
Che cos’è, anzitutto, una “competenza estetica” o “capacità di apprezzare il bello”? Qui è la definizione stessa di “estetico” a entrare in gioco. Da oltre dieci anni, prima in qualità di dottoranda e adesso in qualità di ricercatrice, lavoro all’interno dell’équipe di ricerca in Estetica diretta da Fabrizio Desideri presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. L’idea di estetico che faccio agire nel libro deve molto a quest’esperienza e all’ampio lavoro svolto da Desideri sull’ancoraggio dell’estetico al fatto percettivo (non come semplice percettologia, bensì in quanto percezione gravida di emozione e cognizione), sulla naturalizzazione “critica” dell’estetico, sulla differenza tra estetico, da un lato, e artistico, dall’altro. Alla luce delle implicazioni di queste ricerche, possiamo affermare che la competenza estetica individua nell’uomo una capacità complessa, nella quale entrano in gioco percezione, emozione, attenzione, una componente di auto-riflessività e un confronto con un’“alterità” (l’oggetto estetico, per intenderci), secondo una dinamica polare di attività e passività. Si tratta dunque di un tratto umano denso e stratificato, sulla soglia tra disposizioni biologiche e acquisizioni culturali.
Chiarire la fisionomia dell’estetico in questo modo, tuttavia, probabilmente non basta. Infatti, non in tutte le esperienze estetiche le varie componenti che ho appena elencato sono sempre presenti o presenti sempre tutte con lo stesso rilievo. È per questo che, nel capitolo terzo del libro e una volta individuate le componenti di base, propongo una tassonomia delle forme dell’attitudine estetica in base al reciproco e specifico ingranarsi di tali componenti e distinguo (almeno) quattro livelli dell’estetico.
A questo punto e fatta questa premessa, torniamo a chiederci: l’attitudine estetica così definita è innata o acquisita? La tesi del libro è che l’estetico è un abito (o disposizione) acquisito, a partire da dotazioni di base presenti già alla nascita ma che necessitano di un certo “environment”, di una nicchia – fisica, culturale, sociale –, per maturare in quanto unicum umano. Sostenere che l’estetico sia acquisito non significa che sia pura costruzione culturale, così come affermare che le componenti di base (la maggior parte delle quali non specie-specifiche) siano presenti già alla nascita non significa che l’estetico possa prescindere dall’elemento culturale. È proprio il rapporto tra elemento biologico ed elemento culturale che va ripensato, al di là di facili semplificazioni. Questa, del resto, è la stessa tesi darwiniana e al background darwiniano il libro è saldamente ancorato.
Da questo punto di vista, il concetto di abito (l’aristotelica hexis), applicato all’estetico, è straordinariamente efficace, proprio perché la storia della filosofia ha tradizionalmente concepito abiti e abitudini come figure che esautorano qualsiasi separazione possibile tra cultura e natura, innato e appreso. Ovviamente, se volessimo esplicitare qualche conseguenza, la prima risultante della mia tesi è che i bambini non sono già provvisti di competenza estetica “matura” quando vengono al mondo né ne sono provvisti nella primissima infanzia. Essi sviluppano il loro abito gradualmente: agire con strategie di educazione dell’abito estetico sin dalla più giovane età, a motivo del periodo critico di plasticità ben messo in luce da William James, è essenziale per sostenere tale sviluppo.
Quali concetti fanno capo a quello di “abito” e con quali accezioni?
Quello di abito, come argomento nel libro, è una specie di concetto-grappolo. Più che un significato univoco e univocamente determinabile, individua infatti un fitto cespuglio di significati imparentati al modo delle wittgensteiniane somiglianze di famiglia. L’abito ha a che fare, pur non risolvendosi in nessuna di esse, con nozioni quali abitudine, ripetizione, pratica, esercizio, addiction, inerzia, automatismo, meccanismo; in greco, latino e nelle principali lingue europee questo complesso cloud semantico è sbozzato da termini come, ad esempio, èthos, hèxis, habitus, consuetudo, habit, habitude, Gewohnheit. Se si tiene presente, inoltre, che praticamente nessun filosofo da Aristotele in poi ha resistito alla tentazione di dire la propria in merito all’abito/abitudine, da Spinoza a Hegel, da Leibniz a Kant, da Dewey a Bourdieu sino ai filosofi delle scienze cognitive contemporanee, si può ben immaginare la messe di materiali e tradizioni che a tale nozione fa capo. Una tale molteplicità di riferimenti e significati è riconducibile a unità, a un core di base? Sì e no.
Clare Carlisle, che nel mondo anglosassone, anzitutto con la prima traduzione inglese nel 2008 insieme a Marc Sinclair di De l’habitude di Ravaisson, ha avviato una stagione floridissima di studi sull’habit, ha messo in luce l’ambiguità strutturale che caratterizza il concetto di habit. La storia della filosofia moderna, argomenta Carlisle, ha pensato l’abito a partire almeno dallo Stagirita secondo due binari paralleli e contrapposti: da un lato, abito come condizione dell’esperienza e del pensare efficaci (una vita senza abiti, cioè senza irreggimentare e dar forma all’esperire, non sarebbe possibile, come ad esempio mostrano Aristotele, Hume, Dewey); dall’altro lato, abito come ottundimento e ostacolo al pensiero (quando l’abito cresce, o degenera, in mera abitudine, la routine avanza e i pensieri perdono la loro freschezza e originalità: è, semplificando molto, il punto di vista di Kant, ma anche per certi versi di Spinoza e Proust). In questo senso, come sostiene Carlisle, si può applicare all’abito la nozione greca di pharmakòn, cioè di medicina che è anche veleno. Nell’abito, cioè, ciò che rende possibile l’esperienza e il pensiero è anche ciò che ne minaccia la radice con la sua almeno potenziale componente mortifera (inerzia, meccanicità, automatismo).
Nell’abito è sempre presente la possibilità, almeno, dell’abitudine come automatismo più o meno cieco; l’abito è percorso e innervato da una polarità attivo-passiva. L’intero secondo capitolo del mio libro è dedicato a un’“incursione”, per forza di cose parziale, nella storia di questo concetto (o famiglia di concetti), muovendo da Aristotele sino alle riflessioni contemporanee sul tema, con l’obiettivo di mettere in chiaro i nessi tra di esso e la nozione di estetico che adotto. Il punto su cui ho insistito è proprio la strutturale ambiguità, la dimensione costitutivamente duplice, attiva e passiva, modulante e modulata, dell’abito, anche e soprattutto dell’abito estetico.
Mi preme sottolineare almeno altri due aspetti. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una vera e propria ri-esplosione di interesse per abiti e abitudini, dopo un lungo oblio iniziato trenta o quarant’anni fa con l’affermarsi delle teorie computazionaliste e rappresentazionaliste sulla mente. Oggi, le facoltà umanistiche in Europa e negli USA moltiplicano i corsi universitari dedicati alla philosophy of habit e il numero di iniziative editoriali e scientifiche sul tema si accresce rapidamente. Manca ancora, tuttavia, una esplicita trattazione estetica dell’abito, di cui questo libro vuol essere in qualche modo il punto d’avvio. Inoltre, il concetto di habit è di per sé un concetto interdisciplinare: benché radicato nella riflessione filosofica, è termine tecnico anche della sociologia, della fisiologia, della psicologia, delle neuroscienze e di molte altre discipline. Focalizzare l’attenzione su abiti e abitudini, dunque, ci fornisce un osservatorio privilegiato da cui guardare ai grandi movimenti e alle tendenze di base di molta parte del territorio del sapere.
Quali fattori influenzano lo sviluppo dell’aisthesis?
Per rispondere a questa domanda riprendo una splendida lettera di Rilke ad Alfred Schaer del 26 febbraio 1924, commentata nella sezione finale del libro. In questa lettera, Rilke tenta di rispondere all’interrogativo di Schaer circa le influenze determinanti sul suo percorso di formazione e produzione, cioè sul suo abito d’artista. Rilke scrive: «io mi chiedo spesso se non sia ciò che rimane in sé privo di evidenza che ha esercitato l’influsso più essenziale sulla mia formazione e sulla produzione: la compagnia di un cane; le ore che ho potuto passare a Roma osservando un cordaio […]. O il fatto che mi è stato concesso di andare attraverso il paesaggio di “Baux” con un pastore […]. O che un essere così incommensurabile come Venezia mi sia familiare, fino al punto che i forestieri mi potevano chiedere con successo nel labirinto delle “calli” ciò che cercavano… tutto questo, non è vero?, è stato “influsso”». Ciò a significare, mi pare, che accanto e al di là dell’influenza “tecnica”, codificata, di modelli e stili letterari, c’è un influsso più profondo e forse più pervasivo esercitato sul poeta da circostanze apparentemente banali, da pure contigenze. Lo stesso è vero, se ci spostiamo dal versante produttivo rilkiano a quello per dir così “ricettivo”, in relazione all’abito estetico.
Il punto, in altre parole, è che i fattori che influenzano lo sviluppo dell’abito estetico sono molteplici e, in qualche modo, anche difficilmente discriminabili in modo netto o preventivabili. Del resto molteplici e multi-stratificate sono le componenti stesse della “nicchia estetica” entro cui l’abito estetico si sviluppa, e che include almeno (1) l’ambiente fisico-materiale entro cui il soggetto (paradigmaticamente, il bambino) opera; (2) costumi, psicologie e tradizioni culturali di coloro che ne hanno cura (i cosiddetti caregivers); (3) istituzioni educative più o meno formalizzate. Se poi consideriamo, in aggiunta a quanto detto, che nel contemporaneo la dimensione estetica diventa pervasiva dell’intero spettro dell’esperienza e si fa vero e proprio asset economico, i fattori potenzialmente rilevanti per lo sviluppo della hexis aisthetiké si moltiplicano a dismisura.
In che modo la contemporaneità condiziona la formazione di habits?
È il punto a cui accennavo in chiusura alla risposta precedente. Come è stato da più parti sottolineato negli ultimi trenta o quarant’anni, la nostra è l’epoca della cosiddetta “estetizzazione diffusa”. In un sistema economico, qual è quello del capitalismo avanzato contemporaneo, in cui a contare sono più le esperienze che facciamo “con” le cose anziché le cose in se stesse, l’estetico – non di rado ridotto a pura stimolazione sensoriale, a emotività illanguidita ed effimera – è letteralmente onnipresente. Dagli utensili casalinghi ai detersivi sugli scaffali dei supermercati, dai soggiorni nei villaggi vacanze alle esperienze di visita in un parco a tema, i professionisti del marketing guardano all’attrattività estetica quale asset fondamentale nelle questioni economiche. Come scrivevano Gilmore e Pine in un libro di qualche anno fa divenuto ormai un classico sul tema, viviamo in una “experience economy”, in cui siamo disposti a pagare più per fare esperienze “memorabili”, “emozionanti”, “esteticamente” rilevanti che per acquistare questo o quel prodotto materiale. O, al più, ci decidiamo a comprare questo o quel prodotto in funzione dell’esperienza che esso ci promette di farci compiere. È in questo senso che l’estetico-sensibile, in un’accezione del termine spesso “ridotta”, ridimensionata o semplificata, è ormai diffuso: i fenomeni estetici non sono più separati da, immuni o estranei alle logiche di produzione e commercializzazione bensì pienamente inseriti in esse.
C’è una componente di decisiva passività che agisce sul fruitore estetico nel regime di estetizzazione diffusa e che nel libro ho cercato di illustrare ricorrendo alla cosiddetta teoria del nudge, o spinta gentile, anch’essa proveniente dal contesto economico. Per “spinta gentile estetica” intendiamo – anche qui semplificando un poco – tutte quelle affordances ambientali sapientemente organizzate da professionisti del marketing per indurre tali o tal altre risposte estetiche, con minima partecipazione attiva e consapevole da parte del fruitore. È in un contesto di questo tipo, così frequente nella contemporaneità, che l’abito estetico può giungere a depotenziare o persino a neutralizzare il suo valore, trapassando in mera abitudine, cioè irrigidendosi e addirittura finendo per operare in senso anestetizzante.
Beninteso, la mia non vuol essere una critica di principio ai fenomeni di estetizzazione diffusa, alla “quotidianizzazione” dell’estetico o all’ibridazione tra dinamiche estetiche e dinamiche economiche. Tutt’altro. Come cerco di mostrare nel quarto capitolo, anche con riferimento alla proposta tassonomica ivi contenuta, una componente di passività e “inerzia” è ineliminabile e costitutiva in ogni forma di attitudine estetica. La passivizzazione nell’esperienza estetica contemporanea va intesa, in questo senso, come l’estremizzazione, da valutare attentamente, di una tendenza all’automatismo che l’estetico porta in sé da sempre. È alla custodia della polarità attivo-passivo, senza che un polo esautori completamente e stabilmente l’altro, che va allora indirizzata un’efficace educazione estetica.
Come è possibile coltivare la hexis aisthetikè?
Qui, appunto, si inserisce l’importante discorso relativo ai modi, ai mezzi e al valore dell’educazione estetica oggi, su cui sono tornati di recente a riflettere molti studiosi in Italia e all’estero. Se, come ad esempio ha sostenuto l’antropologa Ellen Dissanayake, riconosciamo nella competenza estetica una dimensione essenziale di Homo sapiens in quanto specie, approntare e garantire all’essere umano, sin dalla più tenera età, funzionali percorsi di coltivazione dell’hexis aisthetiké è molto più di un diletto accessorio. È una necessità insita nella natura stessa di ciò che siamo. Ma in che modo farlo oggi, in un tempo in cui l’aisthesis è spesso ripetizione del già sentito?
Abbiamo detto, poco prima e sulla scorta della parola di Rilke, che i fattori che influiscono sulla maturazione dell’abito estetico sono molteplici e non sempre pre-determinabili o preventivabili in toto. Questo significa, in termini di educazione estetica, che i percorsi formativi istituzionalizzati, ad esempio a scuola, sono senz’altro necessari ma non esauriscono l’orizzonte educativo o di coltivazione dell’abito estetico. Tuttavia è da essi che bisogna partire, ad esempio potenziando notevolmente l’offerta attuale nella scuola pubblica: esempi luminosi come il Reggio Emilia Approach di Loris Malaguzzi sono, in questo senso, utilissimi segnavia. Mi preme sottolineare, in riferimento a questo punto, il ruolo della tassonomia dell’estetico che propongo nel terzo capitolo del volume. Se il vario modularsi e ingranarsi reciproco delle componenti di base fonda la possibilità di distinguere tra almeno quattro livelli o forme dell’estetico, ciò comporta anche l’individuazione di percorsi formativi distinti in corrispondenza di ciascun livello o tipologia. Educare al primo livello d’estetico, insomma, non è lo stesso che educare al terzo o al quarto. Al di là delle distinzioni specifiche, che illustro nel libro, il punto da illuminare è che, come l’estetico non è in sé stesso un monolite unitario bensì un mosaico stratificato in senso tanto genetico quanto attuale, allo stesso modo l’educazione all’estetico si articola secondo vie e percorsi molteplici e differenziati.
Coltivarsi l’hexis aisthetiké significa imparare a guardare, ad esperire, formarsi quelle abitudini “brevi”, profonde ma libere, che risuonano nel Nietzsche de La gaia scienza. Soprattutto, significa darsi tempo: il tempo dello sviluppo dell’estetico è il tempo lungo di una vita intera, in cui matura lentamente una familiarità incarnata con gli oggetti estetici (“eventi”, certo, cioè mai del tutto disponibili; ma eventi in qualche modo familiari).
In quanto animali estetici, l’abito estetico è il nostro modo principe di orientarci nell’esperienza: aisthetica-mente ci muoviamo nel mondo e, da questi incontri con il mondo, anche la nostra aisthesis viene modulata e plasmata.
Mariagrazia Portera è ricercatrice di Estetica all’Università di Firenze. Si occupa di estetica evoluzionistica, estetica sperimentale, estetica ambientale, dopo aver lavorato a lungo su temi di storia dell’estetica in area tedesca tra fine Settecento e inizio Ottocento. È autrice di saggi e articoli apparsi in riviste di rilievo nazionale e internazionale; tra le sue monografie, L’evoluzione della bellezza. Da Darwin al dibattito contemporaneo (Mimesis 2015). Di recente, ha collaborato alla nuova edizione della Storia dell’estetica occidentale. Da Omero alle neuroscienze di Fabrizio Desideri e Chiara Cantelli (Carocci 2020).