“La Biblioteca di Alessandria. Storia di un paradiso perduto” di Virgilio Costa e Monica Berti

Prof. Virgilio Costa, Lei è autore con Monica Berti del libro La Biblioteca di Alessandria. Storia di un paradiso perduto edito da TORED: quando e come nacque la Biblioteca?
La Biblioteca di Alessandria. Storia di un paradiso perduto, Virgilio Costa, Monica BertiLa Biblioteca di Alessandria nacque agli inizi del III secolo a.C. per iniziativa di Tolemeo figlio di Lago, primo sovrano della dinastia greca d’Egitto con l’epiteto ufficiale di Soter (“salvatore”). Tolemeo, uno degli amici e collaboratori più stretti di Alessandro Magno, dopo la morte di quest’ultimo e lo smembramento del suo vastissimo impero tra i vari diadochi (“successori”) si era impadronito dell’Egitto, trasferendone la capitale da Menfi ad Alessandria e assumendo il titolo regale nel 305. Per far accettare il controllo macedone alla popolazione indigena, fiera delle proprie antichissime tradizioni religiose e culturali, egli promosse una serie di iniziative dall’alto valore simbolico, quali l’assimilazione tra Zeus e Serapis) e l’istituzione ad Alessandria del Museo: un circolo dedicato al culto delle Muse – ne esistevano moltissimi in Grecia – ma anche uno straordinario centro di produzione e trasmissione del sapere.

In realtà, nella cosiddetta Lettera di Aristea a Filocrate (un pamphlet composto nei circoli giudaici alessandrini tra II e I secolo a.C.) si legge che la decisione di raccogliere ad Alessandria tutti i libri esistenti sarebbe stata presa da Tolemeo II Filadelfo, che regnò dal 282 al 246 a.C.; sappiamo però che il Filadelfo, subito dopo essere salito al trono, condannò all’esilio l’esecutore del progetto, il peripatetico Demetrio Falereo (su cui torneremo), per aver tentato di influenzare la successione dinastica in favore di un altro figlio del Soter. A Busiride, nell’Alto Egitto, Demetrio morì poco dopo per il morso (accidentale?) di un aspide.

Le biblioteche, ad Alessandria, in realtà erano due.
A dire il vero, ad Alessandria fiorirono nel corso del tempo varie biblioteche, ma le più importanti furono certamente due, la “Grande Biblioteca” e la biblioteca del Serapeo. La prima era accessibile solo agli studiosi del Museo e andò distrutta, come vedremo, nel 48 a.C.; vita molto più lunga ebbe invece la biblioteca del Serapeo, detta anche “biblioteca figlia”, come attesta lo scrittore Epifanio di Salamina (IV secolo d.C.). Purtroppo ne ignoriamo la data di istituzione, anche se gli scavi archeologici condotti nell’area santuariale paiono indicare che il tempio di Serapis fu innalzato durante il regno di Tolemeo III Euergetes (246-221 a.C.). Tuttavia un frammento di Callimaco di Cirene (Iamb. 191, 9-11 Pf.) attesta che il famigerato Evemero di Messene (330-250 circa a.C.) avrebbe scritto i suoi empi libri “nel santuario di fronte alle mura”, espressione che sembra riferirsi proprio al Serapeo. La biblioteca figlia venne quasi certamente distrutta nel 391, quando un gruppo di fanatici guidati dal patriarca Teofilo saccheggiò il Mitreo e abbatté la grande statua di Zeus/Serapis.

Dov’erano custoditi i rotoli?
Come ha opportunamente sottolineato Monica Berti, la prima accezione del termine greco bibliotheke non è “biblioteca”, ma “scaffale”. A ciò allude anche il titolo scelto da Diodoro Siculo – Bibliotheke historike – per designare una storia universale assemblata con le migliori trattazioni disponibili per ciascuna epoca, così che il possessore della raccolta diodorea potesse idealmente disporre, in forma ragionata e ordinata, di un intero scaffale di compilazioni storiche. Naturalmente, il vocabolo bibliotheke poteva anche indicare, per estensione, il complesso delle collezioni di una vera biblioteca oppure l’edificio che le ospitava. Ciò non implica necessariamente che i libri della Biblioteca di Alessandria fossero allineati in grandi sale di consultazione, come nelle biblioteche moderne (o come si vede all’inizio del film Alexander di Oliver Stone, in cui l’ormai anziano Tolemeo Soter, interpretato da Anthony Hopkins, detta le proprie memorie a uno scriba aggirandosi tra le pareti colme di papiri del Museo). Del resto, anche in tanti dipartimenti universitari italiani i volumi non sono allocati in un ambiente centralizzato, ma negli studi dei singoli docenti. Riassumendo, è probabile che nel Museo i libri fossero posizionati in piccoli ambienti – magari anche nelle stanze private degli studiosi – in modo da poter essere più agevolmente consultati, spostati e catalogati; questo, tra l’altro, spiegherebbe perché Strabone, il quale visitò Alessandria intorno al 15 a.C., menzioni abbastanza dettagliatamente il Museo (Geogr. 17, 1, 8: «ha una passeggiata, un’esedra e una grande sala dove gli studiosi suoi membri mangiano in comune»), ma non la Grande biblioteca.

Come si svolgeva la vita all’interno del Museo?
Il Museo era un synodos (l’espressione è ancora di Strabone), cioè una confraternita di eruditi, cooptati direttamente dal re dalle più diverse parti del mondo, i quali per le loro attività scientifiche, ma anche per il culto delle Muse e le necessità personali, disponevano di una cassa comune (chremata koina). Alla loro testa stava un sacerdote (hiereus) o “bibliotecario capo”, anch’esso di nomina reale, il quale fra le altre cose sovrintendeva all’educazione dei figli del re. I membri del Museo prendevano i pasti in comune, risiedevano all’interno del Museo ed essendo esentati da qualunque preoccupazione di carattere materiale potevano dedicare tutte le proprie energie allo studio e all’avanzamento del sapere. Per tale condizione privilegiata venivano talora derisi: si ricordi, a tal proposito, i famosi versi del poeta Timone di Fliunte tramandati da Ateneo: «Nell’Egitto popoloso sono allevati molti eruditi dietro a palizzate di libri, e si accapigliano all’infinito nella gabbia delle Muse» (Ath., Deipn. 1, 22d)

In che modo Aristotele può considerarsi l’ispiratore delle collezioni librarie tolemaiche?
Lo scrittore egiziano Ateneo di Naucrati elenca Aristotele di Stagira tra i primissimi possessori di una biblioteca privata; più antichi di lui sarebbero stati solo i tiranni Pisistrato di Atene e Policrate di Samo (seconda metà del VI secolo a.C.), il tragediografo Euripide, l’arconte eponimo ateniese del 403/2 Euclide e un altrimenti sconosciuto Nicocrate di Cipro. Sulla realtà di tali collezioni è lecito nutrire fortissimi dubbi. Il caso di Aristotele è invece diverso, non solo perché il filosofo, com’è noto, scrisse moltissimi libri sia per il pubblico “esterno” sia per i propri allievi, ma anche perché il Peripato fu esso stesso una fucina di libri, come le 158 Costituzioni (Politeiai) del mondo greco che gli allievi dello Stagirita avrebbero compilato in vista della composizione della Politica.

Ma il contributo aristotelico alla nascita della Biblioteca di Alessandria sta soprattutto nel fatto che l’impostazione degli studi condotti nel Liceo era ispirata ai concetti di universalità e unitarietà del sapere: e sono proprio queste due linee guida ad aver verosimilmente fatto nascere in Tolemeo Soter (che in gioventù, ricordiamolo, aveva ascoltato le lezioni di Aristotele ad Alessandro nella quiete del Ninfeo macedone di Mieza) il desiderio di raccogliere ad Alessandria non un corpus librario di inedita estensione, bensì – come recita la Lettera di Aristea (cap. 9) – “tutti i libri del mondo”. Per questa medesima ragione Strabone scrive che il filosofo «fu il primo a collezionare libri e a insegnare ai re d’Egitto come si organizza una biblioteca» (Geogr. 13, 1, 54). Non bisogna tuttavia dimenticare che il Peripato fornì a Tolemeo I non solo il progetto di fondazione della Biblioteca di Alessandria, ma anche il suo grande architetto ed esecutore: Demetrio Falereo, amico e allievo di Teofrasto (succeduto allo Stagirita alla guida del Liceo) nonché autore in proprio di un gran numero di opere di filosofia, storia, retorica, politica e letteratura, il quale prima di approdare in Egitto aveva governato Atene per ben undici anni, dal 417 al 407 a.C., per conto di Cassandro figlio di Antipatro.

Quali sono stati i maggiori studiosi ed eruditi attivi nella capitale del regno tolemaico? E in che modo nella Biblioteca di Alessandria fiorirono gli studi scientifici e filologici?
In età ellenistica Alessandria prese il posto di Atene quale massimo centro culturale del mondo greco; sarebbe perciò impossibile elencare tutti gli eruditi di lingua e formazione greca che vi soggiornarono ed operarono. Tra i nomi più ragguardevoli vi sono certamente Callimaco di Cirene, autore di giambi, inni ed epigrammi ma anche di monumentali Tavole (gr. Pìnakes) di quanti si sono distinti in ogni branca della cultura e di ciò che hanno scritto, in 120 libri; i poeti Filita di Cos, Alessandro Etolo e Licofrone di Calcide; i tre massimi filologi dell’età ellenistica, Zenodoto di Efeso (primo direttore della Biblioteca di Alessandria e primo editore dei poemi omerici), Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia; il rinnovatore della poesia epica, Apollonio Rodio; i grandi matematici Euclide, Aristarco di Samo e Ipparco di Nicea; il poeta, filologo, geografo, matematico e astronomo Eratostene di Cirene; l’inventore della pneumatica Ctesibio; i medici Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Ceo; gli storici e antiquari Istro “il Callimacheo” ed Ermippo di Smirna etc.

Questo scarno e molto incompleto elenco ci dà un’idea della varietà e vastità degli studi condotti nel Museo, e al contempo mostra la grande libertà di ricerca concessa dai Tolemei ai propri protetti, perché se alcuni filoni di indagine – come quello geografico – potevano avere ricadute pratiche sia dal punto di vista amministrativo sia da quello militare (si pensi alla precisissima misurazione della circonferenza della terra compiuta da Eratostene di Cirene), altri avevano come fine “soltanto” la conservazione della tradizione letteraria arcaica e classica e la ripulitura dei testi dalle innumerevoli mende che li deformavano. A tale riguardo è necessario ribadire che senza gli sforzi appassionati dei filologi alessandrini oggi non possederemmo la maggior parte della produzione greca pre-ellenistica. L’immenso sforzo di catalogazione, recupero e trasmissione dei “classici” fu favorito anche dall’ambiente fisico in cui i dotti del Museo lavoravano, progettato per favorire gli scambi interpersonali e la comunicazione dei risultati raggiunti, proprio come nelle università moderne, specialmente quelle organizzate sul modello anglosassone del campus.

Sfortunatamente, il Museo di Alessandria non ebbe tempo sufficiente per influenzare efficacemente gli altri grandi luoghi della cultura antica: nel 145 a.C., infatti, Tolemeo VII Euergetes II, un discendente dei Tolemei che aveva conquistato il trono d’Egitto con la violenza, suscitando una diffusa avversione nei propri confronti da parte della popolazione di Alessandria e specialmente dell’intellettualità locale, uccise o mandò in esilio numerosissimi filologi, filosofi, musicisti, pittori, medici e matematici (tra i quali quasi certamente Aristarco di Samo), e affidò la direzione del Museo a uno dei suoi lancieri, Kydas, il cui nome ci è noto tramite un papiro (POxy X 1241) contenente l’elenco dei direttori della grande Biblioteca.

In verità, la crisi del 145 a.C. non segnò la fine del Museo, che trascorso qualche tempo ricominciò la propria attività, almeno formalmente; come infatti abbiamo visto, Strabone ne parla come di un’istituzione perfettamente funzionante, salvo il fatto che lo hiereus, un tempo designato dai Tolemei, ora è nominato dall’imperatore. Un papiro ossirinchita databile al 220 d.C. mostra che ancora in tale data i dotti alessandrini godevano del vitto a spese pubbliche e dell’ateleia, cioè dell’esenzione dalle tasse; lentamente, tuttavia, la cooptazione nel Museo si trasformò in un mero titolo onorifico, senza alcun obbligo di residenza ad Alessandria né di partecipazione ad attività di alcun genere.

Come finì la grande biblioteca?
Nel 51 a.C., alla morte di Tolemeo XII Aulete, vennero per testamento designati suoi eredi la diciottenne figlia Cleopatra VII e il figlio Tolemeo XIII, che avendo appena dieci fu affidato alla tutela dell’eunuco Potino, del capo dell’esercito Achillas e del retore Teodoto. Nel 48 Pompeo Magno, dopo essere stato sconfitto da Cesare a Farsalo, fuggì in Egitto dove sperava di trovare aiuti per proseguire la guerra; ma giunto a Pelusio, com’è noto, fu assassinato dai tutori del regno. Cesare, entrato agli inizi di ottobre ad Alessandria con quattromila uomini, si trovò quasi subito assediato dall’esercito egiziano nel palazzo imperiale. Mentre gli scontri infuriavano nell’area portuale, prospiciente al palazzo, il dittatore diede ordine di appiccare il fuoco a una cinquantina di navi nemiche appena tornate in patria; sperava con ciò di avere il tempo di dirigersi con Cleopatra e i suoi uomini sull’isola di Faro, dove lo attendevano i rinforzi. Quello che accadde dopo non è chiaro, perché né dalle parole di Cesare stesso, che abbiamo appena riassunto (Bell. civ. 3, 106-107), né da quelle dell’ignoto autore del Bellum Alexandrinum (1, 3) risulta chiaramente che l’incendio delle navi si estese ai magazzini portuali. Il primo a riferire di un rogo al porto e negli edifici attigui è Floro (2, 13), autore di un’epitome di Tito Livio, ma siccome ignoriamo l’esatta ubicazione del Museo (sappiamo solo che sorgeva nel Bruchion, il quartiere adiacente al palazzo imperiale), non possiamo affermare con sicurezza che le fiamme interessarono anche la grande Biblioteca.

A complicare il quadro è un passo del De tranquillitate animi di Seneca (9, 5), che recita: «Quarantamila libri bruciarono ad Alessandria. Un altro li lodi pure quale splendida testimonianza dell’opulenza regia: così fa Tito Livio, il quale ne parla come di un prodotto eccelso della raffinatezza e della premura dei re. Quella non fu raffinatezza o premura, ma una lussuria da eruditi, e invero neppure una lussuria, perché furono raccolti non per essere studiati ma esibiti (…)». Se si leggono serenamente queste parole appare evidente che, secondo il filosofo spagnolo, nel 48 andò distrutta l’intera collezione libraria dei Tolemei – la “splendida testimonianza dell’opulenza regia” secondo Livio – e non un gruppo per quanto ingente di rotoli destinati all’esportazione e perciò stivati nei magazzini del porto, come alcuni hanno ipotizzato.

Certo, i quarantamila libri di Seneca, quale cifra complessiva delle collezioni tolemaiche, sono ben lontani dai duecentomila rotoli della Lettera di Aristea, dai quattrocentomila di Orosio o dagli addirittura settecentomila rotoli di Aulo Gellio: ma esiste un modo per farci un’idea attendibile del totale dei libri della grande Biblioteca? Un autorevole papirologo statunitense, Roger Bagnall, ha stimato che l’intero corpus superstite della letteratura greca dall’età arcaica agli inizi del III secolo a.C. consta di 3.773.000 parole, corrispondenti a 12.600 pagine di 300 parole ciascuna: vale a dire appena 251 rotoli “lunghi” di 15.000 parole o 377 di 10.000 parole. Naturalmente occorre tener presente che le opere pervenuteci in tutto o in parte costituiscono una piccola frazione di ciò che fu effettivamente pubblicato nell’antichità, ma anche moltiplicando di quaranta volte i numeri suddetti (il rapporto di 40:1 fra opere perdute e superstiti è stato persuasivamente stimato, per la sola storiografi a greca d’età classica ed ellenistica, da Hermann Strasburger) si raggiunge un totale di 10.040 o 15.080 rotoli o “libri”, cioè poco più di un quarto della cifra di Seneca.

Per sintetizzare, una tradizione molto antica, probabilmente risalente a Livio e utilizzata anche da Seneca e da Plutarco, dava per certa la distruzione della biblioteca di Alessandria, valutando in 40.000 i rotoli andati distrutti: cifra non troppo lontana, sia pure per eccesso, dalle plausibili stime formulate dalla critica recente.

Che dopo il 48 a.C. la Grande Biblioteca sia stata ricostituita è più che probabile, anche se naturalmente molte opere non poterono essere ripristinate per mancanza di copie. Un ultimo, durissimo colpo alla raccolta tolemaica venne inferta nel 273 d.C. dalla distruzione del quartiere del Bruchion nel corso degli scontri tra l’esercito di Aureliano e un ribelle alessandrino di nome Firmus. È invece pura invenzione il racconto della distruzione della Biblioteca di Alessandria nel 640 d.C., per volere del califfo ‘Omar ibn al-Khatt āb, contenuto all’interno della Storia delle dinastie di Abū al-Faraj (1226-1289), meglio noto in Occidente come bar Hebraeus.

Quale mito è sorto e si è sviluppato intorno alla biblioteca di Alessandria?
La ragione della fama imperitura della Biblioteca di Alessandria è duplice. Da un lato, essa è dovuta al fatto che ad Alessandria, nel giro di pochi decenni, venne raccolto per poi andare irrimediabilmente perduto “tutto il sapere del mondo”, circostanza che ai Cristiani delle età successive non poteva non ricordare la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso o un altro mito biblico sul rapporto tra natura umana e conoscenza, quello della Torre di Babele. Dall’altro, esso coincide con l’esistenza stessa de Museo, perché la vera grandezza di Tolemeo Soter e di Demetrio Falereo consiste nell’aver concepito la biblioteca non come un archivio polveroso, ma come uno strumento al servizio d’una comunità di studiosi impegnata a generare nuova conoscenza. A far risuonare il nome della biblioteca di Alessandria presso i posteri, difatti, non furono i suoi exploits numerici (citati dalle nostre fonti quasi solo a margine del tema della distruzione), quanto i grandi personaggi che ne percorsero le sale. Non a caso, nessun’altra biblioteca coeva o posteriore – neppure quelle di Pergamo ed Efeso – entrò mai nell’immaginario collettivo, perché nessuna di loro ospitò una comunità scientifica paragonabile a quella alessandrina.

Nel libro Lei ricorda come l’obiettivo dei Lagidi di raccogliere tutti i libri del mondo, che fu all’origine della Biblioteca, sia quanto mai moderno, ispirando alcune grandi collezioni librarie digitali contemporanee, come Google Books o Europeana: in che modo il modello della biblioteca alessandrina può contribuire a definire il problema dell’organizzazione e della gestione della conoscenza, imposto dai nuovi strumenti di archiviazione del sapere?
I creatori delle moderne Million Book Libraries hanno un problema in comune con gli ideatori della Biblioteca di Alessandria: escogitare dei sistemi di catalogazione che ne rendano la fruizione agevole e precisa. Il web, infatti, è un gigantesco archivio in continua evoluzione, e così com’è facile depositare al suo interno una grande quantità di dati in un ridotto arco di tempo, è altrettanto semplice e rapido perdere molte di queste informazioni a causa delle dimensioni incontrollabili della rete e delle limitate capacità umane di assorbimento dei suoi contenuti. Dunque, così come nel Museo di Alessandria Callimaco e i suoi allievi si posero il problema di selezionare e catalogare i rotoli di papiro acquistati dai Tolemei e le opere in essi contenute, anche oggi si ripropone il problema della gestione e catalogazione dei testi giornalmente immessi nelle principali biblioteche digitali. In tal senso, la Digital Philology – come giustamente notato da Monica Berti – non è che una forma aggiornata della filologia tradizionale, trovandosi anch’essa a dover trovare nuove soluzioni a vecchi problemi, quali l’emendamento dei testi, la riproduzione digitale dei manoscritti, la trascrizione dei testi a stampa, lo studio delle relazioni tra il documento e le sue rappresentazioni, etc.

Virgilio Costa è professore associato di Storia greca presso l’Università di Roma Tor Vergata

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