
Sin dall’origine della finanza, si pose il problema dell’usura.
Si può dire che il problema dell’usura, il problema cioè della condanna del prestito ad interesse, sia antico quanto la stessa attività di credito. È nota la posizione del filosofo greco Aristotele il quale condannava l’attività di prestito in quanto innaturale. Il denaro non doveva generare altro denaro: pecunia pecuniam non parit. La cultura ebraico-cristiana, attraverso il Vecchio e Nuovo Testamento, condannava anch’essa l’attività di prestito ad interesse. Il Vangelo di Luca fissò il precetto secondo il quale “mutuum date nihil inde sperantes”. Si tratta di posizioni ribadite nei Concili della Chiesa di Roma, riprese dalla Scolastica e dal suo massimo esponente, Tommaso d’Aquino. Una eco significativa del loro peso e influenza nella costruzione dell’etica economica medievale la si ritrova nella Divina Commedia. Dante, che riteneva l’usura un peccato contro natura, relegava gli usurai nel terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno, il girone dei violenti, obbligati a rimanere seduti mentre una pioggia di fiammelle cadeva su di loro. Ciascuno di loro aveva appeso al collo una borsa su cui era impresso lo stemma della famiglia. Tra gli usurai Dante riconobbe Reginaldo Scrovegni, spregiudicato banchiere, il cui figlio, Enrico, banchiere egli stesso, per sgravarsi dal peccato d’usura fece erigere a Padova la cappella poi affrescata da Giotto. La condanna dell’attività finanziaria pesava in effetti come un macigno sulla coscienza dei banchieri, ma l’economia non poteva fare a meno della loro attività. Per questo il diritto canonico iniziò a riconoscere una serie di eccezioni alla condanna senza appello dell’usura. Il grande storico francese, Fernand Braudel, rilevando questa contraddizione osservò che quella dell’usura era in realtà la storia di un “lungo dramma” che ha percorso l’intera storia dell’Occidente. In effetti il dramma si attenuò solo a partire dall’età moderna in particolare nei paesi atlantici, Olanda e Inghilterra in testa, che iniziarono a legittimare l’attività di prestito a interesse, seppure quest’ultimo dovesse essere regolamentato.
Qual è il ruolo della finanza nella nascita e l’espansione degli imperi coloniali?
Per rispondere a questa domanda credo debba essere fatta una fondamentale distinzione tra la nascita degli imperi coloniali di Spagna e Portogallo da un lato e di Olanda, Inghilterra e Francia dall’altro. Nel primo caso la colonizzazione delle cosiddette Indie Orientali e Occidentali fu in gran parte un affare di Stato. I viaggi di esplorazione, prima, i collegamenti con le colonie, poi, furono finanziati dalle monarchie territoriali emerse dalla lunga crisi trecentesca: il Portogallo degli Aviz e la Spagna unificata dall’unione matrimoniale tra le corone di Castiglia e Aragona. Le due agenzie che promuovevano il commercio coloniale in questi paesi – la Casa da India con sede a Lisbona e la Casa de Contratación con sede a Siviglia – erano agenzie statali alle quali si associavano i mercanti che dovevano tuttavia versare una parte dei loro introiti nelle casse regie. La monarchia spagnola, che nel 1524 fondò un Consiglio delle Indie per l’amministrazione delle sue colone americane, riteneva in particolare di poter trarre ampi benefici dalla colonizzazione del Nuovo Mondo, utilizzando gli ingenti quantitativi di metalli preziosi – oro ma soprattutto argento – per la costruzione di un impero di dimensioni mondiali. In realtà le crescenti difficoltà finanziarie della corona spagnola, tradottesi nella drammatica lievitazione del suo debito pubblico, la obbligarono ad impegnare le risorse monetarie a favore dei banchieri tedeschi prima, genovesi poi, con il risultato di rendere impervia la realizzazione di quel progetto. Nel caso dell’Olanda, dell’Inghilterra e della Francia la formazione degli imperi coloniali fu resa in gran parte possibile dalla mobilitazione finanziaria operata dalle grandi Compagnie commerciali, che pur operando in stretta simbiosi con i poteri pubblici, erano organismi privati. Si trattava di società per azioni, nel senso moderno del termine, il cui capitale sociale venne raccolto attraverso l’emissione di azioni, sottoscritte da centinaia di risparmiatori. Per l’importanza assunta esse ottennero ampi privilegi dai poteri sovrani, tra i quali la responsabilità limitata, ed ampi poteri di amministrazione e militari nelle colonie.
Che nesso c’è tra finanza e rivoluzione industriale?
Il nesso naturalmente esiste ma è meno immediato e scontato di quanto si possa ritenere. In realtà le istituzioni finanziarie, banca e borsa, svolsero un ruolo di secondo piano nel finanziamento del processo di industrializzazione inglese. Certo le banche diffuse nelle aree lontane da Londra – le cosiddette Country Banks – ebbero un ruolo attivo nella promozione di imprese agricole e industriali simile, secondo alcuni studiosi, a quello svolto dalle odierne venture capital firms. D’altra parte l’incremento del loro numero da 12 a 755 tra il 1750 e il 1809 ne testimonia la crescente importanza. Tuttavia nella fase iniziale della rivoluzione industriale inglese fu soprattutto la finanza familiare a svolgere un ruolo di rilievo, coerentemente con le caratteristiche che essa assunse. Caratteristiche sintetizzabili nell’utilizzo di beni capitali di dimensioni modeste e poco costosi, nella produzione su scala relativamente limitata, nella riconversione ad uso industriale di vecchi edifici rurali. Pertanto il carattere spontaneo e la relativa gradualità della prima fase dell’industrializzazione inglese fecero sì che le necessità di finanziamento fossero assicurate prevalentemente dalle risorse familiari, attraverso il ricorso in particolare a prestiti attinti dalla rete parentale e all’autofinanziamento. Diverso è invece il discorso relativamente al successivo consolidamento del processo di industrializzazione inglese e all’estensione di quel processo ai paesi dell’Europa continentale e agli Stati Uniti d’America. In entrambi i casi le mutate condizioni in cui si svolgevano le attività economiche, la maggiore dimensione delle imprese, l’importanza assunta dall’investimento in capitale fisso necessitavano di crescenti risorse finanziarie. Nei paesi anglosassoni queste vennero prevalentemente assicurate dai mercati finanziari, nei paesi dell’Europa continentale prevalentemente dalle banche, ma anche, in alcuni di essi – come il nostro ad esempio – dallo Stato.
Quali vicende segnano la storia finanziaria del Novecento?
La storia finanziaria del Novecento presenta un andamento contraddittorio e complesso. In generale si può affermare che le due guerre mondiali della prima metà del secolo e la crisi del 1929, la più grave, almeno fino all’attuale, abbiano fortemente condizionato lo svolgimento delle attività finanziarie e l’evoluzione dei sistemi finanziari nazionali, mentre la seconda metà del Novecento ha visto l’alternanza tra una fase di regolamentazione dei flussi di capitale e del mercato dei cambi ed una di progressiva deregolamentazione delle attività finanziarie e di abbandono dei tassi di cambio fissi, accentuatisi dopo il crollo dell’URSS e la fine della guerra fredda.
In particolare, la Grande guerra pose fine alla prima globalizzazione finanziaria avviatasi al termine del XIX secolo e al sistema monetario internazionale, il gold standard, su cui quella globalizzazione si era in gran parte retta. Essa modificò la storia della finanza internazionale, anche in seguito allo spostamento del baricentro economico e finanziario da Londra a New York che sancì il ridimensionamento dell’Europa e le velleità degli sforzi di ripristinare l’ordine economico della Belle Époque. Gli anni Trenta furono segnati dagli effetti della crisi del 1929, che rese necessaria la ristrutturazione dei sistemi finanziari nazionali, assai malandati, accentuando l’intervento degli Stati. Nel corso della seconda guerra mondiale, la conferenza di Bretton Woods – durante la quale si fronteggiarono le tesi di John Maynard Keynes e del rappresentante americano Harry Dexter White – fissò le regole alle quali avrebbe dovuto adeguarsi il sistema finanziario internazionale a partire dal termine del conflitto. La stabilità monetaria doveva essere garantita dall’adozione di un sistema di cambi fissi imperniato sulla convertibilità del dollaro in oro, mentre a presidio del nuovo regime monetario venne decisa l’istituzione di due organismi sovranazionali – il Fondo Monetario Internazionale e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Il nuovo ordine economico e finanziario “regolato” si mantenne sino al termine degli anni Sessanta, entrando in crisi nell’estate del 1971, quando il presidente americano R. Nixon annunciò l’inconvertibilità del dollaro in oro. Esso venne sostituito con un nuovo sistema che consentiva una maggiore concorrenza sui mercati e una maggiore apertura alle influenze internazionali. In ambito finanziario questo si tradusse in una crescente volatilità dei cambi, cui si accompagnò una serie imponente di processi, tra i quali la liberalizzazione del commercio estero, la despecializzazione degli intermediari e la riforma dei mercati finanziari, che modificarono in profondità l’assetto del capitalismo del secondo dopoguerra.
È la finanza la responsabile della Grande crisi del 2008?
A mio avviso la Grande crisi del 2008 deve essere inquadrata nel processo di trasformazione del capitalismo al quale ho accennato nella risposta precedente. Secondo un economista americano di orientamento keynesiano, Hyman Minsky, in tutti i paesi a economia di mercato si sarebbe verificata a partire dagli anni Settanta del Novecento un’evoluzione del sistema economico e finanziario verso lo stadio del money manager capitalism, «il capitalismo dei gestori del mercato monetario»; uno stadio caratterizzato dalla presenza di fondi ad elevata leva finanziaria alla ricerca del massimo rendimento operanti in un contesto che sottovaluta sistematicamente il rischio. Le innovazioni finanziarie succedutesi da allora – i derivati, gli hedge funds, i private equities – hanno amplificato la potenza della finanza, sostenuta a sua volta dalle moderne tecnologie informatiche, ma hanno anche aumentato i rischi sistemici. Tale circostanza, già molto prima del 2007, aveva accentuato l’instabilità finanziaria, come testimoniano le 124 crisi verificatesi tra il 1970 e il 2007, tra le quali quelle che colpirono l’Argentina nel 1995 e l’Est asiatico nel 1997 appaiono le più gravi. L’ascesa della finanza ha enfatizzato i comportamenti speculativi ed opportunistici, la ricerca del profitto monetario a breve termine, la tendenza all’avidità. La crisi del 2008 è un prodotto di questa metamorfosi del capitalismo che ha coinvolto innanzitutto le grandi istituzioni finanziarie, le quali hanno potuto agire in un contesto di progressiva deregolamentazione e deresponsabilizzazione. E tuttavia la crisi del 2008 non è stata provocata solo dall’incipiente finanziarizzazione dell’economia, ma anche dalla crescente sperequazione nella distribuzione del reddito, la quale ha influito negativamente sull’andamento dei consumi. È stato calcolato ad esempio che negli Stati Uniti d’America tra il 2000 e il 2008, il reddito reale delle famiglie è diminuito di quasi il 4 per cento. I mutui subprime, al centro della recente crisi finanziaria, concessi ad una clientela che non possedeva sufficienti garanzie di solvibilità, assunsero dimensioni rilevanti proprio nel tentativo di riparare alle ingiustizie sociali per via monetaria.
Quale futuro per la finanza?
Più che ad uno storico, che indaga il passato, la domanda dovrebbe essere rivolta ad un economista, proteso verso il futuro. Ma forse anche gli storici possono dare un contributo non marginale alla discussione. Vorrei farlo brevemente richiamando quanto osservava numerosi anni fa un grande economista italiano, dotato di una forte sensibilità storica, Marcello De Cecco. In un saggio del 1998 De Cecco descrisse gli effetti del processo di integrazione finanziaria allora in pieno svolgimento negli Stati Uniti e in parte in Europa. Per descrivere quel processo ricorse ad una metafora. In seguito alla caduta delle barriere che nel recente passato avevano segmentato i diversi ambiti del sistema finanziario, lo “zoo finanziario” – suggeriva De Cecco – si era trasformato in una giungla dove tutto era permesso e i leoni convivevano con le gazzelle. Il principio della sopravvivenza dei più adatti tuttavia non poteva funzionare nella sfera finanziaria per una complessa serie di motivi, ma in particolare per la natura profonda dei rapporti di credito, della quale molti moderni operatori hanno perso memoria: i rapporti di credito sono infatti in primo luogo rapporti tra persone e il tentativo di trasformarli in rapporti oggettivi di quantità e prezzo è destinato a fallire. È di quella memoria che la finanza si dovrebbe riappropriare.