
Pietro Gerber, protagonista del romanzo, è uno psicologo infantile di Firenze noto come “l’addormentatore di bambini”. La sua specialità, infatti, consiste nell’uso dell’ipnosi per aiutare i propri piccoli pazienti a far emergere abusi o traumi nascosti nel loro inconscio: “era consapevole del fatto che molti reputassero l’ipnosi una specie di pratica alchemica per controllare la mente altrui […]. In realtà, era semplicemente una tecnica per aiutare persone che si erano smarrite a entrare in contatto con se stesse”.
Un giorno, nel bel mezzo di una forte tempesta, Gerber riceve la telefonata di una collega australiana, la dottoressa Walker, che gli parla di una sua paziente, Hanna Hall, che si è sottoposta a una seduta di ipnosi nel corso della quale è inaspettatamente emerso nella sua memoria il ricordo dell’omicidio di un bambino, avvenuto quando la donna, allora molto piccola, viveva in Italia. “In tanti anni non mi era mai capitato di assistere a una scena simile” confessa la Walker a Gerber “La seduta era iniziata nel migliore dei modi: la paziente rispondeva alla terapia ed era collaborativa. Improvvisamente, però, Hanna ha iniziato a urlare”. La dottoressa chiede quindi a Gerber di occuparsi dalla sua paziente che sta andando a Firenze per scoprire se il ricordo è o meno reale. In un primo momento l’addormentatore di bambini si oppone, perché, essendo la donna ormai adulta, non rientra nel tipo di pazienti che lui è solito trattare. Ma poi la Walker lo convince: “Dentro quell’adulta” gli dice “c’è una bambina che ha solo voglia di parlare: qualcuno dovrebbe entrare in contatto con lei e ascoltarla”.
Hanna Hall e Gerber si incontrano quindi a Firenze. Già dal primo momento in cui la vede – Hanna è seduta a metà dell’ultima rampa di scale che portano allo studio dello psicologo, incorniciata dalla luce proveniente dalla finestra, l’aria fragile di una bambina con le sembianze di un’adulta – lo psicologo si trova inspiegabilmente attratto da lei, attanagliato dalla curiosità, incapace di distogliere lo sguardo dalla donna. Hanna è convinta di essere lei stessa l’assassina del bambino il cui omicidio rivede sotto ipnosi. Ma, anche se si dichiara colpevole, in realtà l’unica cosa che ricorda dell’ipotetico omicidio è il nome del bambino, Ado: “La notte dell’incendio” spiega a Gerber con parole bizzarre “mamma mi ha fatto bere l’acqua della dimenticanza, per questo ho scordato tutto”. Poi però aggiunge di sapere che Ado si trova ancora sepolto accanto al casale in cui è morto, che si trova da qualche parte in Toscana.
Certo, le parole di Hanna sembrano le farneticazioni di una pazza. “Quando Ado veniva a trovarmi di notte, nella casa delle voci, si nascondeva sempre sotto il mio letto.. Ma non è stato lui a chiamarmi per nome quella volta… Sono stati gli estranei” racconta allo psicologo, e conclude “Gli estranei sono il pericolo”. Eppure, nonostante cerchi di appoggiarsi alla propria razionalità, Gerber è turbato dalle parole della paziente. Perché in qualche modo risvegliano alla mente del dottore il ricordo di fatti inquietanti vissuti da lui stesso da bambino. Forse, suppone il dottore, tutti da bambini hanno avuto esperienze simili, apparentemente inspiegabili, ma crescendo tali ricordi si tendono a dimenticare o razionalizzare. Peraltro, la mente dei bambini è plastica: possono creare falsi ricordi e poi convincersi di averli realmente vissuti. Ma Hanna su tali fatti ha una spiegazione diversa: “e se nei primissimi anni delle nostre vite avessimo davvero la capacità di guardare oltre la realtà, di interagire con mondi invisibili, e poi invece perdessimo questa abilità diventando adulti?”
Dopo quel primo, strano, colloquio, Gerber intuisce che non dovrebbe prendere Hanna in terapia. Fra terapista e paziente dovrebbe esserci sempre un completo distacco, “una specie di campo di forza o una barriera invisibile” e invece il dottore sente che con Hanna costruire quella barriera non è possibile. Non soltanto lei ha superato il confine fisico afferrandogli all’improvviso un braccio con la mano, ma in aggiunta lui non è in grado di considerare le sue parole con la dovuta obbiettività. E, come se questo non bastasse, Hanna sembra essere a conoscenza di dettagli della vita del dottore che non avrebbe né dovuto né potuto sapere.
A partire da queste premesse il romanzo prosegue in modo serrato: lo scrittore è molto abile nel rivelare a poco a poco i dettagli che permettono al lettore di addentrarsi nell’enigma. Non c’è sangue, non ci sono serial killer e non ci sono mostri. Eppure, il senso di inquietudine attanaglia da subito il lettore. Se uno degli ingredienti più importanti dell’horror sta nel rivestire oggetti quotidiani e insospettabili con un velo di minaccia, è indubbio che La Casa delle Voci sia un libro horror in cui Carrisi fa un uso magistrale di questo ingrediente. “La pioggia la immalinconisce?” chiede Pietro a Hannah “No mi fa paura”, risponde lei, lasciando il lettore a fare i conti con le proprie angosce.
Il thriller – dice Carrisi in un’intervista – è il racconto del lato oscuro dell’essere umano e il lettore che si accosta a queste pagine sa benissimo che potrebbero fargli da specchio. È questo specchio che genera la paura. E in questo libro in particolare sono gli anfratti e i labirinti della mente umana, la sua imprevedibilità, a generare nel lettore il senso di straniamento. Si è costantemente sulla linea di confine che separa il razionale dall’irrazionale, la sanità dalla pazzia, la spiegazione più rassicurante da quella più temibile.
Un thriller psicologico da non perdere, nell’attesa che ne facciano una trasposizione cinematografica degna de “Il sesto senso”.
Silvia Maina