
Più è profonda la ferita da cui sgorga quest’urgenza, più la necessità di scrivere diventerà chiara con il passare degli anni e si ricercheranno gli strumenti per la parola.
Quasi sempre, questa generica urgenza viene seppellita dai bisogni apparenti e prioritari della vita: studiare, lavorare, farsi una famiglia. L’attività razionale e la pressione sociale prevalgono sul bisogno di esprimersi. Infatti, in tanti arrivano da adulti ai corsi, se non da anziani. Questo fiume carsico della scrittura è dimenticato, coltivato con vergogna, celato ma, prima o poi, torna fuori. Quale che sia l’età dei partecipanti – e nei miei corsi ci sono, da quasi trenta anni, tutte le età – il punto di partenza è simile, la differenza la fa poi la disciplina, l’ossessione, la testardaggine con cui si accetta di lavorare su di sé e sulla pagina.
Come si diventa scrittori?
Di molti si riconosce subito la voce: neanche noi sappiamo bene come si declina la nostra speciale modalità di dire, al principio, ma, anno dopo anno, rinunciando a molto della vita di superficie, si impara a riconoscere il suono che ci abita, a diventare un canale aperto per le storie e per le parole. Per far questo occorre interrompere il rumore esterno e studiare molto e leggere sempre, allenarsi sempre. Scrivere è meditare, è uno stile di vita e un modo di essere: non ha nulla a che fare con l’apparire, le mode, l’autorappresentazione, l’essere o meno un personaggio.
Quindi, alla sua domanda devo rispondere che in giro c’è un sacco di gente che si autorappresenta con la carta stampata ma una ristrettissima minoranza è uno scrittore o una scrittrice, nel senso che pratica ed esiste per questa umile funzione, insomma un artista. Concretamente, chi sente urgenza legge. E poi scrive. E poi rilegge. E poi riscrive.
E, se ha capito che deve studiare, cerca un corso di scrittura, scegliendo bene, perché anche fra i corsi ce ne sono tanti che non si occupano della persona nella sua dimensione completa o che forniscono modelli ristretti, standardizzati.
La caffettiera di carta nasce da quasi tre decenni di lezioni quotidiane, a volte molte ore di lezione al giorno, in contesti molto differenti: dai laboratori privati in librerie, associazioni e biblioteche alla scuola pubblica di ogni grado; dal master universitario che coordino con lo staff de Lalineascritta da quattro anni, SEMA, in collaborazione con Università Suor Orsola Benincasa, dedicato alla scrittura narrativa e drammaturgica e al mestiere editoriale, ai laboratori con pazienti psichiatrici o alle formazioni aziendali nel pubblico come nel privato. Dunque, il mio mestiere, come direbbe Natalia Ginzburg, è la scrittura e la sua trasmissione in ogni ambito e ad ogni tipo di persona.
Questo significa essere in ascolto sempre e modulare strumenti e linguaggi per ciascuno. In fondo, anche scrivere per me ha sempre significato questo: dire l’indicibile e dirlo per ogni orecchio che si avvicina.
Cosa serve per raccontare bene una storia?
Serve innanzitutto avere una storia. Ovvero, avere orecchie aperte e occhi spalancati sui dettagli che rendono l’ordinario straordinario. Vedere che c’è materia, come direbbe Hanif Kureishi, fra i tanti autori citati nella Caffettiera, è il primo passo.
Poi tocca accorgersi di come si modellano i personaggi perché è dai loro conflitti che nasce l’azione. L’azione è il personaggio e il personaggio è l’azione, come scrive e insegna Robert McKee.
Quindi, serve una lingua, serve uno stile. Senza stile, le storie sono tutte uguali e si raccontano, assai simili fra loro, da migliaia di anni. Come dice Borges, ce ne sono quattro e noi su quelle quattro compiamo variazioni. Queste variazioni hanno valore di intrattenimento se non sappiamo scrivere o se ci accontentiamo; fanno invece la differenza se una voce nuova le possiede.
Quindi: personaggi, trama, percezione di svolte e conflitti, storia in tre atti, uso del tempo e tutto l’armamentario che muove ogni storia in ogni lingua dalla notte dei tempi ma, soprattutto, una voce. Ci sono voci diverse per ogni storia e poi una voce che rende lo scrittore o la scrittrice riconoscibili.
Apro una pagina di Cečhov e so sempre che sto leggendo Cečhov, me ne accorgo: torno in una casa che conosco, una casa in mezzo al nulla dove però accade tutto, accade ciò che è spaventoso ed essenziale e che ci rende umani.
Viene prima la passione per la lettura o quella per la scrittura?
La caffettiera di carta inizia per onestà con il racconto del mio rapporto con la lettura, di come Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese, contenuto ne Il mare non bagna Napoli, abbia causato in me il racconto quando avevo dieci anni e di come prima e dopo fossi assetata di ogni lettura disponibile, da Verne a Stevenson, da Conrad a Silone, da Dickens a Dumas. Per molte generazioni, da evi si può dire, la lettura viene prima.
Si legge molto e quindi si scrive.
In anni recenti, negli ultimi due decenni in particolare, ho dovuto fare i conti con il fatto che era più facile, in un mondo di analfabeti funzionali, anche all’interno delle scuole, passare prima dalla scrittura. E quando dico analfabeti, dico persone di ogni età, non solo bambini o giovani che al massimo contavano due o tre libri in lettura l’anno, oppure nessuno. In un libro di alcuni anni fa, Asino chi legge, raccontavo di una classe di scuola media in abbandono scolastico dove nessuno dei tredicenni presenti aveva mai sentito raccontare Cenerentola e nemmeno visto il film Disney.
Quindi, stiamo parlando di una cultura che ha perso ogni sua base e che non riconosce gli originali dalle copie, ha perso anche gli anticorpi per reagire a ogni attacco o inganno, e oggi si vede molto bene.
Tuttavia, se fai scoprire l’atto potente di dirsi a chi pensa di non potersi esprimere, costoro avranno necessità di farlo sempre meglio e per farlo sempre meglio dovranno leggere. Insomma, dalla lettura alla scrittura per migliaia di anni, forse per centinaia di migliaia di anni, e poi dalla scrittura alla lettura in anni recenti.
La questione è nella parola “passione”. Non si trasmette una passione se non la si prova. Non puoi dire a uno: amami, io poi vedo se ti posso amare. Quello se ne andrà. Così capita da tempo nella scuola italiana e in ogni altro ambito.
Una profonda passione personale diventa il trampolino per risvegliare le passioni altrui. È richiesta cura e generosità.
I dati Istat evidenziano come oltre il 60% degli italiani non legga: quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
Le cause sono semplici: si smette di leggere quando una politica culturale intorno a noi desidera con forza che l’intero Paese smetta di pensare, per governarlo con maggiore agilità. Ci sono voluti trenta o quarant’anni per ottenere che, nel tempo di più diffusa scolarizzazione pubblica della Storia umana, ci fosse il più basso numero di lettori.
Cattive politiche scolastiche, la televisione commerciale, la diffusione di strumenti di distrazione di massa, i device usati per controllare, la Rete come strumento di superficie invece che come luogo per approfondire: ecco qua.
Probabilmente in ogni tempo il distacco severo fra chi leggeva con profondità e chi non leggeva a affatto è stato più ampio che nel nostro e la cultura molto più ristretta nella diffusione ma quel che oggi diffondiamo non ha niente a che vedere con la cultura.
Dunque, io pratico una soluzione personale: insegno ogni giorno da trent’anni cosa significa leggere veramente. La caffettiera di carta è una piccola dimostrazione dell’ampliamento di letture che un corsista incontra e dico piccola, perché è già un libro lungo e non si poteva metterci proprio tutto.
Da quando, negli ultimi dieci anni, è entrato a far parte del nostro gruppo di docenti uno scrittore del peso e dell’importanza di Giuseppe Montesano, che ha scritto alcuni capolavori assoluti da Lettori selvaggi a Baudelaire è vivo, gli stimoli si sono ulteriormente moltiplicati. La lettura si passa per contagio: è trasgressione, è snudamento, è rischio. Bisogna imparare a rischiare. E questo nella società delle finte (e allarmanti) sicurezze non è un valore diffuso. Bisogna proseguire in questa rivoluzione, senza mai fermarsi.
È possibile educare alla lettura? Se sì, come?
Leggere ad alta voce, leggere bene, sin dalla più tenera infanzia stabilisce un legame potente con i libri. Questo è il primo gesto di genitori e insegnati in seguito. Avere libri in casa è uno stimolo. Non costringere, non chiedere, non dire ai ragazzi che questo è per loro utile, corretto e che li salverà. Meglio dire che è vietato, che potrebbe traviarli, che potrebbe loro rovinare la vita molto più delle droghe…
L’ho scritto di recente anche in un libro destinato ai ragazzi ma che hanno molto letto anche gli adulti, Non leggerai (Giunti), dove si prefigurava quel che sarebbe accaduto con la DAD un anno prima del disastro che abitiamo. E lo sperimento tutti i giorni: saper dire a ciascuno cosa leggere e quando sta a chi di noi è un lettore forte o più che forte, ma il suggerimento deve essere una trappola, una scoperta, una lampada da strofinare. Altrimenti, è un obbligo come un altro. E dagli obblighi si fugge, a gambe levate.
Quali consigli si sente di dare ad un aspirante scrittore?
Ne do tanti in questo libro, ne do tutti i giorni nei miei corsi. Evitate di correre dietro alla pubblicazione. È inutile, si finisce nelle mani sbagliate, si contribuisce all’editoria a pagamento, si arriva a un’esposizione cui si è impreparati. Ho impiegato dieci anni, fra i venti e i trenta, a trovare un editore e nel frattempo ho scritto e riscritto almeno quattro libri. Quando ho esordito avevo già il materiale degli anni a venire.
Non si deve correre e si deve lavorare molto e in silenzio.
Bene un corso di scrittura, ovviamente, ma anche un corso che formi al mestiere editoriale, alla drammaturgia, alla sceneggiatura, come nello staff de Lalineascritta ne facciamo, e persino un corso sulle arti visive. Per scrivere davvero bisogna conoscere profondamente i meccanismi della creazione in ogni ambito e anche l’ambiente in cui si aspetta tanto di entrare… È deludente, meglio togliersi presto di testa le illusioni e lavorare sulla nostra creazione, sul potenziamento di chi siamo, della luce che possiamo emanare.