
È sufficiente, l’attenzione a Gesù, per consegnare l’amato cantautore a una fede positiva? Persino la domanda rischia di suonare stonata, o insignificante. Non è un esercizio inutile, peraltro, la verifica di quanto il confronto col Cristo l’abbia segnato nel profondo: tanto più che il ricorso collettivo alle canzoni di Fabrizio è stato esercizio frequente nei gruppi giovanili del postconcilio, e ancor oggi risulta una delle rare memorie condivise dalla generazione sessantottina con gli attuali ventenni. Non è serio, ovviamente, il tentativo di battezzare il Nostro, iscrivendolo arbitrariamente alle fila della “grande chiesa – per dirla con Jovanotti – che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”: il quale, certo, non si disse mai ateo, ma non credeva nel Dio delle chiese. Peraltro, nessun altro autore di canzoni del Novecento italiano ha toccato così profondamente il problema di Dio, e del Dio di Gesù Cristo. Una contraddizione solo apparente, agli occhi di chi l’abbia seguito dagli esordi, cogliendone il non comune approccio etico e la passione estrema per i reietti dalla società.
Il fatto è che, al di là delle sue stesse intenzioni, De André ha rivestito una diretta influenza teologica sulla cultura italiana dell’ultimo quarantennio. Il riferimento va oltre a quello, ovvio, di quell’autentico capolavoro che resta La Buona Novella, emblema di un’inquietudine generazionale alla ricerca delle ragioni di una ribellione interiore poetica e radicale, per allargarsi a tante canzoni disseminate di orme evangeliche, che ci consegnano una galleria inedita e memorabile di variopinti santi peccatori. Prostitute e assassini, pescatori e musicisti, bevitori e bombaroli, nativi americani e zingari, tutte anime salve – appunto – in quanto perdute e rifiutate dal potere, esistenze riscattate dall’unica religione da lui coerentemente praticata, quella dell’umana compagnia e della solidarietà con gli esclusi. Più che ricorrere alla classica tesi rahneriana del cristianesimo anonimo, lo si direbbe un esploratore del significato della vita e del Dio nascosto, che ai suoi occhi non era il Dio canonico ed ecclesiastico, ma una presenza misteriosa che soffia un’anima nel mondo e cui ci si rivolge quando si ama intensamente i giorni spettanti all’umanità, e si vuole penetrare nel senso delle cose e del tempo che passa.
Quali tracce bibliche è possibile rinvenire nella produzione musicale e poetica del cantautore genovese?
Già nel suo primo album, già ricordato, compare un brano dedicato al figlio di Dio dei cristiani, Si chiamava Gesù; mentre quello d’avvio, dicevamo, è una preghiera rivolta al Dio di misericordia affinché accolga in cielo l’amico suicida (Preghiera in gennaio), e c’è pure uno Spiritual. In Si chiamava Gesù (pezzo poco noto al gran pubblico) Fabrizio esprime le proprie convinzioni al riguardo: l’hanno chiamato Dio, ma era solo un uomo. Eccezionale, ma pur sempre uno come noi: “Non intendo cantare la gloria/ né invocare la grazia e il perdono/ di chi penso non fu altri che un uomo/ come Dio passato alla storia/ ma inumano è pur sempre l’amore/ di chi rantola senza rancore/ perdonando con l’ultima voce/ chi lo uccide fra le braccia d’una croce”. Quello che attira l’attenzione di De André è quindi il Gesù uomo, di cui riconosce e condivide gli ideali e i valori del messaggio sociale, quelli del cristianesimo delle origini, quando non era ancora giunta la chiesa ufficiale a istituzionalizzarli e a disinnescarne la portata rivoluzionaria. Ma c’è parecchio altro nella sua produzione, come cerco di mostrare nel mio libro. Ad esempio, dalla celebre Il pescatore (1970), con molti echi cristologici, a Un blasfemo, presente nell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971); da Suzanne, splendida cover da Leonard Cohen (1974), in cui si adombra la figura evangelica di Maria Maddalena, alla straordinaria Ave Maria in sardo (1981); fino a‘Â çímma (1990), una ricetta tipica ligure che salda misteriosamente terra, mare e cielo, in una preghiera laica che ha la forza primigenia di un rito ancestrale recitato in lingua genovese…
La buona novella rappresenta l’album a più forte ispirazione biblica di De André: come nacque il disco e in che modo esso testimonia la ricerca religiosa di Faber?
«Era ancora il 1969, andammo a Genova per visitarlo e passare insieme un po’ di tempo. Ci disse: “Sto pensando da un bel po’ a un disco sulla vita di Gesù, ma non quella ufficiale […] Sto facendo delle ricerche su testi popolari, canti e altro della tradizione bergamasca […] Cos’altro potrei leggere?”. Fu lì che gli parlammo degli apocrifi. Ne era talmente esaltato che scendemmo, entrammo in una libreria e gliene regalammo una copia. “Così vai avanti nella tua ricerca”, fu la nostra battuta». La testimonianza di don Carlo Scaciga, allora giovane prete e poi a lungo direttore dell’Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici della diocesi di Novara, è preziosa, tenendo conto che la frequentazione tra lui e Fabrizio era cominciata qualche mese prima. Il 13 aprile del 1969, infatti, Domenica delle Palme, il cantautore era stato invitato da don Carlo a presentare Tutti morimmo a stento ai giovani di Intra, al cinema Impero, e da questa iniziativa era sorta una bella amicizia. L’episodio documenta fra l’altro il fatto che, con ogni probabilità, De André – oltre all’edizione storica del 1867, con traduzioni dell’erudito Luciano Scarabelli, cui si allude nelle note di copertina de La buona novella – abbia letto il volume Einaudi sui vangeli apocrifi uscito proprio nel 1969, più volte rieditato, per la cura dello specialista torinese Marcello Craveri, studioso di storia delle religioni di area marxista e discepolo di Ambrogio Donini, scomparso nel 2002. Nel racconto di uno dei più stretti collaboratori di Faber all’epoca, Roberto Dané, la prima idea del disco sarebbe venuta a lui, che la propose al produttore Antonio Casetta immaginando di realizzarla con l’attore e cantante Duilio Del Prete. Casetta, però, pur apprezzando il suggerimento, si sarebbe indirizzato su Fabrizio: «Nel 1969 tornai da Casetta e gli sottoposi un’altra idea, che avevo intenzione di realizzare con Duilio Del Prete; un disco basato sui Vangeli apocrifi… lui, che era un grande discografico, di buon fiuto, mi ascoltò con attenzione e alla fine disse: “Ma scusi, perché questa idea non la propone a Fabrizio De André? Sa, è un periodo che è un po’ in crisi, non sa cosa fare…”. E io che cosa dovevo dire? Con De André c’era sicuramente una maggiore esposizione […]». Il progetto costringerà Fabrizio a lunghe ricerche in biblioteca, su fonti scritte e iconografiche (Giotto e Cimabue in particolare), e non poche notti di rielaborazione insieme allo stesso Dané. Sta di fatto che è con l’album concept La buona novella, del 1970, che l’esplorazione dell’uomo chiamato Dio e il processo a Gesù intentato da De André si fanno oggetto di un intero disco, ispirato programmaticamente ai vangeli apocrifi, in contrapposizione a quelli canonici (così motivò tale opzione: “Scelsi i Vangeli scritti da autori armeni, bizantini, greci perché erano una versione laica della storia di quell’eroe rivoluzionario che era Cristo, che predicava la fratellanza universale. Solo che Marco e gli altri erano un po’ l’ufficio stampa, gli Apocrifi invece vanno a ruota libera… c’è più umanità”). La cui traiettoria, esemplarmente, prende avvio da un Laudate Dominum recuperato dalla tradizione medievale per approdare a un provocatorio quanto illuminante Laudate hominem nella cantata finale. Con Cristo, ma senza la chiesa, come si ripeteva allora (e non solo negli ambienti del dissenso cattolico). In realtà i testi della Buona novella sono assai più profondi, poetici e problematici di quanto le spiegazioni approssimative dello stesso autore abbiano mai evidenziato, quasi egli malcelasse il pudore di dover confessare la commozione e il coinvolgimento (emotivo e spirituale) che si respira ancor oggi ascoltando Via della croce, Ave Maria o Il testamento di Tito: “Non avrai altro Dio all’infuori di me/ spesso mi ha fatto pensare:/ genti diverse venute dall’est/ dicevan che in fondo era uguale./ Credevano a un altro diverso da te/ e non mi hanno fatto del male”. Da parte sua ammise che, composta La buona novella in pieno Sessantotto, molti amici ritennero il disco anacronistico perché parlava di Gesù nel cuore della rivolta studentesca. Eppure, replicò, ciò che gli studenti volevano non era poi lontano dagli insegnamenti di Cristo, abolizione delle classi sociali e dell’autoritarismo, e creazione di un sistema egualitario: “Gesù ha combattuto per la libertà integrale, piena di perdono. È stato il più grande rivoluzionario della storia”.