiche. Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, sospinti dall’entusiasmo e dal progresso delle conoscenze informatiche, tecnologiche e della fisica medica, si tentò la riproduzione di organi biologici; dai fisicalisti totali fu avanzata l’ipotesi della riproduzione del cervello capace di pensare, teorizzando il passaggio dallo stato di materia fisica inerte delle macchine allo stato di materia pensante. Questo secondo tipo di cibernetica, orientata alla riproduzione artificiale di funzioni organico-biologiche, venne definito da Silvio Ceccato «cibernetica bionica» (da «bios», vita).

Il problema di capire come riprodurre il cervello artificialmente affinché potesse generare il pensiero venne risolto da Ceccato a partire dal Congresso di Filosofia del 1946. Ipotizzando il rapporto organo-funzione, e stabilita la funzione e il suo prodotto, Ceccato concluse che se la mente era la funzione di qualcosa, il cervello era l’organo a cui la mente faceva capo: e nel sistema cervello-mente, quest’ultima era l’elemento che riusciva a produrre il pensiero.

La sua speculazione era basata sull’osservazione – come scriveva nel 1974 nel suo La terza cibernetica – che «se le attività di cui si cerca l’organo è fisica, saranno le scienze fisiche o biologiche ad individuarla, se essa è psichica, saranno quelle psichiche, ma se essa è mentale, purtroppo l’individuazione, l’analisi e la descrizione dovranno avvenire in termini mentali, e per questo è proprio escluso che una scienza naturalistica la possa fornire».

Dovendo poi assegnare un campo di analisi che non rientrasse nella cibernetica «automazionale o wieneriana, e nemmeno nella sfera di competenza di quella «bionica», Ceccato prospettò una sfera di azione e di lavoro che definì «logonica», come ancora in La terza cibernetica: «Ecco così la necessità che dalla prima cibernetica si staccasse un’altra branca, destinandola allo studio della mente, del pensiero, del linguaggio, della percezione e rappresentazione, della categorizzazione, degli atteggiamenti ecc. […]. Se si intende dare anche a questa cibernetica un nome, credo che per analogia con bionica (da “bios”) si possa chiamare logonica (da “logos”)».

La riproduzione del cervello, nella prospettiva di Ceccato, non sarà pertanto una duplicazione dell’organo biofisico, ma sarà costituita dalla modellazione di operazioni che esso compie nello svolgere la sua funzione.

La terza cibernetica, con i suoi modelli in operazioni, ha configurato un nuovo ed originale campo di indagine da cui ha preso le mosse in quell’epoca lo studio dei comportamenti intelligenti.

Finalità e capacità di previsione hanno il riconoscimento di essere considerate attività intelligenti quando presenti nei sistemi biologici; se riprodotte artificialmente hanno come diretta conseguenza la replica del comportamento intelligente, qualcosa che, teorizzato nella fase embrionale come cibernetica, viene attualmente definito dalla comunità scientifica e nell’immaginario comune col suggestivo nome di “Intelligenza Artificiale”.

Le macchine conquisteranno mai l’intelligenza?
Il concetto di “intelligenza” e il suo significato rimandano a uno spettro molto ampio di definizioni. Dall’ambito ontologico, epistemologico, psicologico e scientifico, sino a quello medico-neurologico, sembra che trovare una descrizione univoca sia un’impresa non ancora riuscita alla comunità accademico-scientifica. Quindi mi guardo bene dal tentare di esaurire il concetto e la sua definizione in poche righe, rimandando per una visione più ampia delle proposte di definizione ai classici strumenti resi disponibili da Treccani, Hoepli, Zingarelli, ecc. Su alcuni aspetti però mi sembra che ci sia un intendimento sostanzialmente condiviso, e in particolare quello che attribuisce all’intelligenza la capacità di risolvere problemi nuovi e sconosciuti.

Se prendiamo in considerazione questo aspetto, e lo applichiamo alla sfera d’azione della cibernetica e della sua evoluzione in intelligenza artificiale, possiamo dire che alcune macchine costruite dall’uomo, nello specifico le macchine dotate di componenti elaborative ed elettroniche, hanno la capacità di risolvere problemi e pertanto possiedono un certo livello di intelligenza.

Ora, la domanda alla quale cerco di rispondere chiede se le macchine conquisteranno l’intelligenza. Il punto cruciale credo stia nel verbo “conquistare”, assunto nel senso di un’azione che prevede strumenti che accrescano le caratteristiche costruttive di base della macchina stessa. Le macchine costruite dall’uomo, a partire da quelle teleologiche di Wiener a quelle che vediamo attualmente, a mio avviso non possono conquistare autonomamente un grado di intelligenza superiore a quello ottenuto all’atto della loro produzione. Che siano potentissimi elaboratori, robot o umanoidi/androidi che compiono operazioni riproducenti attività biologiche, le macchine sono prive di facoltà attinenti alla conquista, e fra queste competenze indico l’auto-apprendimento, il giudizio sintetico, la consapevolezza, la capacità riassuntiva o la capacità di attribuire significato semantico a proposizioni.

In realtà anche le macchine più sofisticate agiscono e interagiscono con l’ambiente in funzione del margine di intelligenza che gli informatici, gli specialisti di programmazione algoritmica, gli ingegneri elettronici e i tecnici che costruiscono fisicamente il sistema, sino agli elementi senso-protesici, sono stati in grado di progettare al momento della loro ideazione.

Quali conseguenze è possibile prevedere qualora le macchine divenissero intelligenti?
La questione di un’intelligenza attribuita (o attribuibile) alle macchine, con tutte le sue implicazioni, ha affascinato, incuriosito e talvolta preoccupato sia l’opinione pubblica sia gli specialisti. Sin dall’apparizione dei primi esemplari di mega-calcolatori allestiti nei primi anni ‛50 nei centri di ricerca (mega-calcolatori non solo perché per l’epoca avevano grandi capacità di calcolo, ma “mega” anche per le dimensioni esterne, se pensiamo che negli anni ‛50 gli operatori si introducevano fisicamente all’interno dei calcolatori stessi, i quali occupavano intere stanze e aree di oltre 150 m2) e, immediatamente dopo col passaggio dei calcolatori alla forma di prodotto disponibile sul mercato, i costruttori e in particolare la IBM si posero il problema di come divulgare le caratteristiche del loro prodotto, inclusa l’ipotetica funzione intellettiva.

Per capire se esistesse o meno tale funzione dei calcolatori, nel 1956 al Dartmouth College nel New Hampshire fu indetta una riunione fra specialisti dei vari settori che erano coinvolti nella costruzione dei computer (incredibile l’analogia di quello che aveva fatto Wiener nel 1943 con la cibernetica). Il gruppo di lavoro aveva il compito di cercare di riprodurre macchine che simulassero in ogni aspetto l’intelligenza umana, e il progetto di questa nuova ricerca venne chiamato Intelligenza Artificiale.

I costruttori di calcolatori erano convinti che le loro macchine possedessero un embrione di intelligenza assimilabile a quella umana e che questo sarebbe stato sviluppato. Nel 1962 l’IBM organizzava a Firenze un convegno informativo per la stampa, forse il primo in Italia, sul tema: «Elaboratori: macchine intelligenti?», una fra le tante iniziative commerciali e divulgative per promuovere il potenziale innovativo e le sorprendenti capacità dei “cervelli elettronici”, come all’epoca venivano chiamati. I calcolatori di quel periodo, per i limiti costruttivi dei loro componenti, lavoravano con programmi di tipo logico-sequenziale (operazioni elementari in cascata che si basavano sul “se…allora…”) e si cominciava a vedere che, paragonandole a quelle umane, la potenza e la velocità di calcolo erano stupefacenti. Crescevano però contestualmente anche i timori per l’eventuale incremento e sviluppo fuori controllo delle presunte caratteristiche di alto profilo dei calcolatori, quali ad esempio la capacità di delibera e di migliore decisione (l’ottimizzazione leibniziana). Pertanto sia l’IBM, sia altri costruttori che nel frattempo si erano affacciati sul mercato, cercarono di tranquillizzare i committenti dinanzi al timore che la macchina potesse sfuggire al controllo umano, rassicurando la comunità, scientifica e non, che in definitiva i calcolatori possono fare solo quello per cui sono programmati.

Personalmente sono tuttora di questa opinione. Ho iniziato a lavorare con le macchine nel 1974, al Centro Ricerche di una grande azienda automobilistica italiana e il calcolatore di cui disponevamo era l’UNIVAC, lo stesso che pochi anni prima, alla NASA, aveva portato al successo l’impresa di allunaggio degli astronauti statunitensi; ho avuto quindi la possibilità di fare esperienza in prima persona di quasi tutta la fase evolutiva dei calcolatori e delle macchine da essi governate, sino ad oggi.

Ora sembra che lo scenario tecnologico futuro a medio e lungo termine stia aprendo altre ipotesi; l’attuale panorama di programmi di Intelligenze Artificiali per calcolatori (che nel frattempo si sono a loro volta miniaturizzati e potenziati nella parte hardware) si è evoluto da logico-sequenziale a logico-simbolico e sub-simbolico, creando le reti neurali che tentano di imitare quelle dei cervelli biologici. Del resto chi negli anni ‛50 e ‛60 avrebbe immaginato che le attuali Intelligenze Artificiali, passando per il programma «Deep Blue» che nel 1997 sconfisse il campione del mondo di scacchi Kasparov, potessero gestire diagnosi mediche, pervenire al riconoscimento dei volti, e (come è successo nel marzo 2017 nel New Jersey) decretare sanzioni giuridiche sostituendosi ad un giudice umano?

Detta così, sembrerebbe che il percorso è tracciato e, con l’idea che un giorno ci saranno macchine come delineate da Stanley Kubrick con il suo supercomputer HAL 9000, protagonista di 2001:odissea nello spazio (una macchina dotata di intelligenza artificiale estremamente potente e in grado di interloquire con gli esseri umani, capace di riprodurre tutte le attività della mente umana), che nel giro di qualche decennio saranno progettate Intelligenze Artificiali tali che, potrebbero veramente prendere il sopravvento sugli umani: nelle strategie di governo, in quelle politiche, e peggio ancora in quelle militari, decidendo il futuro degli stessi uomini che le hanno progettate e costruite.

Io non sono così pessimista. Ritengo che delle conseguenze legate all’intelligenza delle macchine saranno responsabili i progettisti (sia programmatori, sia tecnici dei processori) e, lo penso per almeno due ragioni.

In primo luogo, come ho espresso in precedenza, i calcolatori (che costituiscono la componente di governo delle tre grandi famiglie di macchine: computer, robot e androidi/umanoidi) attualmente operano nella fascia di quella che viene identificata come intelligenza artificiale debole, cioè quella che se confrontata con quella umana, è preposta ai ragionamenti di carattere razionale e operativo-simbolico. Pur riuscendo a deliberare risultati fruibili dopo avere compiuto quantità enormi di operazioni in modo incredibilmente veloce e inarrivabile per le capacità fisiche umane, le intelligenze artificiali sono distanti dall’accesso alle facoltà intellettive umane superiori, quelle che svolgono sia la parte logico-simbolica che quella emotiva in parallelo (come sappiamo il dualismo della mente è considerato superato a livello di divisione fisicalista dei lobi dell’encefalo, ma ha mantenuto valore come attività mentale). Tali funzioni, per ora, non sono perseguibili nemmeno dai più avanzati sistemi di intelligenza artificiale, fra i quali ricordo, ad esempio, Watson di IMB e Google Health.

Una situazione emblematica potrebbe essere questa: un essere umano può guidare un’automobile per andare da un luogo ad un altro, poniamo da casa al ristorante per una cena fra amici. Anche un’automobile senza pilota e opportunamente programmata (con Google «driverless») può compiere lo stesso percorso: entrambe le attività sono intelligenti e confrontabili sul piano funzionale. Tralasciando per ora la responsabilità in caso di incidente (circostanza che meriterebbe un discorso a parte), dove sta la differenza fra l’agire dell’essere umano e il comportamento dell’auto senza pilota guidata da un sistema di intelligenza artificiale? Sta nel fatto che per l’umano è possibile guidare l’automobile anche in condizioni emotive diverse: potrebbe passare da uno stato d’animo di gioia (si va al ristorante) ad uno di ansia se all’improvviso uno dei passeggeri accusa un malore; il conducente, a fronte della nuova situazione, decide di cambiare destinazione per recarsi all’ospedale e in quel caso guiderà con l’andatura più veloce possibile, compatibilmente con la situazione generale, forse anche passando qualche semaforo rosso, perché con il suo cervello sta valutando e sintetizzando istante per istante la componente emotiva e razionale.

Il calcolatore che governa il veicolo, invece, pur dotato di intelligenza artificiale avanzata, non cambierà la sua destinazione se un passeggero che accusa un malore non ha la capacità di azionare i comandi di emergenza: compirà la sua missione arrivando al ristorante col passeggero malconcio o peggio…; siamo ancora sul piano dell’elaborazione logico-simbolica, per intenderci quella che sostanzialmente Ceccato, sin dal 1956, ha proposto con la sua modellazione della mente in operazioni.

Tornando alle ragioni delle responsabilità dei progettisti, in secondo luogo, finché non si sarà in grado di realizzare semiconduttori così miniaturizzati da contenere un numero di cellule simil-neurone, come avviene per gli esseri biologici, non ci sono le premesse per portare la materia inerte a diventare necessariamente materia pensante ed emotivamente inferenziale, capace non solo di possedere facoltà teleologiche, ma anche di volizione, di provare sentimenti e di autocoscienza.

Naturalmente, ad oggi nessuno sa come andrà a finire. Alcuni scienziati che si occupano di intelligenza artificiale, diceva Sam Williams nella sua Storia dell’intelligenza artificiale, «considerano un inevitabile destino tecnologico l’emergere di macchine con intelligenza a livello umano»: credo che ciò non sarà possibile sino a quando i processori saranno costituiti da semiconduttori, miniaturizzati sin che si vuole, ma pur sempre troppo diversi dai neuroni biologici molecolari. Se comunque dovesse accadere, ritengo che succederà come è andata con l’energia nucleare e altre grandi svolte dell’umanità: portata in luce la scoperta, con l’autonomia dell’uomo sarà usata con buon senso. Del resto Cartesio sosteneva che il buon senso è la facoltà umana meglio distribuita nell’umanità, e su questo sono ottimista.

Qual è stato il contributo di Silvio Ceccato allo sviluppo della cibernetica?
L’opinione più comune è che in fondo Ceccato non ha dato un vero contributo al pensiero del nostro tempo. Ma a mio avviso le cose non stanno così.

A causa dei suoi disturbi sinestetici, dopo la laurea in giurisprudenza si intestardì nella ricerca della causa mentale di questo fastidio. Il percorso intrapreso lo portò a incrociare il sentiero di altri studiosi della mente e del cervello, scoprendo dall’interno un duplice mondo del sapere, quello dei filosofi e quello degli ingegneri della computazione. Si scontrò con entrambi, e la conseguenza fu un certo isolamento ideologico. Ma il frutto delle sue speculazioni, alcune davvero originali, ha lasciato una serie di benefici al sapere contemporaneo, con intuizioni estremamente attuali: di alcune di esse cercherò di fare un richiamo, scusandomi se tralascerò parecchi aspetti della sua molteplice produzione scientifica.

Dovendo comunque dare un quadro del lavoro svolto da Ceccato, il contributo maggiore, a mio avviso, si è avuto nella sfera cibernetica, in particolare quella cibernetica che, ipotizzando un modello di attività mentale generata da operazioni categoriali, ha a che fare col linguaggio e con la semantica: per questo motivo egli stesso l’ha denominata «logonica». L’aver ipotizzato la mente come funzione del cervello, se lo ha portato a scontrarsi a livello accademico con la filosofia classica e la psicologia accademica, gli ha indicato la via per sciogliere il problema della teoria costruttivistica che tanto gli stava a cuore nel tentativo di riprodurla a livello computazionale.

Ma a mio modo di vedere il punto focale della sua teoria, e vera chiave di volta della logonica, è stata la sorprendente intuizione che l’elemento atomico, elementare (inteso come puntuale, ultimo, non più divisibile) di costruzione dell’attività mentale è l’«attenzione con la sua duplice funzione: «frammentatrice» e «categoriale». Dobbiamo pensare che la speculazione di Ceccato sull’attenzione risale ai primi anni ‘50. Tale teoria ha dimostrato la sua straordinaria attualità quando nel 2013, dopo oltre sessant’anni dalla sua presentazione originaria, Daniel Goleman pubblica il libro Focus. Dopo anni di studio, porta a conoscenza dei vantaggi di un buon uso dell’attenzione, quale elemento fondamentale per la costruzione della nostra attività mentale, grazie alle funzioni «selettiva» ed «esecutrice». In sostanza, Goleman (docente di psicologia ad Harward e autore fra l’altro di una serie di bestseller sull’Intelligenza emotiva) è giunto parecchi anni dopo alle conclusioni di Ceccato, tra l’altro senza citarlo mai!

Non si può concludere senza un minimo accenno ad altri importanti contributi cibernetici di Silvio Ceccato. Nella sua attività si è occupato di traduzione automatica, visori semantici, papirologia, analisi automatica dei testi giuridici, metodologia operativa con un linguaggio universale, studio dei comportamenti umani per riprodurne le logiche sentimentali, ecc… Insomma una esplosione di interessi proiettati nel futuro che per noi è l’attualità dei nostri smartphone o laptop. Oltre alla teoria logonica, o «terza cibernetica» come sovente la chiamava Ceccato, per chi è interessato agli approfondimenti, rimando al mio lavoro, in cui vengono affrontati altri aspetti cruciali della cibernetica e dei suoi campi di ricerca.

È possibile sviluppare un modello matematico della felicità?
Al volante della nostra automobile, stiamo viaggiando su una strada nel nord della Svezia. È una bella giornata invernale, fredda, ma soleggiata. Affrontiamo una delle tante curve dolci che si snodano nel percorso che attraversa la foresta di conifere. L’asfalto è cosparso di neve pressata e ghiacciata, ma l’andatura che teniamo ci permette di viaggiare con ragionevole sicurezza tenendo sotto controllo il veicolo. All’improvviso, nel bel mezzo di una curva, un alce! È lì, nella nostra traiettoria e ci guarda: siamo presi dal panico, che fare? Freniamo, sterziamo per evitare l’ostacolo, ci sembra di perdere il controllo e già ci immaginiamo con il veicolo fuori strada, e forse anche peggio… Ma mentre cerchiamo di capire cosa fare e come gestire quella situazione imprevista, una rassicurante risposta attuata dal computer di bordo permette al veicolo di riallinearsi. Dopo una lieve sbandata iniziale, causata dalla nostra manovra da panico sul fondo sdrucciolevole, il veicolo ritorna in traiettoria, in modo progressivo, senza spaventarci. Il sistema di controllo di stabilità di cui è dotato, grazie ai suoi sensori, ha fatto quello che avremmo voluto fare noi e, processando a velocità sovrumane i parametri dinamici, ha individuato le azioni ottimali per consentire al veicolo di rimanere in strada ed evitare l’ignaro animale che cercava solo un ciuffo d’erba da brucare. Una risposta intelligente, che ha evitato un’uscita di strada in mezzo agli alberi: è andata bene e siamo “felici”. Ovviamente non siamo su un’astronave, ma su una moderna automobile, dotata di sistemi cibernetici di ultima generazione. In questo caso il modello matematico che ha permesso la progettazione del programma (il software) con cui il computer di bordo ha momentaneamente tolto il controllo al conducente per restituirglielo dopo aver evitato l’ostacolo, ha effettivamente reso felice il guidatore per lo scampato pericolo (ma cos’è la felicità? In questo caso, «Piacer figlio d’affanno», avrebbe detto Leopardi, cioè una infelicità schivata). Ecco, in questi termini, il modello matematico del sistema (una macchina intelligente) dentro il veicolo (una macchina convenzionale) è effettivamente un modello matematico della felicità: non la propria, bensì quella del destinatario che ne fa uso.

Ben diversa era l’intenzione di Ceccato (e quella dei costruttori contemporanei di androidi o umanoidi). Il tentativo non era quello di realizzare una macchina che procuri felicità, ma una macchina che sia essa stessa capace di essere felice. Lo dice Ceccato quando, nel 1989, nella prefazione a Contentezza e intelligenza scriveva una bella frase provocatrice: «costruire un robot felice, un capriccio da cibernetico». La sua ambizione era quindi quella di realizzare una macchina che fosse dotata di intelligenza propria e fosse in grado di provare un sentimento come la contentezza, proprio come noi umani. Ma come? Seguendo la sua regola aurea, Ceccato ribadisce che per costruire una macchina che pensi, senta e si comporti in modo umano bisogna prima capire bene come sono fatti gli uomini. Sempre in Contentezza e intelligenza si chiede allora: «Come sarà fatto un uomo felice?». Sciolto questo nodo, possiamo lavorare per realizzare artificialmente la macchina felice. Ma qui incontriamo lo scoglio più insidioso. Comprendere come è fatta la felicità umana è un orizzonte difficile da raggiungere, e personalmente ho diverse perplessità sulla capacità di replicare sotto forma di modello matematico l’algoritmo (ammesso che sia un algoritmo) che ci renda felici. Questo a causa dei numerosi insuccessi con cui, per svariate ragioni, nella mia esperienza di ricercatore ho dovuto fare i conti tentando di matematizzare le sensazioni. Ma Ceccato la pensava diversamente, e ci ha lasciato un modello operazionale della mente che ipotizza le basi per realizzare una macchina intelligente e felice, dotata cioè di una felicità che dipende dalla combinazione del modo di operare attenzionale, logonico: chissà se prima o poi, proprio partendo da lì, qualcuno giungerà a realizzare una felicità razionale, cosa che, a ben pensarci, ha tutta l’aria di un ossimoro…

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