“L’uomo con tre mani. Storie di corpi e identità” di Anna Berti e Francesca Garbarini

Prof.ssa Annamaria Berti, Lei è autrice con Francesca Garbarini del libro L’uomo con tre mani. Storie di corpi e identità edito dal Mulino: come nasce e si sviluppa la consapevolezza corporea?
L'uomo con tre mani. Storie di corpi e identità, Annamaria Berti, Francesca GarbariniQuesta è una domanda non facile a cui rispondere poiché dare pareri definitivi su argomenti così complicati, e tutt’ora oggetto di studio, è molto rischioso. Autori diversi hanno visioni diverse e spesso contrastanti. È necessario, a questo proposito, fare una premessa. Il nostro libro parte da una prospettiva neuropsicologica che consiste nel trarre inferenze sulla funzione normale partendo dall’osservazione di condotte patologiche, spesso, ma non sempre in modo evidente, prodotte da una lesione cerebrale. In altre parole, attraverso lo studio di un comportamento a cui ‘manca’ qualcosa si cerca di risalire ai meccanismi cerebrali che stanno alla base del processo normale. L’approccio neuropsicologico ha svelato, a partire dal secolo scorso, come la coscienza non abbia una struttura unitaria e monolitica ma, al contrario, si strutturi, in modi complessi, sulla coesistenza di diverse correnti di consapevolezza. In particolare, la neuropsicologia ha indicato come una lesione cerebrale possa alterare una forma di consapevolezza lasciando intatte le altre capacità cognitive e viceversa. Per la consapevolezza corporea succede lo stesso: può essere risparmiata o compromessa in modo selettivo. Quindi, per tornare alla domanda, la consapevolezza corporea, secondo molti studi, nasce e si sviluppa in modi relativamente indipendenti dalle altre consapevolezze che contraddistinguono la cognizione umana. Questo sia in senso evolutivo, durante lo sviluppo, che nell’adulto. È altresì importante per affrontare il discorso sulla selettività della consapevolezza corporea, sviluppato in questo libro, cercare di definirla e specificare a che cosa ci si riferisca. In diversi dizionari il corpo viene definito genericamente come una porzione limitata di materia caratterizzata da diverse proprietà che le conferiscono una individualità. Il corpo è, quindi, un oggetto naturale, separato dagli altri oggetti e soprattutto separato dagli altri corpi. L’idea della separazione rispetto ad altre entità ne implica l’unicità e l’irripetibilità. Inoltre, se ci riferiamo al ‘nostro’ corpo, vissuto in prima persona, allora esso ha qualcosa di esclusivo per chi lo possiede e cioè il fatto di riconoscersi in esso, di distinguerlo dagli altri corpi (cioè riconosciamo, senza pensarci, che i corpi degli altri non appartengono a noi) di essere gli unici a poterlo usare nella vita quotidiana per raggiungere determinati scopi (i nostri scopi) e di essere gli unici a provare quelle sensazioni, ad avere quelle esperienze, derivanti dall’interazione del nostro corpo con il mondo esterno. Il cervello ha quindi delle rappresentazioni e dei meccanismi che si riferiscono a queste esperienze senso-motorie. Inoltre, nel genere umano, il corpo osservabile, e direttamente accessibile ai sensi, è caratterizzato dalla presenza di una testa, un tronco e 4 arti (due superiori e due inferiori) che sono le componenti di cui abbiamo maggiore consapevolezza. Il nostro cervello ha rappresentazioni anche di questa struttura sia per riconoscere il proprio corpo che per riconoscere il corpo altrui. A questo proposito molti autori, se pur con diverse sfumature di significato, distinguono tra l‘immagine corporea’ (che rappresenterebbe da un lato le percezioni e le sensazioni relative alle specifiche parti del nostro corpo e dall’altro le credenze e le conoscenze che abbiamo su di esso) dallo ‘schema corporeo’ (rappresentazione non direttamente accessibile alla coscienza che entra in gioco quando nella programmazione e nel controllo dei movimenti del corpo e delle sue azioni nello spazio). Ad esempio, l’affermazione ‘sento un dolore sulla mia mano destra’ implica una percezione soggettiva, in prima persona, riferita a una parte di corpo che riesco a localizzare e che so appartenere a me (immagine corporea). Se con la mano destra decido di afferrare un oggetto, le computazioni senso-motorie necessarie per quell’azione (che permettono di cogliere la posizione dell’arto nello spazio e le sue relazioni con gli altri oggetti) dipendono dallo schema corporeo. Dal funzionamento di queste rappresentazioni emerge e si struttura la consapevolezza corporea e le varie patologie descritte nel nostro libro si riferiscono, nel modello da noi proposto, al danno o alla momentanea interruzione da parte di una lesione cerebrale di uno o più dei molteplici sottosistemi a cui ho appena accennato. La conseguenza di queste lesioni è che a volte è possibile sentire come proprio un arto altrui o viceversa sentire come estraneo un arto proprio. I pazienti ci insegnano quindi che non vi è nulla di ovvio nel considerare il proprio corpo come appartenente a sé, così come non è scontato che i corpi altrui siano altro da sé.

In che modo la mente influenza il corpo?
La domanda posta in questi termini potrebbe far sorgere l’idea che il nostro libro abbia un’impostazione dualista dove mente e corpo vengono considerate due entità ontologiche distinte, o tuttalpiù due entità interagenti, dove una (la mente) avrebbe una posizione gerarchicamente superiore rispetto all’altra (corpo). Vorrei chiarire che il corpo entra in questo libro nella duplice veste di responsabile (attraverso il cervello) degli stati mentali delle persone e di entità fisica che ci separa dagli altri e ci identifica in modo univoco. Nei casi patologici da noi descritti il corpo è spesso colpito in questa sua duplicità. Da un lato la lesione cerebrale, di per sé danno corporeo, può causare un difetto motorio o sensoriale, cosiddetto ‘primario’ perché dipende dal danno alle aree del cervello responsabili del movimento e della percezione degli stimoli esterni. Dall’altro la lesione stessa causa un disturbo più ‘cognitivo’ nella percezione della struttura e della consapevolezza corporea. Se per ‘mente’ o ‘mentale’ si intendono le false convinzioni che emergono dai danni cerebrali, allora queste impattano in modi decisivi sui comportamenti dei pazienti che coinvolgono il corpo. Ad esempio, quando il danno cerebrale colpisce la possibilità di muovere un arto (generando quella che anche nel linguaggio comune si chiama paresi), anche i sistemi di controllo e consapevolezza motoria possono essere alterati dalla lesione al punto da generare nel paziente la falsa convinzione di poter muovere ancora l’arto affetto dalla lesione (questo disturbo viene chiamato ‘anosognosia’, cioè non consapevolezza della malattia). Questa falsa convinzione porta il paziente a comportarsi come se fosse ancora in grado di muovere l’arto e se l’arto colpito fosse l’arto inferiore (la gamba), il paziente potrebbe addirittura tentare di alzarsi in piedi rischiando di cadere. Ancora, se a un paziente con paralisi di un braccio e anosognosia (cioè un paziente convinto che l’arto paralizzato può ancora muoversi) viene chiesto di disegnare con la mano sana delle linee e con il braccio malato (ma che lui è convinto si possa ancora muovere) dei cerchi, le linee diventano degli ovali, esattamente come succede nelle persone senza danno cerebrale, poichè in condizioni normali i programmi motori delle due mani, nelle azioni bimanuali, si contaminano. Questo dimostra che la falsa convinzione (la ‘mente’ della domanda), che dipende dal fatto che il danno cerebrale ha danneggiato la consapevolezza motoria, influenza i programmi motori dell’arto sano (il corpo).

Tornando al ‘dualismo’ a cui accennavo prima e alla sua alternativa, ‘il riduzionismo’ (che invece, ‘incorpora’ nel cervello le funzioni mentali) è sicuramente importante chiarire che il nostro approccio parte dall’accettazione che il mentale sicuramente dipende, anche se in forme non ancora definite, dalle modificazioni degli stati fisici del cervello così come le alterazioni comportamentali raccontate nel libro sono immediata conseguenza delle modificazioni cerebrali conseguenti a lesioni organiche.

Quali spiegazioni ha la sindrome dell’arto fantasma?
Per il lettore che non ne avesse mai sentito parlare, la sindrome dell’arto fantasma consiste nel fatto che persone che hanno subito l’amputazione di un arto continuano ad avere percezioni sensoriali riferibili all’arto, ad avvertirne la presenza, e addirittura a sentirne i movimenti. Alcuni pazienti dicono di non riuscire a inibire alcuni movimenti automatici che l’arto, se ancora presente, farebbe in risposta a determinati stimoli ambientali. La sensazione riferita dai pazienti (che in questo caso non hanno subito nessuna lesione cerebrale) è molto forte, proprio come se il movimento avvenisse veramente. È stato anche dimostrato che le persone che riferiscono queste sensazioni, nel test ‘cerchi e righe’ (che ho appena descritto nei pazienti anosognosici) hanno l’effetto di ovalizzazione delle righe tracciate con la mano ancora presente quando viene loro chiesto di ‘disegnare’ dei cerchi con la mano fantasma. Così come le sensazioni provate sono probabilmente riconducibili al fatto che le stimolazioni del moncone attivano le mappe sensoriali del cervello che sopravvivono all’amputazione, la percezione del movimento ‘fantasma’ dipende dalla persistenza dell’attività delle aree motorie che continuano a inviare ‘comandi’ per l’azione, comandi che di per sé sono sufficienti per generare la sensazione di movimento reale. Nel nostro libro abbiamo citato l’arto fantasma come sindrome opposta a una condizione clinica, conseguente a un danno cerebrale, in cui i pazienti si comportano come se l’arto affetto dalla lesione non esistesse più. Infatti non lo usano per compiere azioni (anche quando non è affetto da paralisi) e non riportano nessuna percezione riferibile al braccio o alla gamba colpiti dal disturbo. In questa situazione, definita emisomatoagnosia (mancata consapevolezza di una parte del corpo) sembra che il paziente si ‘dimentichi’ di avere un arto, mentre nell’arto fantasma è come se il paziente si ‘dimenticasse’ di non averlo. In un caso (emisomatoagnosia) la lesione cerebrale ha alterato le rappresentazioni corporee così da indurre una mancata consapevolezza di una parte del corpo, ancora presente. Nell’altro (arto fantasma), la persistenza della rappresentazione corporea, in assenza dell’arto, produce l’errata sensazione che l’arto amputato continui a far parte del proprio corpo.

Quali sono le cause di comportamenti come l’attribuzione al nostro corpo di parti di corpi altrui o il rifiuto di parti del nostro corpo?
L’attribuzione di arti altrui al proprio corpo (incorporamento patologico) consiste nel fatto che pazienti con danno di un emisfero cerebrale, in presenza di un arto di un’altra persona posizionato in modo compatibile con il proprio corpo (immaginate il paziente seduto con le braccia appoggiate a un tavolo e un’altra persona che da dietro inserisce un suo braccio, per esempio il sinistro, tra il braccio sinistro del paziente e il corpo del paziente) sostengono che quel braccio ‘alieno’ appartiene a loro, in modo molto convinto e acritico. Il rifiuto dei propri arti si osserva, invece, in una condizione clinica opposta (definita somatoparafrenia) in cui il paziente sostiene che una delle sue braccia (o gambe) appartiene a un’altra persona. Nel primo caso, è possibile che il danno cerebrale abbia talmente alterato la rappresentazione corporea da renderla labile, ma non del tutto assente. In questa condizione il sistema è pronto ad accettare come proprio qualsiasi arto che si trovi in una posizione compatibile con il corpo. Da qui l’incorporamento di arti anche molto diversi dal proprio. Nel secondo caso, invece, è possibile che il danno cerebrale abbia talmente danneggiato la rappresentazione cerebrale di un lato del corpo da non rendere riconoscibili gli arti di quel lato, inducendo il paziente ad attribuirli a qualcun altro. La non corrispondenza tra l’immagine corporea (mutilata) e il corpo fisico (comunque dotato di quattro arti) produrrebbe il rifiuto dell’arto la cui immagine è stata ‘cancellata’ dalla lesione.

Una forma di discorporamento ancora più inattesa la si osserva in persone che, senza apparente danno cerebrale, provano una tale repulsione verso un arto del loro corpo da volerlo addirittura amputare. Questa forma estrema di rifiuto (definita spesso con l’acronimo BIID perché fa parte dei Body Identity Integrity Disorder), quando isolata da altri sintomi psichiatrici, viene considerata come una forma congenita di alterazione della consapevolezza corporea. In altre parole, per motivi non noti, il cervello della persona con BIID sarebbe privo, fin dalla nascita, della rappresentazione corporea relative a un arto. Mancando questa rappresentazione (l’immagine corporea di quell’arto), il paziente prova repulsione verso l’arto a lui completamente estraneo. È come se noi, che abbiamo un’immagine corporea di quattro arti, ci trovassimo improvvisamente ad avere un quinto arto (per esempio, un braccio in più). Sicuramente vorremmo toglierlo perché il nostro corpo non ci apparirebbe più come noi pensiamo e sentiamo che debba essere. Che il disturbo nei BIID sia congenito è suggerito dal fatto che il paziente BIID di solito ricorda di aver provato disagio per l’arto non desiderato fin dall’infanzia. L’ipotesi della mancanza congenita della rappresentazione di un arto è anche suggerita dal fatto che i pazienti con BIID sono spesso fin nell’adolescenza attratti dalle persone amputate, come a dire che avendo una rappresentazione ‘mutilata’ del proprio corpo si riconoscono nelle persone che corrispondono all’immagine mentale che loro hanno di se stessi.

Le storie dei pazienti descritte nel nostro libro, caratterizzate da una complessa sintomatologia neurologica e da ‘illusioni’ di non appartenenza di un arto al proprio corpo o di attribuzione al corpo di arti ‘alieni’, suggeriscono l’esistenza di un’articolata dinamica neurale che, in condizioni normali, è responsabile della costruzione di un’immagine corporea coerente e veridica, vissuta da noi come esperienza ovvia e unitaria. Le sindromi neuropsicologiche, alterando in modo selettivo e specifico alcune, ma non altre, rappresentazioni corporee ci svelano, invece, la molteplicità dei processi che stanno alla base della consapevolezza corporea.

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