“La Aqedah. Il Sacrificio di Isacco. Commenti ebraici attraverso i secoli” di Luigi Cattani

La Aqedah. Il Sacrificio di Isacco. Commenti ebraici attraverso i secoli, Luigi CattaniProf. Luigi Cattani, Lei è autore del libro La Aqedah. Il Sacrificio di Isacco. Commenti ebraici attraverso i secoli, edito da Libreria Editrice Vaticana. La vicenda biblica del “sacrificio di Isacco” o ‒ come è definito nella tradizione ebraica ‒ del suo “Legamento” sull’altare del sacrificio, rappresenta un racconto inquietante, misterioso, perfino sconvolgente: quale rilevanza ha assunto nella tradizione ebraica e cristiana?
Genesi 22 è davvero “un racconto inquietante, misterioso, perfino sconvolgente”. Già il celebre critico Erich Auerbach affermava al riguardo:

Per molti aspetti il testo rimane nel buio; i pensieri e i sentimenti rimangono inespressi; l’insieme, diretto con la massima e ininterrotta tensione a uno scopo, rimane enigmatico nello sfondo.

In effetti questa pagina biblica, probabilmente la più celebre delle Scritture ebraico-cristiane, possiede un fascino unico, inimitabile, proprio a motivo del suo paradosso e anche dello stile che ne contraddistingue la narrazione. Siamo improvvisamente posti dinanzi a un ordine assurdo di Dio, che dopo avere promesso a un uomo, Abramo, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, e dopo avergli fatto attendere per anni e anni un figlio nel quale cominciasse a compiersi tale promessa, poi gli chiede – senza un motivo, senza dare spiegazioni – di offrirglielo in olocausto. E, fatto non meno sconcertante, Abramo obbedisce! Non si rivolta, non maledice, neppure parla: conserva un assoluto, misterioso silenzio e si appresta con solerzia a compiere il sacrificio del figlio (riluttante? obbediente anch’egli?), per poi essere fermato da un messaggero divino che pronuncia a nome di Dio un solenne giuramento: quest’atto di obbedienza perfetta compiuto da Abramo sarà fonte eterna di benedizione (cioè di vita) addirittura per il mondo intero, per tutti gli uomini, di tutte le generazioni.

Una pagina del genere potrebbe a buon diritto creare problemi insuperabili alla coscienza di quanti credono nella ispirazione divina delle Scritture e su di esse intendono radicare la propria vita. E invece… Paradossalmente il racconto della Aqedah, il “legamento” o sacrificio di Isacco, ha acquisito e tuttora mantiene una rilevanza incomparabile nell’ebraismo e nel cristianesimo, a tal punto, che, con una qualche esagerazione, potremmo dire che non si possono conoscere adeguatamente queste due tradizioni religiose se si prescinde dal “fatto” narrato in Genesi 22.

Ma c’è di più. Anche l’Islam attribuisce un’importanza primaria all’evento, come testimonia la più importante delle sue feste – quella del Sacrificio –, che è consacrata proprio al ricordo dell’offerta del figlio compiuta da Abramo. Dobbiamo quindi riconoscere che la Aqedah unisce e insieme distingue tra loro tutte e tre le grandi religioni monoteiste.

Generazioni e generazioni di esegeti ebrei e cristiani si sono interrogati sul significato di questa pagina misteriosa, che interpella in ogni tempo la coscienza del credente. Origene, forse il più grande esegeta cristiano, si chiedeva:

E tu, Abramo? Quali pensieri, e di quale natura, si agitano nel tuo cuore? Dio ha pronunciato una parola che vuole esaminare e provare la tua fede; e tu, che cosa dici? Che cosa pensi?

Kierkegaard, nel suo Timore e tremore, ci ha lasciato pagine indimenticabili sul dramma della Aqedah, sviscerando con profondità ineguagliata i sentimenti del patriarca. Abramo diviene il “cavaliere della fede”, secondo una linea interpretativa del testo per molti aspetti corrispondente alla tradizione ebraica, sia antica che contemporanea:

Abramo montò sull’asino e si mise lentamente in cammino. In tutto il tempo egli ebbe fede, credette che Dio non esigesse da lui Isacco, anche se era disposto a sacrificarlo, se necessario. Egli credette in virtù dell’assurdo, poiché qui non potrebbe esserci un calcolo umano, e l’assurdo è che Dio, il quale esigeva quel sacrificio, un istante dopo avrebbe revocato la richiesta. Salì sul monte, e persino nel momento in cui il coltello luccicava, credette che Dio non avrebbe preteso Isacco. Egli credette in virtù dell’assurdo, poiché ogni calcolo umano era stato da tempo abbandonato.

Significativamente, Y. Leibowitz, uno dei pensatori ebrei più acuti del Novecento, interpreta la Aqedah in modo analogo:

Quando è messa alla prova la sua fede, Abramo tace, benché proprio ora possa avanzare argomentazioni inoppugnabili, fondate non solo sulla giustizia ma sulla verità. Avrebbe avuto il diritto di sostenere: Ieri mi dicevi: Poiché da Isacco prenderà nome per te la tua discendenza (Gen 21, 12) ed ora mi dici di scannarlo. Eppure non parlò! Il silenzio di Abramo testimonia che la sua fede non è fede “a determinate condizioni”, e che essa non rientra nei confini tracciati dall’etica umana.

Constatiamo allora quanto sia estesa la convergenza nella interpretazione del sacrificio di Isacco da parte delle tradizioni ebraica e cristiana. E ciò da sempre.

Si danno anche tuttavia alcune irriducibili differenze, sempre nell’ambito dell’importanza assoluta attribuita all’evento biblico.

Per quanto riguarda l’ebraismo, è difficile sintetizzare il significato che possiede il sacrificio di Isacco nei molteplici e ricchissimi aspetti di una cultura millenaria, che nella sua interezza reca l’impronta della Aqedah. Ricordiamone alcuni, partendo dai testi liturgici: perché per conoscere l’ebraismo occorre anzitutto apprezzarne la preghiera, nella quale si esprime nel profondo l’anima d’Israele.

Genesi 22 è un testo tradizionalmente letto nella preghiera del mattino e seguito dalla seguente preghiera:

Signore del mondo! Come Abramo nostro padre vinse la sua compassione per compiere il tuo volere con cuore integro, così la tua pietà vinca la tua ira e prevalga sulla misura della tua giustizia: trattaci, o Signore Dio nostro, secondo la misura della misericordia e della pietà, rapportati a noi non secondo la stretta giustizia e, per la tua grande bontà, distogli la tua collera dal tuo popolo, dalla tua città, dalla tua terra e dalla tua eredità.

Ogni giorno, pertanto, chi appartiene alla comunità d’Israele è posto dinanzi alla grande, terribile prova cui fu sottoposto Abramo, il “padre” del suo popolo: egli ricevette da Dio il comando di restituirgli il dono tanto atteso, il figlio della promessa a sua volta erede delle promesse, per mostrare che non era padrone geloso di tale dono e che nulla, neppure l’amore struggente per il figlio, anteponeva all’amore assoluto per il Signore.

Il tema della Aqedah ritorna nel servizio liturgico del Capodanno, una delle feste annuali più importanti:

Appaia alla Tua presenza la Aqedah con cui Abramo nostro padre legò Isacco suo figlio sull’altare: e come egli vinse la sua compassione per compiere il tuo volere con cuore integro, così la tua compassione vinca la tua ira, distogliendola da noi.

“Appaia alla Tua presenza la Aqedah …”: con queste parole si esprime la ferma convinzione che il sacrificio di Isacco non è affatto un evento del passato, ma è perennemente “attuale” nella mente di Dio, in quanto sorgente eterna di vita, e in parallelo sempre “attuale” nella coscienza ebraica.

Di fatto, l’obbedienza eroica di Abramo, ha contribuito in modo unico a forgiare nei secoli l’identità più profonda di Israele, nelle sue connotazioni più proprie e inconfondibili. Ciò vale soprattutto per i momenti di persecuzione violenta, che purtroppo hanno caratterizzato l’intera storia dell’ebraismo europeo. Il sacrificio di Isacco, che la tradizione unanime considera non subìto passivamente ma volontario, divenne allora il paradigma della vocazione di ogni ebreo, chiamato a dare la vita, se necessario, pur di non rinnegare l’alleanza divina. In particolare nell’età tardo medievale, Isacco disteso sull’altare divenne il modello di chi, per proclamare la propria fedeltà all’unico Signore, subiva una morte cruenta da parte degli assassini.

La Aqedah ha accompagnato e accompagna Israele in tutto il corso della sua storia, illuminandone anche, per quanto possibile, gli aspetti più tragici, primo tra tutti la Shoah. Ecco cosa dice E. Wiesel, per esempio:

Mi sembra inutile sottolineare quanto la storia della Aqedah mi affascini. Ogni ebreo, prima o poi, vi si trova appassionatamente coinvolto. Ogni volta che studio la Aqedah, scopro nuove domande, vecchie soluzioni, illuminazioni infinite ed eterne sorprese. […] Con il suo contenuto terribile, la Aqedah è divenuta una fronte di consolazione per coloro che, continuando a raccontarla, la integrano nella loro stessa esperienza. Ecco una storia in cui è racchiuso il destino degli ebrei nella sua totalità, così come la fiamma è racchiusa in ogni singola scintilla che la manifesta.

Nella tradizione cristiana, il sacrificio di Isacco ha assunto una rilevanza cristologica, perché è stato interpretato, già negli scritti del Nuovo Testamento, come la profezia del mistero pasquale e del dogma trinitario cioè del centro stesso del cristianesimo. Leggiamo nella lettera ai Romani, il capolavoro di S. Paolo:

Egli (Dio), che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi.

“Non ha risparmiato” è riferimento evidente alla versione greca (i LXX) di Genesi 22, 16, dove è Abramo che “non ha risparmiato” Isacco, in obbedienza al comando divino. La Aqedah diviene allora, nel pensiero di Paolo, la prefigurazione della croce, la profezia dell’evento della redenzione, nel quale il Padre svela il suo amore incondizionato per l’umanità, “non risparmiando” il Figlio diletto e consegnandolo alla morte per la salvezza dei peccatori. Anche la Lettera agli Ebrei vede adombrato in Gen 22 il mistero della morte – risurrezione di Cristo:

Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

Ecco perché Genesi 22 è, nella liturgia cattolica, una delle letture prescelte nel contesto della solenne veglia pasquale, che è memoriale della risurrezione di Cristo. Il testo diviene così un cardine della interpretazione cristologica dell’Antico Testamento che, sviluppatasi nell’età patristica, tuttora contraddistingue la lettura ecclesiale delle antiche Scritture d’Israele.

Perché è necessario leggere il racconto del legamento di Isacco nel contesto più ampio dell’intera vicenda di Abramo?
Non si può leggere il racconto della Aqedah scorporandolo dalla narrazione dell’intera vicenda di Abramo, che inizia al cap. 12 della Genesi. Questo dato è stato colto molto bene dalla tradizione ebraica, che in un antico testo autorevole afferma:

A dieci prove fu sottoposto Abramo nostro padre – la pace sia su di lui! – e resistette a tutte: per fare sapere quanto grande era l’amore di Abramo nostro padre – possa egli riposare in pace.

La prima di queste “dieci prove” ha inizio nell’atto stesso in cui Abramo si affaccia alla narrazione della Bibbia, quando cioè Dio gli chiede semplicemente l’impossibile. Si legge in Gen 12:

Il Signore disse ad Abram: Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.

Abramo deve troncare i legami di sangue, perfino quelli più intimi, e incamminarsi verso l’ignoto. Deve rinunciare alla protezione del clan familiare e confidare soltanto in un Signore misterioso, che poi si qualificherà come il suo “scudo”. L’atto di rescissione dei legami tribali è irrevocabile. Niente a che vedere con l’epopea di Odisseo: non vi è alcuna Itaca alla quale fare ritorno, inizia una storia nuova, caratterizzata da alcune sconvolgenti promesse che Dio fa al suo amico. Egli diverrà una grande nazione, che avrà il possesso di una terra benedetta. Soprattutto, in lui, nella sua discendenza, “saranno benedette tutte le famiglie della terra”. Immaginando di potere riprendere questa scena con l’occhio di una videocamera potremmo dire così: Dio fissa il suo sguardo su un unico uomo e lo incarica di svolgere misteriosamente una missione che porterà la vita all’umanità intera. E Abramo obbedisce.

Le vicende narrate nei capitoli successivi non mancano di aspetti drammatici: carestie, insidie da parte di uomini caratterizzano la vita di Abramo e della moglie Sara. Ma la “prova” più grande coinvolge proprio Sara: essa è sterile, ormai molto avanzata negli anni, del tutto impossibilitata a dare ad Abramo un figlio (atteso per anni e anni) con il quale il Signore possa rinnovare la sua alleanza e insieme ad essa le promesse. Non si dà umanamente alcuna speranza … poi in modo del tutto miracoloso giunge Isacco, “il figlio della promessa” tanto desiderato, nella nuda fede. E Dio chiede ad Abramo di sgozzarlo in suo onore.

Non sfugge ai commentatori ebrei che tanto la prima che l’ultima prova, quella del Legamento del figlio, sono introdotte nel testo dalla medesima formula, va per te:

Va per te. Due volte è scritto “va per te”, ma noi non sappiamo quale sia la più cara, se la prima o la seconda. Tuttavia, da ciò che è scritto: Va per te nella terra di Moria, apprendiamo che la seconda è più cara della prima.

Il cammino esistenziale di Abramo, fondato sulla fede nel suo Dio, si presenta così come un itinerario di progressiva spogliazione di ogni certezza – perfino quella radicata sui doni divini! – di “separazione” assoluta da tutto ciò che gli è più caro (la patria d’origine, il figlio stesso tanto atteso e amato), perché in lui si compia una consacrazione perfetta al Signore.

Il Legamento di Isacco si colloca dentro una storia, che va conosciuta per potersi accostare consapevolmente a questa misteriosa pagina biblica. D’altra parte, di questa storia la Aqedah costituisce il vertice e per così dire la stessa giustificazione. Solo dicendo sì alla richiesta tremenda di Dio, Abramo saprà dare un senso a tutta la sua vita, a tutte le prove superate in precedenza, all’intera sua relazione con Dio: in caso contrario, sarà un fallito e tutta la sua vita, una sconfitta. Ma Dio stesso in realtà sarà sconfitto, perché egli per primo “ha creduto” in Abramo, lo ha eletto a suo partner per adempiere il suo disegno di salvezza che ha per destinatario il mondo intero.

Ecco la legittima suspense che afferra chi si accosta al testo, dopo averne appreso adeguatamente gli antefatti. Il destino del mondo è appeso alla risposta di Abramo. Se dice”no”, se si ribella, se tronca il suo rapporto di alleanza con Dio, non nascerà il popolo d’Israele, destinatario delle promesse d’Israele. E non nascendo Israele, non verrà nel mondo il Messia.

Il racconto di Genesi 22 è stato fatto oggetto di innumerevoli interpretazioni: in che modo la tradizione d’Israele contribuisce in modo determinante a sciogliere l’enigma del testo?
In un certo senso, l’interpretazione ebraica di Gen 22 è “infinita”. I cardini della comprensione del testo sono però essenzialmente tre e contribuiscono in modo decisivo a gettare una luce inaspettata su questa pagina così misteriosa e sconcertante della Bibbia.

Il primo aspetto è l’affermazione della fede di Abramo. Il patriarca si appresta al sacrificio “sapendo” che, in un modo o nell’altro, Dio sarà certo fedele alla sua promessa. E’ questo che dà valore alla sua obbedienza: essa è dettata dalla fede, non dalla disperazione! Abramo è dunque, riprendendo Kierkegaard, “il cavaliere della fede” che, nella notte della prova, penetra nel segreto di Dio, entra in virtù del suo amore, in una relazione nuova con il Signore, fino al punto di potere “vedere” il suo volto, come suo eletto, suo amico. E’ per questo che Abramo, conforme, al suo nome, diviene il “padre” della fede per ebrei e cristiani.

Il secondo aspetto è l’affermazione della volontarietà del sacrificio di Isacco. Ciò può davvero sconcertare il lettore, perché il testo sembra tacere al riguardo: ma i maestri d’Israele, indagando sulla parola della Scrittura secondo i loro metodi ermeneutici, non hanno al riguardo alcun dubbio. Ecco un esempio.

Subito (nel racconto) Isacco tremò e i scossero le sue membra, perché riconobbe il pensiero del padre suo, e non riusciva a parlare. Tuttavia si fece forza e disse al padre suo: “Se è vero che il Santo, benedetto egli sia, mi ha eletto, la mia anima è data a lui!”. E Isacco accettò con pace la sua morte, per adempiere il precetto del suo creatore.

La “morte” di Isacco, secondo alcune fonti: è assolutamente reale, al punto che egli sperimenta in seguito la risurrezione, di cui diviene il primo testimone nella fede di Israele.

E veniamo così al terzo aspetto fondamentale, che è la affermazione del perenne valore salvifico della Aqedah. Qui i testi davvero si sprecano. Fu in virtù del Legamento di Isacco che in futuro Dio libererà Israele dalla schiavitù egiziana; l’asino usato dai patriarchi sarà lo stesso che cavalcherà il Messia quando porterà la salvezza al suo popolo; perfino la risurrezione dei morti, che è l’apice delle promesse di Dio, sarà determinata dalla obbedienza di Abramo e Isacco …

Davvero la tradizione d’Israele prende per mano il lettore e gli dischiude possibilità di senso del testo, che giungono inaspettate e permettono di cogliere le infinite, inesauribili ricchezze della parola divina. Certo è necessario compiere uno sforzo, perché l’approccio ebraico tradizionale alle Scritture (il cosiddetto midrash) non corrisponde alla nostra formazione culturale. Spero però, nella Introduzione, di avere fornito strumenti adeguati per accedere a un “altro mondo” culturale: e se il lettore si applica con costanza, credo possa riconoscere quanto valga la pena di lasciarsi arricchire dal potente pensiero di Israele.

Come possiamo, noi, oggi, lasciarci interpellare personalmente dal racconto?
Questa è la domanda più pertinente: cosa può dire il pensiero di Israele a noi “oggi”? O in altri termini: vale la pena di sobbarcarsi la fatica di accostare una tradizione esegetica così diversa dalla nostra, che ci fa incontrare parole commenti formulati in epoche lontane, apparentemente estranee alla nostra esperienza esistenziale?

Ma a ben vedere, il problema affrontato dalla tradizione d’Israele è lo stesso che più che mai ci interpella, e anche angoscia in questi tempi così difficili? Che senso ha il dolore? O meglio ancora: che senso ha la nostra vita, quando è caratterizzata dall’assurdo, da una notte senza scopo?

E in definitiva, giungendo al nocciolo della questione: chi è l’uomo e chi è Dio, che tollera il dolore e addirittura sembra legittimarlo con il suo imperscrutabile volere? C’è una pagina della letteratura ebraica che affronta in recto queste tremende problematiche e sta alla base di tutta l’interpretazione della Aqedah. Nel testo originale del racconto, quando Dio chiede ad Abramo di offrirgli il figlio, dice letteralmente:

Prendi, “ti prego” (na), tuo figlio.

Questa particella, na, è omessa nella versione cattolica ufficiale del testo; e invece ne orienta tutta l’interpretazione. Commenta al riguardo Rashi, il più autorevole esegeta ebreo del Medioevo:

Il termine na indica sempre una supplica.

Ecco il rovesciamento dell’interpretazione del testo! Il comando di Dio, che parrebbe qualificarlo come un demone capriccioso, è in realtà una supplica rivolta al suo amico, che seguendo i maestri d’Israele potremmo formulare in questi termini:

Ti supplico, fidati di Me, sii tu il mio partner nella mia causa nel mondo, coopera mediante la fede al mio disegno di salvezza!

L’intero episodio acquista una luce completamente nuova, rispetto a una lettura affrettata, non sorretta dalla grande tradizione ebraica. Dio non si rivolge ad Abramo come a uno schiavo, ma come a un “amico”, un alleato fedele, di cui rispetta appieno la libertà. “Ti prego”, dice il Signore. Fidandosi di lui, Abramo consentirà al suo Dio di effondere la benedizione nel mondo, di annientare le forze del male; fidandosi di lui, Abramo dimostrerà che Dio non si è sbagliato a creare l’uomo, questo essere così infido, che nel patriarca si mostra però un vero partner del Signore, degno di ricevere un incarico che nella sua assurdità porterà la salvezza messianica nel mondo.

E questo vale anche per noi. Quando, nel nostro cammino esistenziale, ogni luce viene meno, quando l’assurdo prende il posto di ogni ragionevolezza e ci è chiesto di continuare ad avere fede, nell’atto stesso in cui essa è smentita, in termini esperienziali, dalla tragica realtà degli avvenimenti. In quell’ora, più che mai, il racconto misterioso della Aqedah diviene il “nostro” racconto esistenziale, la cifra del nostro vivere. E Abramo, il padre della fede, ci prende per mano, è accanto a noi nella notte, sollecitandoci alla nuda fede  nel disegno di salvezza divina.

Questo itinerario, ci dicono i maestri, ci condurrà a fissare i nostri occhi sul volto di Dio, adempiendo così la nostra vocazione di uomini, creati proprio in vista di questa comunione.

Questo itinerario ci renderà cooperatori di Dio nella storia: perché è la fede perfetta, generata dall’amore “ad ogni costo”, che porta nel mondo il regno di Dio.

Luigi Cattani si è laureato in Lingua e letteratura ebraica a Venezia (Università Ca’ Foscari). Ha continuato ad approfondire la riflessione teologica sui rapporti tra ebraismo e cristianesimo sotto la guida di don Giuseppe Dossetti, della cui comunità fa parte. Si è specializzato nell’edizione di testi esegetici ebraici, in particolare il Commento al Pentateuco di Rashi di Troyes, e di fonti liturgiche. Insegna cultura ebraica presso la Facoltà teologica dell’Emilia.

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