
Quali tappe hanno segnato l’esodo novecentesco dalla città lagunare?
Il termine “esodo” fa la sua comparsa nei documenti ufficiali negli anni ‘50, ad indicare il massiccio spopolamento della Venezia insulare, i cui abitanti si riversano nella vicina terraferma, appena edificata allo scopo di accoglierli. In un tempo storicamente molto breve, appena settant’anni, Venezia perde così oltre i due terzi della propria popolazione, ritrovandosi oggi con poco più di 50.000 abitanti, prevalentemente anziani. Una soglia talmente bassa da mettere definitivamente in crisi la capacità di riproduzione e la vitalità socio-economica della città, rendendola di fatto un quartiere marginale della conurbazione comunale. L’esodo è stato quindi un processo collettivo di vasta portata, che ha interessato però in modo particolare alcuni strati della popolazione veneziana: in primis le classi medie e popolari, di operai e impiegati, i giovani sotto i 45 anni e i residenti in case in affitto. Esso si è dispiegato in questo arco di tempo con sfumature diverse, che nel libro raggruppo sostanzialmente in cinque fasi, iniziando dalla prima metà del secolo, che sull’onda lunga delle trasformazioni ottocentesche vede il ricollocamento dei ceti popolari ai margini della città insulare, mentre si comincia a promuovere e organizzare logisticamente il loro trasferimento verso la terraferma. Un movimento che si consolida nell’immediato dopoguerra, quando l’esodo raggiunge il suo acme, con la fuoriuscita di 5.000 persone in media ogni anno, spinte verso Mestre dal drammatico degrado edilizio e dal cronico sovraffollamento di cui soffre la città storica. Vengono poi gli anni ‘70 e ‘80, che seguono alla terribile Acqua Granda del 1966, segnati dall’applicazione della Legge Speciale, capace di promuovere una sequenza di restauri che rivalorizzeranno gli immobili storici, spesso inducendo però sfratti e conversioni degli spazi a più lucrative funzioni terziarie o a più elevate fasce d’utenza. In seguito, negli anni ‘90, il neoliberismo troverà anche in Laguna una sua peculiare applicazione, favorendo il consolidamento dell’economia in senso sempre più terziario e la trasformazione della città, massimo valore d’uso, nel più redditizio bene di scambio. Un contesto in cui le abitazioni, grazie all’esplosione della ricettività extra-alberghiera, smetteranno di ospitare i residenti per rivolgersi a nuove categorie di utilizzatori. Fino ad arrivare agli anni più recenti, in cui il turismo entra in diretta competizione con l’abitabilità della città, continuando ad alimentare un esodo che non dà segni di tregua, con quasi 1000 abitanti persi ancora ogni anno.
Quali sono le ragioni profonde di tale fenomeno?
Come ogni fenomeno complesso e collettivo, anche l’esodo non ha una causa univoca. Ogni persona che lascia la città d’acqua ha infatti le proprie motivazioni, una storia personale densa di sfumature, che non può essere semplificata. Eppure sembra esistere un minimo comun denominatore che attraversa le esperienze dei singoli, ed è la ricerca di un alloggio di qualità soddisfacente a un prezzo accessibile, una possibilità che la città antica non sembrava più in grado di offrire. Come dimostrano i dati in nostro possesso, non sono stati infatti né il lavoro né l’aspirazione a un luogo di vita più “moderno”, o “normale”, a spingere i veneziani a migrare, ma il problema della casa. Per una serie di ragioni che esploro nel libro, le abitazioni sono diventate negli anni sempre più costose e sempre meno adeguate ad ospitare la vita delle famiglie, costringendo chi non aveva accesso ad una proprietà a trasferirsi. Sono stati quindi l’incapacità e la mancata volontà di dare una risposta efficace al problema della casa e dell’abitare in senso lato a determinare l’esodo, rivelando il carente funzionamento degli apparati politici e amministrativi, nazionali e locali, che non hanno saputo vedere e affrontare un’istanza che la popolazione sentiva come particolarmente gravosa già da molto tempo.
Quali responsabilità hanno le classi dirigenti nella cosiddetta “bonifica umana” di Venezia?
Le responsabilità delle classi dirigenti, di ogni grado e colore, nello spopolamento di Venezia sono inequivocabili. Ciò che lascia stupefatti è forse proprio l’omogeneità del loro operato che, al di là di quali fossero le bandiere ideologiche delle singole amministrazioni, ha finito per produrre sempre lo stesso risultato. A partire dall’incapacità strutturale di ideare una visione della città che non fosse una semplice rivisitazione del modello volpiano di Grande Venezia. Si può infatti dire che l’ultima idea di città è stata quella elaborata ancora all’inizio del Novecento da Foscari, Volpi e Cini, esponenti di spicco del fascismo nazionale con cui la nostra memoria non ha mai fatto davvero i conti. Questo modello prevedeva una nuova gerarchia delle funzioni urbane, con la progressiva assegnazione ad ogni parte del territorio comunale di usi specifici ed esclusivi e la divisione della popolazione in aree socialmente omogenee. Le industrie e il proletariato urbano andavano cioè collocati in terraferma, consentendo a Venezia di «diventare moderna senza deturparsi», mentre il centro storico avrebbe dovuto essere destinato a ospitare il ceto dirigenziale, attività terziarie di pregio, un centro studi internazionale e il turismo di alto bordo, che pernottava al Lido, cui veniva invece assegnata in via esclusiva la funzione ricettiva. Venezia doveva così «restare una limpida gemma incastonata in un cerchio d’oro», e pertanto occorreva «sfollare, per immediata necessità materiale e morale», liberandola dalla «turba di accattoni», ovvero da quel «quinto stato, innumerevole e minaccioso» che secondo le classi dirigenti ne comprometteva il decoro. Quella “bonifica umana” che Cini promuoveva nel 1935 si è quindi compiuta in maniera esemplare nel corso dei decenni seguenti, facendo sì che la funzione residenziale venisse progressivamente dislocata in terraferma, destinando la Venezia storica a nuovi usi e nuovi fruitori. Con la differenza che il quadro odierno non corrisponde pienamente a quanto immaginato allora: la produzione industriale e manifatturiera di Porto Marghera è in crisi ormai dagli anni ‘70 e l’economia si è andata focalizzando sul turismo. Il progetto di fare della città d’acqua un centro direzionale non ha mai attecchito, così come non sono decollate le ipotesi di trasformarla in un pregiato centro studi o in una capitale del lavoro immateriale, sovrastate da una macchina turistica i cui margini di profitto tolgono ossigeno ad ogni altro orizzonte. Quello che rimane, dopo più di un secolo di politiche orientate all’obbiettivo sbagliato, è perciò di fatto una fabbrica post-fordista a cielo aperto per il turismo di massa, situata in un ecosistema irreparabilmente danneggiato da uno sfruttamento eccessivo e abitata da una collettività logorata dallo spopolamento, costretta a lottare per difendere nicchie di vivibilità in un ambiente che le diviene sempre più ostile.
Quale futuro, a Suo avviso, per Venezia?
È proprio con la percezione che i veneziani hanno del futuro che si chiude il mio libro, perché il modo in cui i gruppi umani si proiettano nell’avvenire è fondamentale nel sagomare anche il loro presente e nell’orientarne le pratiche. In realtà, in Laguna domina oggi una profonda rassegnazione a un destino di decadenza che pare incontrovertibile, esito ultimo di una trasformazione che, per quanto avvenuta “poco a poco, un po’ alla volta” (o forse proprio per questo), ha permeato in profondità il tessuto socio-economico urbano. Personalmente, non condivido la visione di un destino già scritto per un luogo così denso di storia e di cultura, che molte volte ha dovuto reinventarsi completamente per adattarsi a nuove sfide. Credo però che il tempo stringa e che Venezia abbia urgentemente bisogno di una radicale inversione di prospettive e di strumenti operativi. Ciò implica un completo rovesciamento di priorità: dal far tornare i turisti e le grandi navi, come invocavano il sindaco e le categorie all’indomani dell’epidemia di coronavirus, al far tornare gli abitanti nella città d’acqua, riattivando l’edilizia popolare e a canone concordato, potenziando i servizi pubblici e sociali, limitando drasticamente lo sfruttamento turistico, proteggendo l’ecosistema lagunare. Solo una collettività numerosa ed eterogenea, popolata anche da quegli immigrati che nascondiamo nelle cucine e nei retro-bottega e dai loro figli, potrebbe infatti riequilibrare la composizione sociale della città, ridandole linfa vitale e permettendole di resistere alla speculazione selvaggia di chi utilizza la Laguna come un bancomat. Una eterogeneità che deve tornare a permeare anche la sfera economica, ridando spazio a quelle attività produttive, materiali e artigianali che sono state via via espulse dal trionfo del terziario. Se razionalmente riconosco che si tratta di una sfida ardua, dato il recente successo elettorale di un sindaco che incarna l’esatto opposto di ciò che andrebbe fatto per salvare Venezia, continuo in ogni caso a sperare che gli abitanti rimasti riescano ad organizzarsi e a far sentire la loro voce. Il mio lavoro ha infatti anche, se non soprattutto, questo obiettivo: fornire loro uno strumento con cui rileggere il proprio passato e tornare di conseguenza ad immaginare come possibile un futuro diverso.
Clara Zanardi, nata a Belluno nel 1988, è antropologa urbana e attivista per una decrescita turistica. Laureata in Scienze filosofiche, ha conseguito nel 2020 un dottorato di ricerca in Storia delle società e delle istituzioni presso l’Università di Trieste. Vive e lavora a Venezia, dove si occupa di turismo, diseguaglianze, processi di trasformazione urbana. È autrice di La bonifica umana. Venezia dall’esodo al turismo (Unicopli 2020) e di Sul filo della presenza. Ernesto De Martino fra filosofia e antropologia (Unicopli 2011).