
In particolare, Edoardo Buroni rileva «perché è interessante domandarsi quale e come sia la lingua che i successori di Pietro usano quando si rivolgono ai fedeli della propria diocesi e all’intero popolo di Dio. Se l’idioma ufficiale della Chiesa cattolica resta il latino (ma è significativo che, per la prima volta, proprio la recente enciclica di papa Francesco Fratelli tutti del 3 ottobre 2020 non sia stata pubblicata sul sito del Vaticano anche in lingua latina), tanto che ancora Giovanni Paolo II sosteneva che «la Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua dell’antica Roma e deve manifestarli ogniqualvolta se ne presenti l’occasione» (Dominicae cenae, n. 10) e il suo successore Benedetto XVI nell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis del 2007 ne auspicava una maggiore conoscenza e un più frequente uso liturgico (n. 62), questa non è la lingua di cui, in epoca di mediatizzazione e di globalizzazione, i papi si servono per comunicare direttamente con i fedeli e con gli «uomini di buona volontà»; la preferenza va piuttosto all’italiano, anche quando ci si trovi all’estero (si pensi a diversi discorsi ufficiali durante le visite apostoliche, o ad appuntamenti più strettamente pastorali come le Giornate mondiali della gioventù) e nonostante questa non sia la lingua madre degli ultimi tre governanti della Chiesa cattolica.»
Vi è poi il caso particolare, analizzato da Franco Pierno, di «quel complesso di collegi e università pontificie che, ancor oggi, costituiscono l’eccellenza della formazione teologica per il clero cattolico universale. Un sistema educativo in cui la presenza e l’utilizzo dell’italiano si sono imposti gradualmente, fino a divenire quasi assoluti, soprattutto negli anni successivi al Concilio Vaticano II, a discapito del latino, lingua sì ufficiale della Chiesa, ma sempre meno conosciuta. Parallelo all’imporsi dell’italiano come lingua d’insegnamento è stato (e lo è ancora) l’aumentare del flusso di studenti non italofoni iscritti alle università pontificie, attestabile, secondo alcune stime, a poco più del 60% dell’intero pubblico studentesco religioso di Roma, più del doppio degli iscritti stranieri ai corsi di laurea delle normali università statali d’Italia.
L’insegnamento nelle università e nei collegi pontifici ha determinato una progressiva e ormai pienamente acquisita situazione in cui l’italiano è percepito non solo come lingua del territorio vaticano, ma anche come lingua universale del magistero teologico. Come si è detto, sono infatti le élite ecclesiastiche (se è permessa questa definizione, almeno nel senso intellettuale del termine) delle diverse nazioni a poter beneficiare dei cursus studiorum pontifici. Di conseguenza, l’italiano è ampiamente utilizzato dalla comunità internazionale dei teologi come lingua di scambio e comunicazione: articoli di riviste specializzate o monografie spesso sono redatti in lingua italiana o tradotti da un’altra lingua in italiano, ormai L2 (lingua seconda) per antonomasia presso i religiosi non italofoni. Certo, altre lingue, come inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco e, ovviamente, latino, sono considerate lingue d’uso alla pari dell’italiano, ma questo soprattutto per quel che riguarda il disbrigo di pratiche burocratiche e amministrative. La padronanza della lingua italiana resta comunque imprescindibile, e non solo per questioni accademiche, ma anche per le attività pastorali che gli alunni delle università pontificie sono immancabilmente chiamati a svolgere e, questo, in parrocchie romane o, al massimo, di altre diocesi laziali.»
«La centralità linguistica assunta in seno alla Chiesa cattolica, in particolar modo nell’ambiente romano e pontificio, fa [dunque] dell’italiano una lingua d’immenso prestigio, utilizzata non solo nelle università pontificie, ma, soprattutto grazie a queste ultime, presente nella cattolicità universale, «l’altra lingua di Dio», secondo la definizione iperbolica che abbiamo scelto».