
Quale immagine del poeta emerge dagli aneddoti su Dante?
L’immagine non è una sola, ma sono tante e diverse, quasi delle istantanee scattate di sorpresa. Ne risulta un Dante per tutte le stagioni, ora fedele ai ritratti ufficiali dei biografi ora lontano da quanto ci si aspetta dalla lettura delle sue opere e dagli studi specialistici. Quella più comune lo raffigura come uomo severo, scostante, dedito a speculazioni profonde, disdegnoso, rigido nella dirittura morale. Un personaggio tormentato e intimidatorio, insomma. Ma ci sono anche le situazioni leggere che ce lo mostrano divertito mentre idea e scrive i suonacci emessi da Barbariccia e dalla scalcinata ma pericolosa pattuglia dei Malebranche, o quando allerta un nobile eccessivamente ottimista nel consentire alla moglie troppo private consulenze spirituali da parte di un avvenente frate. Si trovano anche immagini in contrasto fra loro, per esempio in tema di vicende amorose: da un lato il libertino, sia in gioventù nelle case di piacere bolognesi sia nell’età matura con una prostituta di Ravenna, dall’altro il consigliere alieno dalle passioni erotiche. È interessante notare che in questi aneddoti Beatrice si limita a una comparsata.
In che modo gli aneddoti raccontano il percorso storico della ricezione del profilo intellettuale del poeta?
Gli aneddoti sono soggetti a riscritture e hanno un andamento carsico. È difficile indicare con certezza la loro origine prima, ma se consideriamo la tenuta e la distribuzione nel corso del tempo riusciamo a capire quale aspetto di Dante è stato valorizzato e quale non ha suscitato attenzione. Quasi sempre il racconto equivale a un’interpretazione di un passo autentico e ha le sue basi negli scritti del poeta. Per esempio, l’aneddoto riferito da Boccaccio coi colori dei suoi migliori squarci cortesi su Dante totalmente immerso nella lettura di un libro, al punto di non rendersi conto che attorno a lui si svolge una rumorosa festa cittadina a Siena, con balli e musiche, rielabora un paio di passi del poema nei quali il personaggio Dante, intento ad ascoltare Manfredi, riferisce di aver perduto la nozione del tempo (Purg. 4, 1-18) e altrove sottolinea lo stato di chi, assorto in una fantasia, non percepisce nemmeno il suono di mille trombe (Purg. 17, 13-16). Il problema, in questi casi, è valutare se si tratti di una testimonianza storica, di una invenzione o di un misto di entrambe. Sta di fatto che l’aneddoto è coerente con l’immagine di Dante presente nei suoi testi.
Se consideriamo poi un importante vettore degli aneddoti, ossia l’immagine pittorica, constateremo, fra l’altro, che da circa metà dell’Ottocento fino al sesto centenario della nascita del poeta (1865) si concentrano i dipinti che illustrano alcuni momenti aneddotici che confermano il doppio ruolo di Dante quale nume risorgimentale, prima, e padre dell’Italia-Stato, dopo. Seguirà un affievolirsi dell’interesse figurativo per gli episodi biografici estranei a quelli trattati nelle opere, a tutto vantaggio delle illustrazioni della Commedia.
Quali sono i temi principali su cui vertono gli aneddoti da Lei raccolti?
Ce ne sono per tutti i gusti. Chi cerca l’aspetto pettegolo sarà soddisfatto dagli elenchi delle donne celebrate nei versi con tanto di nomi, cognomi e luoghi. Boccaccio riferisce con un malcelato stupore che la donna oggetto della passione dolorosa nella canzone ‘montanina’ (Amor, da che convien ch’io pur mi doglia) era una montanara del Casentino “la quale, se mentito non m’e, quantunque bel viso avesse, era gozzuta”.
Chi è interessato alle vicende dell’esilio troverà molte scene dalla vita di corte con le umiliazioni inflitte al poeta e le sue mordaci reazioni, ma anche con qualche crudele rivincita. C’è poi l’insieme delle superlative doti intellettuali dantesche, come la memoria capiente e duratura che gli permette di dibattere contemporaneamente quattordici dispute nello Studio di Parigi, ma anche di rispondere a distanza di anni, senza bisogno di riavviare il discorso, circa un quesito gastronomico sul miglior cibo e sul miglior suo condimento. È questo l’argomento di un esile aneddoto che l’arguzia di Achille Campanile sviluppa con effetti paradossali nel racconto L’uovo di Dante, dal quale ho ricavato il titolo del mio libro per sottolineare l’omaggio alla cibernetica memoriale del poeta che brilla sia nell’intera sua produzione sia nella dimensione quotidiana.
Come si è sviluppata la leggenda nera relativa al poeta?
Ci sono più fattori in gioco. In primo luogo la lettura ‘ingenua’ della prima cantica. Tutta la Commedia è costruita come una ghost story, nella quale il solo essere umano in carne e ossa è il poeta stesso impegnato ad attraversare i tre regni dell’oltretomba cristiano dialogando coi morti e inserendo profezie. La potenza del narratore crea un effetto di realtà al quale è difficile sottrarsi; e perfino un uomo colto come il notaio Francesco da Barberino, nella più antica attestazione sull’Inferno (seconda metà del 1314), sottolinea l’elemento demoniaco. Anche il famoso aneddoto raccolto da Boccaccio sulle popolane veronesi che spiegano il colorito scuro e la barba crespa di Dante con la frequentazione dell’inferno documenta questa fama sulfurea.
Occorre poi tenere conto che astrologia, astronomia, oroscopi e magia erano praticati quotidianamente dagli uomini e dalle istituzioni fra Due e Trecento. Non stupisce quindi che Dante sia stato indicato come esperto di necromanzia, ossia di evocazione dei demoni, in un verbale giudiziario presso la curia papale di Avignone nel settembre 1320, mentre era ancora in vita e attivo presso le corti ghibelline del Nord Italia. Nel quadro della violenta opposizione fra il papa Giovanni XXII, ossessionato dalla paura di essere vittima di sortilegi, e i ghibellini oltranzisti, come gli Scaligeri e i Visconti, la fama di necromante poteva essere sfruttata anche per condannare al rogo il poeta, se fosse caduto in mano nemica. Questa sorte era toccata a Cecco d’Ascoli, professore di astronomia all’Università di Bologna e fiero oppositore della concezione dantesca di poesia.
L’aneddotica rielabora narrativamente questi aspetti e ci consegna ora un Dante in contatto con l’al di là, ora un Dante alchimista detentore della ricetta della pietra filosofale, ora un Dante in odore di eresia, sottoposto a esame dall’inquisitore ma abile a dimostrare in versi l’adesione alla dottrina ufficiale.
Quali, tra gli aneddoti riportati, ritiene i più inverosimili e quali invece hanno riscosso maggior credito?
Più che documenti gli aneddoti hanno valore di monumenti, e servono più a illustrare la ricezione di un personaggio in un certo periodo storico che a costruirne la biografia secondo criteri positivistici. Meglio quindi praticare una sospensione di giudizio.
Tuttavia, se accostiamo gli aneddoti a quel poco di certo che sappiamo su Dante Alighieri, i più inverosimili paiono quelli che lo pongono in visita presso la corte napoletana di Roberto d’Angiò, da lui detestato e sempre indicato mediante allusioni, e quelli che narrano le violente reazioni del poeta davanti alla storpiatura dei propri versi da parte di un fabbro e di un asinaio per le strade di Firenze: a quanto risulta, la Commedia fu composta e divulgata dopo l’esilio; e difficilmente i due popolani avrebbero cantato (tale è il verbo usato da Franco Sacchetti) qualche rima dottrinale o altri versi.
Un credito alterno è stato accordato agli aneddoti relativi alla genesi del poema: Boccaccio riferisce in base a testimonianze altrui che i primi sette canti dell’Inferno furono scritti prima dell’esilio e che gli ultimi tredici canti del Paradiso furono ritrovati postumi proprio su indicazione del poeta apparso in sogno al figlio Iacopo. Occorre salvaguardare Boccaccio dal pregiudizio dominante che lo vuole sempre intento a inventare novelle: egli sa benissimo indicare i limiti e la plausibilità di quanto riporta. Sempre a Boccaccio si deve poi la trascrizione unica di un’epistola latina a firma di un frate Ilaro che, senza mai fare il nome di Dante, riporta l’avvio in latino dell’opera che sarebbe diventata la Commedia e si presenta come glossatore della prima parte. Questi casi saranno materia di un dibattito infinito per l’impossibilità di separare con certezza il vero dalla finzione.
Nel libro Lei riporta la tradizione aneddotica avente per oggetto un dettaglio apparentemente frivolo dell’aspetto di Dante, ma in realtà non del tutto innocente: la barba. Cosa si tramanda al riguardo?
Per chiunque di noi la visualizzazione di Dante corrisponde a uno stereotipo secolare che sostanzialmente ripete l’affresco di Giotto del Palazzo del Bargello a Firenze. È un viso glabro sormontato dal naso aquilino e coincide sostanzialmente con la descrizione verbale fatta da Boccaccio, il quale poi precisa che il poeta aveva “i capelli e la barba spessi, neri e crespi”. Certo Boccaccio non l’aveva mai visto di persona, ma quel che conta è che l’autoritratto fisico che Dante introduce nella Commedia conferma la presenza della barba. Quando, a Purg. 31, 61-75, Beatrice nel Paradiso Terrestre rimprovera il poeta per la progressiva involuzione del volo poetico dietro false immagini di bene gli recita il proverbio secondo il quale l’uccellino implume si lascia colpire più volte mentre l’uccello dotato di penne non si fa ingannare dalle reti dei cacciatori. Dante rimane zitto e a capo chino come il bambino rimproverato e Beatrice gli intima di guardarla per aumentare il suo castigo, dal momento che ora constaterà la bellezza immortale di lei alla quale aveva rinunciato. E, con vera perfidia, gli ordina “alza la barba”, e non dice “il mento”: la precisazione urticante rivela “il velen de l’argomento”, in quanto la gravità del peccato non si giustifica in un adulto. Solo a due terzi del poema Dante personaggio rivela questo dettaglio, che tra l’altro denota la trascuratezza di chi è in uno stato di disperazione e si smarrisce fuori della retta via. Pochi studiosi ammettono la presenza della barba sulle guance del protagonista del poema, proprio per il condizionamento con l’immaginario corrente.
Ho poi verificato che esiste una tradizione minoritaria di miniature della Commedia fra Tre e Quattrocento che rappresentano Dante barbuto e le riproduco nel mio libro. Un manoscritto fiorentino mostra addirittura il progressivo incanutirsi del personaggio nel corso delle cantiche, quasi a porre in primo piano l’esperienza storica del poeta immerso nella lunga composizione e non quella del personaggio che visita l’oltretomba in pochi giorni. E la barba spunta anche in alcuni dipinti e affreschi, come ha rivelato anche il recente restauro dell’affresco di Andrea del Castagno.
Luca Carlo Rossi insegna Letteratura italiana all’Università degli Studi di Bergamo. I suoi studi si concentrano in particolare su Dante e i commenti antichi alla Commedia, il Petrarca latino e la presenza del melodramma nella letteratura otto-novecentesca. Per gli Oscar Mondadori ha commentato la Vita Nova e il Fiore, di recente ripubblicati in versione aggiornata. Tra le altre pubblicazioni si segnalano Montale e l’«orrido repertorio operistico». Presenze, echi cronache del melodramma tra versi e prose (Sestante, Bergamo), Studi su Benvenuto da Imola (Sismel, Firenze) e l’edizione di G. Boccaccio-F. Petrarca, Griselda (Sellerio, Palermo).