“L’usura nel medioevo” di Ettore Gucciardo

Dott. Ettore Gucciardo, Lei è autore del libro L’usura nel medioevo edito da ETS: cosa si intende con il termine «usura» nel medioevo?
L’usura nel medioevo, Ettore GucciardoNel medioevo sono state formulate numerose definizioni di usura da alcuni dei più influenti autori scolastici, i quali in accordo ed in continuità con la tradizione cristiana andarono via via specificandone il significato.
Fin dalle prime interpretazioni del testo biblico il termine usura è stato al centro di accese discussioni fra esponenti di una economia in crescente sviluppo, da una parte, ed istituzioni religiose dall’altra.
Una delle prime definizioni potremmo farla risalire a sant’Ambrogio “usura è pretendere più di quanto si sia dato“, e dal decreto di Graziano “tutto ciò che viene richiesto oltre il capitale è usura”. Mentre un’altra definizione che influenzo in modo particolare il mondo cristiano fu quella di Urbano III il quale, nella Decretale Consuluit, riprese il passo del Vangelo di Luca “fate del bene e prestate senza sperarne nulla” interpretandolo come proibitivo dell’usura. L’uso della parola “sperare” introdusse un elemento di novità, rappresentata dall’intenzione del prestatore, ciò al fine di colpire più incisivamente quella forma di usura fatta allo scopo di eludere la giustizia terrena, ma inutile di fronte a quella divina che non ammette simili scappatoie, che non possono essere celate davanti a Dio.
Nei secoli successivi, direi a partire dal tredicesimo secolo, seguirono altre e più dettagliate descrizioni del fenomeno usuraio le quali avevano l’obiettivo di conciliare la tradizionale condanna con la crescente esigenza di credito da parte, non più soltanto, di poveri agricoltori e artigiani ma anche da parte di ricchi commercianti. Da queste premesse nascerà la teoria dell’interesse che è, in un certo senso, complementare alla definizione di usura pur rimanendone distinta.

Quando e come nasce la proibizione biblica e canonistica dell’usura?
Nella Bibbia i riferimenti all’usura sono ricorrenti e li ritroviamo sia nell’antico che nel nuovo testamento, ma in particolare, a mio parere, alcuni passi segnano fondamentali differenze interpretative. Nel Deuteronomio troviamo “Non farai a tuo fratello prestiti a interesse né di denaro, né di viveri né di qualsivoglia cosa che si presta ad interesse. Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non al tuo fratello, affinché l’Eterno Iddio tuo ti benedica, in tutto ciò a cui porrai mano, nel paese dove stai per entrare per prenderne possesso. (DT 23,20)
Il duplice metro di misura è stato ampiamente discusso sia nella letteratura cristiana sia in quella ebraica. Nella interpretazione cristiana è prevalsa la tendenza ad attribuire un qualche ruolo positivo alla distinzione, tra fratello e straniero, solo nell’epoca antica del cristianesimo.

Il Nuovo Testamento come ricordato in precedenza vieta ogni forma di prestito erogato con l’intenzione di “speculare” e chiede di non negare aiuto in denaro a chi nè a bisogno. Il che era provvidenziale nell’economia antica, ove la gran massa della povera gente era di continuo travagliata dall’urgenza di denaro per le necessità di consumo.
Ma qual era allora la posizione evangelica nei riguardi del prestito con funzione economica di finanziamento della produzione? Quando, cioè, l’usuraio non è più colui che si arricchisce ingiustamente, sfruttando la miseria della povera gente, ma diviene prestatore che viene incontro alle esigenze di finanziamento di coloro che ne necessitano per la costituzione di un capitale monetario?
A questo proposito giova ricordare la parabola dei talenti e delle mine. Narra Matteo (Mt, 25, 12-26) di quel ricco signore che, dovendo partire, distribuì dei talenti ai suoi servi, tenendo conto delle rispettive capacità. Al suo ritorno, chi aveva ricevuto cinque talenti, ne restituì dieci, chi due talenti, altri due. Quello che aveva avuto una sola moneta non poté che riconsegnarla, avendola conservata sottoterra, per paura di perderla e di male meritare. Dice l’evangelista che il Signore premiò i due servi intraprendenti, poiché avevano fatto fruttificare il capitale ricevuto, mentre condannò quello pavido che non si era neppure preoccupato di assicurarsi i pochi frutti provenienti dal deposito del talento presso i banchieri.

Questa interpretazione può sembrare ardita, soprattutto pensando alla futura intransigenza dei canonisti e degli scolastici in materia di mutuo, ma le successive parziali ammissioni degli stessi teologi pare costituiscano una riprova della saggezza con cui il vangelo, mentre è drastico e categorico in materia di mutuo per il consumo immediato, lascia invece la porta aperta alla giustificazione dell’interesse quando i prestiti riguardano la vita produttiva, in cui non è più questione di carità o di beneficenza, ma di un fenomeno economico, con le sue leggi di distribuzione e di riparto dei redditi.
La legislazione canonica sull’usura fu raccolta e ordinata nelle Decretales Gregorii IX a metà del secolo XII e promulgate nel 1234, prima di allora, alla stregua di molte altre attività economiche, l’usura veniva considerata “turpe lucrum” (profitto vergognoso), così come definita da Leone Magno nel secolo V.
Nei canoni contro l’usura, la “cupiditas” appare come cagione dominante: il patto di usura nasce dall’avidità della ricchezza ed è un guadagno disonesto.
Ma già Anselmo da Canterbury (1033-1109) e successivamente il suo discepolo Anselmo da Lucca nella propria raccolta di canoni, definirono questo fenomeno come peccato contrario al settimo comandamento “Non furtum facies”. Fu proprio in questo periodo che la definizione di usura come turpe lucrum lascio il posto all’idea che essa dovesse essere considerata come un furto; Furto del tempo che appartiene a Dio e di conseguenza l’usura era considerata un peccato contrario alla legge naturale ed alla giustizia.
Con l’emanazione delle Decretales si stabiliva che, analogamente a quanto avviene per il furto, le usure dovessero essere restituite (quest’obbligo fu esteso anche agli eventuali eredi) con la sola eccezione della materiale impossibilità. Ciò riguardava ad esempio terre acquistate con proventi usurari che dovevano essere rivendute al fine di consentire la restituzione a chi direttamente danneggiato o ai suoi eredi ed in mancanza di quest’ultimi ai poveri.

Quali motivazioni di ordine teologico e dottrinale erano alla base della condanna dell’usura?
In questo libro ho voluto porre l’accento più sulle motivazioni di carattere storico-economiche che portarono alla progressiva specificazione di una pratica che nel tempo si andava diffondendo nei mercati, piuttosto che addentrarmi in considerazioni totalmente incentrate su aspetti puramente teologici di cui peraltro non possiedo adeguate conoscenze. Non vi è dubbio però, come detto precedentemente, che le argomentazioni degli studiosi di quel periodo, in prevalenza teologi, erano soprattutto fondate sull’interpretazione delle Sacre Scritture, quindi, in gran parte, avulse dal contesto socio economico del periodo. Ma vi furono alcune illustri eccezioni.
In questo senso, a metà del sec. XIII, appare emblematica la posizione di due maestri all’università di Bologna, Sinibaldo de’ Fieschi, futuro papa Innocenzo IV (m. 1254) ed Enrico da Susa (il cardinale Ostiense, m. 1271).

Mentre il primo mise in risalto la dannosità morale e anche sociale dell’usura, e insieme negò ogni possibilità di eccezione al divieto anche per il mondo mercantile, il secondo, pur concordando col Fieschi sulla pericolosità sociale dell’usura, affermò pure il diritto del mercante a ricevere una ricompensa adeguata allorché avesse sottratto del denaro ai propri investimenti per darlo in prestito.
Se si esercitassero le usure, scriveva Innocenzo IV, l’agricoltura che è una attività con un tasso di rendimento più basso e un livello di rischio maggiore del prestito, verrebbe abbandonata. In conseguenza di ciò, non solo verrebbe a moltiplicarsi la povertà e la miseria ma altresì colui che si arricchisce cadrebbe in quel culto idolatrico del denaro, che è l’avarizia.
Enrico da Susa, cardinale vescovo di Ostia, pur essendo in accordo con Innocenzo IV sulla pericolosità sociale e morale del prestito feneratizio, esprime d’altra parte una certa apertura alla possibilità di una richiesta di interessi su un prestito accordato da un mercante, come risarcimento del mancato guadagno, ponendosi in tal modo in aperta opposizione con il papa. Quest’ultima opinione fu minoritaria, per tutto il medioevo e rimase ai margini delle grandi costruzioni dottrinali sull’usura, ma non solo non si spense, andò arricchendosi di importanti contributi, addotti da teologi di valore, come il francescano Pietro di Giovanni Olivi (m. 1298).
Il cardinale Ostiense elencò non meno di dodici casi in cui il pagamento di un interesse sul prestito non costituiva usura. La cauzione richiesta al garante del prestito, il risarcimento in caso di restituzione tardiva del prestito, ovvero la possibilità per il venditore di far pagare un prezzo maggiorato nel caso di vendita su credito sono solo alcune delle eccezioni all’usura proposte dal cardinale. Egli accettò anche la possibilità che il debitore desse un dono al creditore, a condizione che il regalo non fosse richiesto dal creditore.

Ma le eccezioni più importanti sono sostanzialmente due: la prima è la possibilità di richiedere un risarcimento nel caso di insolvenza del debitore. In tal caso, ciò che si aggiunge alla somma prestata non costituisce più usura ma prende il nome di “interesse”, il cui pagamento fu generalmente accettato sia dai teologi sia dai canonisti. Il secondo caso era il riconoscimento della liceità di un accordo per il rimborso ad un mercante di una somma superiore a quella da egli prestata, come ricompensa per un mancato guadagno. Ciò equivalse a riconoscere il patto di interesse di lucro cessante (lucrum cessans), stipulato sin dall’inizio del mutuo, quello che in economia verrà definito il “costo opportunità” di un mancato guadagno applicato alla riscossione degli interessi.

In che modo si giunse alla teoria dell’interesse?
Dal riconoscimento di tali “eccezioni” nacque ed iniziò il suo sviluppo quella che oggi viene comunemente definita la teoria dell’interesse. Essa ebbe, fin dalla sua prima formulazione, problemi nella sua accettazione e nella sua diffusione tra teologi e canonisti. Il principio della carità e la nozione di sterilità del denaro costituirono un primo ostacolo alla sua crescita. Se per alcuni versi, le barriere teologiche sulla naturale gratuità del prestito e l’idea di sterilità della moneta vennero parzialmente superate, il criterio dell’intenzione rimase per tutto il medioevo un principio sempre valido e indispensabile per giudicare la liceità di molti contratti
Il concetto di “interesse” pervenne ai teologi e ai canonisti all’inizio del sec. XIII grazie alla mediazione dei due grandi civilisti Azzone e Accursio. Nel Diritto romano “l’id quod (creditoris) interest” è la valutazione del danno soggettivo derivato al creditore dal mancato adempimento di una obbligazione. Questa espressione, usata all’infinito interesse – entrò nella terminologia corrente, contrapponendosi nettamente all’usura.

Il termine interesse, nelle trattazioni scolastiche, viene utilizzato nello stesso senso in cui è presente nel Diritto romano. La distinzione dall’usura è così riassumibile: «id est non lucrum, sed vitatio damni», cioè l’interesse a differenza dell’usura viene inteso semplicemente come compensazione di un danno, inoltre esso viene associato al prestito solo accidentalmente.
I giuristi romani non fecero mai riferimento all’interesse in relazione al mutuum, a differenza di quanto accadeva normalmente nel caso di usura.
Come sostiene Amleto Spicciani, «sulla liceità – in generale – dell’interesse, e sulla sua netta distinzione dall’usura, furono d’accordo sia i teologi sia i canonisti. Furono pure d’accordo sul riconoscimento del diritto all’interesse in caso di insolvenza del debitore; molto più complesso e articolato fu invece il dibattito sulla liceità del patto di interesse stabilito fin dall’inizio del prestito indipendentemente da un possibile ritardo o da un inadempimento del debitore», il cosiddetto “interesse puro”.

Chi sono i protagonisti della discussione teologica e canonistica sull’usura nei secoli XIII-XV?
Alcuni tra i più attenti osservatori del fenomeno creditizio in questo particolare periodo storico furono senza dubbio Pietro di Giovanno Olivi, Bernardino da Siena e Antonino da Firenze, i quali concentrarono gran parte della loro analisi oltre che sui mali sociali che il diffondersi di tale pratica avrebbe causato alla popolazione (ciò evidentemente in accordo con tutti i “colleghi” contemporanei), si sforzarono di comprendere il motivo per il quale l’usura (ma in particolare il prestito mercantile ad interesse) si stesse diffondendo nelle loro città. Il primo di questi studiosi, forse il meno conosciuto, è in realtà colui che per primo indicò l’elemento cardine sul quale ruotava l’intera costruzione del meccanismo creditizio, la definizione di “capitale”. Il teologo francescano Pietro di Giovanni Olivi (m. 1298) dà del capitale questa definizione “Il danaro che nella decisione del suo proprietario (in firmo proposito domini sui) è destinato a fruttare un lucro probabile, non è più semplice moneta, ma assume una potenzialità di guadagno (seminalem rationem lucrosi) che meglio possiamo chiamare capitale”

L’Olivi, grazie all’introduzione dell’idea di capitale, amplia il ragionamento iniziato dal cardinale Ostiense, il quale, come ho detto, colloca l’interesse di lucro stipulato sin dall’inizio del contratto tra le eccezioni alla proibizione canonica dell’usura. Diversamente, l’Olivi non considera più l’interesse come eccezione all’usura, ma lo definisce piuttosto come un atto totalmente diverso.
Il pensiero economico dell’Olivi ci è pervenuto indirettamente, tramite la trascrizione di Bernardino da Siena, da cui attinse poi Antonino da Firenze. Solo recentemente è stato ritrovato il testo che la condanna dei suoi scritti aveva sottratto all’attenzione degli studiosi.

Nel 1953, Dionisio Pacetti, uno dei principali editori del Collegio di San Bonaventura di Quaracchi a Firenze, ebbe a scoprire un’opera di Pietro di Giovanni Olivi fino ad allora sconosciuta. Da questo stato di cose nacque la necessità (colta dallo storico A. Spicciani) di una attenta rilettura critica di Bernardino da Siena ed Antonino da Firenze per determinare i loro singoli e personali apporti al pensiero economico medioevale.

Vale la pena di ricordare che uno dei più importanti studiosi in materia: J. A. Schumpeter nel suo monumentale lavoro “Storia dell’analisi economica” affermare che: «non sembra che occorra ancora spiegare perché l’economia dei dottori scolastici assorbisse con tanta facilità tutti i fenomeni del nascente capitalismo e, quindi, perché essa servisse cosi bene da punto di partenza pel lavoro analitico dei successori, non escluso Adam Smith.». Schumpeter insiste nel dire che:«l’economia giunse ad avere un’esistenza definita, se non separata, proprio nei loro sistemi di diritto e di teologia morale: se si potesse parlare di “fondatori” dell’economia scientifica, questo titolo spetterebbe ad essi più che ad ogni altro gruppo. Non solo ma le basi che essi gettarono per un complesso armonico di strumenti e proposizioni analitiche erano più solide di quanto fossero quelle di una parte notevole del lavoro successivo».

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