
di Hannah Arendt
Feltrinelli Editore
La banalità del male è un’«opera della filosofa tedesca naturalizzata americana Hannah Arendt (1906-1975), pubblicata a New York nel 1963. Il nucleo del libro è il resoconto del processo celebrato a Gerusalemme contro il nazista Karl Adolf Eichmann, che la Arendt scrisse in qualità di corrispondente del “New Yorker”. Oltre a una raffinata e fredda analisi della personalità di Eichmann, l’opera offre una ricostruzione del percorso che in Germania portò la “questione ebraica” a culminare nella “soluzione finale”, una storia delle deportazioni in Germania e in Europa, e una denuncia delle strutture filosofico-culturali e simboliche che furono alla base di tale enormità storica.
La celebre tesi di fondo è la natura non eroica e non straordinaria, bensì del tutto banale, prevedibile e meschina, delle ragioni e degli individui che generano storicamente il Male. In effetti Eichmann (la Arendt lo descrive come un uomo di media statura e di mezz’età, miope, con denti irregolari e un’incipiente calvizie) era figlio svogliato di una famiglia borghese; nel 1932, con l’iscrizione al partito nazionalsocialista e l’ingresso nelle SS, si determinò una “svolta” nella sua vita: soprattutto perché ciò gli permise di entrare in un rassicurante quanto ferreo sistema gerarchico.
Eichmann aveva “la mentalità del gregario”; in seguito ammise apertamente che con la disfatta della Germania si sentì perduto: “sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile senza un capo; non avrei più ricevuto direttive da nessuno, non mi sarebbero più stati trasmessi ordini”. Di fatto, pur riconoscendo che lo sterminio degli ebrei fu “un crimine contro l’umanità”, egli insistette a dichiararsi non colpevole “nel senso dell’accusa”, poiché si era semplicemente limitato ad applicare regolamenti e a eseguire ordini. Eichmann non era ai vertici dell’organizzazione delle SS, ma fu responsabile di arresti e deportazioni di ebrei in tutta l’Europa. Al processo, pur deplorando le conseguenze delle sue azioni, ammise ripetutamente che sarebbe stato a disagio nel non compierle.
Il ruolo storico di quest’uomo mediocre e straordinariamente normale, e lo sventurato trionfo di tale mediocrità, è l’aspetto che più colpisce l’intelligenza della Arendt, che non risparmia qualche accenno alla sottomissione di alcuni capi ebraici, quasi ipnotizzati dall’andamento burocratico, grigio e puramente formale assunto a tratti dall’agire dei carnefici. Di fatto, lo sfondo teorico entro cui si muove l’analisi arendtiana della “normalità” di Eichmann è la critica di quel formalismo in etica e in filosofia in generale, le cui origini più profonde sono rintracciabili in un pervertimento della filosofia classica tedesca.
Infatti Eichmann si dichiara un “idealista”, intendendo con ciò un individuo capace di “vivere per le idee” e di “essere pronto a sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti”. Celebre ed esemplare l’epilogo, in cui la Arendt ricorda che in politica eseguire gli ordini equivale a condividere le idee che li hanno originati, e appoggiare i crimini che ne derivano.»