
Una prima ed entusiastica visione sull’università digitale trasmette il senso di un’imminente e totale trasformazione nei mondi dell’istruzione superiore. In questo immaginario, le tecnologie digitali sono viste come forze dirompenti in grado di ‘rivoluzionare’ l’istruzione superiore e proiettarla verso futuri caratterizzati da maggiore efficienza, scelta, diversità, velocità e convenienza. Questa prospettiva è sfidata da un secondo immaginario di segno distopico che si concentra sui rischi che possono derivare dalla digitalizzazione dell’higher education in termini, per esempio, di perdita del controllo sulle tecnologie. Si tratta di una visione più ‘apocalittica’, per riprendere la famosa metafora di Umberto Eco, e con aspetti spesso tecnofobici.
Nel volume L’università digitale. Uno sguardo sociologico, mi propongo di superare queste tentazioni semplificative per problematizzare il rapporto tra tecnologie digitali e istruzione superiore attraverso una prospettiva critica che sia tesa all’analisi delle complessità e ambiguità piuttosto che alla formulazione di ‘diagnosi’ esatte o ‘soluzioni’ dirompenti. A tal fine, si tenta di intrecciare insieme in una narrazione organica i principali risultati dello studio sociologico critico sui processi di digitalizzazione nell’higher education, che sconta nel contesto nazionale una certa frammentarietà.
Viene così mostrato il ruolo ambivalente delle tecnologie digitali nell’istruzione superiore. Da una parte, i processi di digitalizzazione sembrano accompagnarsi alla (ri)produzione di forme culturali e sociali di segno neoliberale nei mondi dell’istruzione superiore. Dall’altra parte, queste stesse forme sono continuamente riconfigurate nell’esperienza quotidiana di utilizzo delle tecnologie digitali attraverso pratiche difformi, alternative e creative.
Le tecnologie digitali appaiono, in ogni caso, come una componente cruciale nei più vasti processi di produzione sociale e immaginazione culturale nell’higher education piuttosto che mero corredo o accessorio “naturale” nelle università. Come argomentato nel volume, l’uso delle tecnologie nelle università è questione giammai neutrale ma piuttosto politica e culturale poiché latrice di visioni del passato, del presente e del futuro della società e dell’educazione, e in grado di produrre profondi effetti su di queste.
Quali tendenze caratterizzano lo scenario contemporaneo dell’higher education?
Diversi significativi processi sono oggi in atto nei sistemi di istruzione superiore a livello globale che contribuiscono a ristrutturarne o riprodurne le logiche culturali, le strategie di funzionamento e le strutture organizzative.
Un primo importante processo riguarda la marketization dell’higher education, che è legata alla crescente infiltrazione nell’istruzione superiore di attori imprenditoriali, discorsi e meccanismi caratteristici del paradigma neoliberale, che enfatizzano il ruolo di efficacia, efficienza, responsabilità individuale, accountability e trasparenza nel management delle istituzioni pubbliche.
Queste trasformazioni hanno effetti di rilievi anche nel campo della valutazione nell’istruzione superiore, in cui i processi di neoliberazione delle politiche pubbliche hanno condotto a un mutamento nella funzione dello Stato – da ‘garante’ delle regole del gioco, a valutatore ‘a distanza’ delle prestazioni degli attori – e alla stabilizzazione nel settore pubblico di narrazioni imprenditoriali quali quelle della quality assurance, dell’accountability e della valutazione ex post della performance.
Un altro campo di rilievo è quello dell’insegnamento e dell’apprendimento, che negli ultimi decenni è diventato una questione di interesse nelle politiche e negli immaginari professionali anche per la centralità assunta nelle narrazioni dalla visione student-centred della didattica. Nonostante l’indubbia importanza di ‘desacralizzare’ il ruolo del professore universitario come sacerdote del sapere, l’eccessiva personalizzazione dell’apprendimento può far perdere di vista la questione cruciale della relazione educativa.
I processi di globalizzazione educativa sono anch’essi questione significativa oggi che riguardano le attività di terza missione delle università, così come la mobilità studentesca e quella accademica che si legano spesso a fenomeni di precariato o processi di espulsione. Più in generale, se da una parte l’internazionalizzazione accademica appare come un campo d’azione importante per l’affermazione dell’università nelle società, dall’altra essa può essere vista come un’ennesima forma di trascinamento dell’arena accademica nel flusso delle trasformazioni neoliberali.
Un ulteriore importante processo che ha investito l’istruzione superiore negli ultimi decenni riguarda la sua digitalizzazione, che è l’oggetto del volume. Oggi tecnologie e processi digitali mediano tutte le pratiche nell’istruzione superiore, mentre la questione dell’infrastrutturazione digitale degli atenei è affare economico miliardario di importanza globale. Diviene quindi importante interrogare questi complessi strati di attori umani e nonumani interconnessi negli ambienti universitari.
Quali specificità contraddistinguono il contesto italiano?
La genesi e lo sviluppo del sistema italiano di istruzione superiore hanno seguito una traiettoria complessa a cui hanno partecipato attori multipli e che ha condotto nel tempo a un assetto ibrido e ambiguo in cui convivono una componente burocratica e un graduale processo di allineamento neomanageriale.
La forza trainante che ha guidato lo sviluppo originario e la traiettoria iniziale del sistema italiano di istruzione superiore è stata un ‘compromesso burocratico-professionale’ tra Stato e oligarchie accademiche. Di fatto, erano le corporazioni accademiche a pilotare il sistema istruzione superiore, assumendo così un ruolo molto più importante di quello dello Stato nel governo del sistema.
Nella ‘stagione delle autonomie’ degli anni Novanta sono state introdotte riforme ispirate a un modello anglosassone o neomanageriale di higher education che miravano a limitare il potere dell’oligarchia accademica e spostare l’equilibrio del sistema verso una modalità di governo ‘a distanza’ dello Stato sulle attività accademiche. Questo modello ha potuto penetrare nelle università italiane su un piano solo ideologico piuttosto che pragmatico e culturale soprattutto a causa della resilienza storica dell’oligarchia accademica, che ha opposto resistenza a questi tentativi di ‘decentralizzazione centralizzata’ attraverso aggiramenti e riarticolazioni locali.
In una nuova apertura a modelli di steering-at-a-distance, a partire dai primi anni del nuovo millennio si è aperta una fase di deregolamentazione nelle politiche di istruzione superiore che le università italiane hanno sfruttato per moltiplicare le loro attività attraverso l’istituzione di nuovi corsi di laurea e forme organizzative. Questa situazione caotica è stata affrontata dallo Stato attraverso l’introduzione di nuovi vincoli e di una Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR). Si consumava così il terzo momento di una spirale di centralizzazione-decentralizzazione-ricentralizzazione che non aveva portato alcun cambiamento determinante nella governance del sistema di istruzione superiore italiano.
Ulteriori sforzi riformisti sono stati messi in campo a partire dal 2010. Il decreto-legge 112/2008 (cosiddetta ‘legge Brunetta’) e la legge 240/2010 (cosiddetta ‘legge Gelmini’) hanno introdotto lessici, repertori e leve finanziarie più esplicitamente ispirate al modello del new public management. In conformità col disegno europeo, queste riforme miravano a posizionare lo Stato come un ‘valutatore’ dell’attività accademica e le università come agenzie ‘imprenditoriali’ e orientate agli obiettivi. Venivano così importate narrazioni (efficienza, accountability, quality assurance) e strumenti (indicatori di performance, premi e sanzioni economiche, valutazione ex post, taglio dei costi, outsourcing, manager) dal mondo manageriale al mondo dell’educazione.
L’assetto di governance del sistema di higher education italiano appare così preso nella tensione tra modelli culturali diversi e tra processi di persistenza e cambiamento. Una prima dimensione è la componente burocratica, ovvero fondata sulla centralizzazione e il controllo statale attraverso strumenti quali regolamentazioni, griglie, procedure e forme ex ante di valutazione. Tuttavia, accanto a questa componente, si rileva per il caso italiano un graduale processo di policy transition verso il modello dominante di orientamento neomanageriale che si basa su un governo ‘a distanza’ dello Stato sulle attività accademiche attraverso strumenti tipicamente imprenditoriali quali premi e sanzioni, discorsi di efficacia ed efficienza, outsourcing. La piena realizzazione di questi processi di convergenza in Italia è ostacolata da eredità locali e caratteristiche storiche, come la tradizionale resilienza e resistenza al cambiamento nell’istruzione superiore italiana e la scarsa capacità dello Stato di supportare l’attuazione delle politiche.
Quali sono i più rilevanti processi di digitalizzazione attivi nell’università contemporanea?
Nel corso degli ultimi decenni, la digitalizzazione dell’istruzione superiore è avvenuta attraverso alcuni processi interconnessi che hanno prodotto trasformazioni a livello sociale e culturale nelle politiche e pratiche dell’higher education.
Un primo processo riguarda l’emergere e il consolidarsi di processi di datafication, intesa come trasformazione dell’attività sociale in dati. Sebbene oggi sia diffusa la convinzione nell’oggettività dei processi decisionali automatizzati e basati sui dati, la letteratura critica mostra con ricche evidenze empiriche il carattere non-neutrale e mai oggettivo delle tecnologie digitali (software, hardware, algoritmi, AI, ecc.). Da una parte, esse sono socialmente prodotte poiché nei processi di progettazione sono incorporati specifici valori e visioni. Dall’altra parte, esse sono socialmente produttive poiché queste visioni e valori producono effetti sociali. In algoritmi, cruscotti e visualizzazioni di MOOCs o LMS, ecc., particolari aspetti del mondo sono esibiti mentre altri sono silenziati. Per tal via è definito cosa gli studenti universitari, i docenti, e la stessa higher education dovrebbero essere e fare.
Un secondo processo ha a che fare con l’espandersi delle infrastrutture informatiche, che mediano un cruciale traffico di beni, idee, potere, persone e finanza nell’higher education. Esse riguardano materialità hardware (cavi, server, hub, ecc.) e software (database, ontologie, sistemi di classificazione, ecc.), ma insieme le trascendono per abbracciare e interconnettere più ampi reticoli che implicano istituzioni, staff amministrativo, aziende edtech (educational technology), attori politici e policy networks, algoritmi, ecc. In questo senso, è difficile distinguere nelle infrastrutture gli spazi della scienza e della tecnica, dell’etica e dei valori, del potere pubblico e privato. Il loro controllo conferisce ai proprietari grandi poteri per conoscere, misurare e inquadrare in categorie i soggetti e i processi dell’istruzione superiore.
Un ulteriore aspetto di rilevanza riguarda l’accelerazione di processi di platformization, ovvero la penetrazione delle piattaforme online (per es., MOOCs come Coursera, o LMS come Google Classroom) nell’higher education. Due ordini di effetti si intrecciano intorno a questi processi. Un primo livello si situa a livello di political economy e riguarda il nuovo potere di governance acquisito delle piattaforme oligopolistiche che sono ormai in grado di sfidare gli Stati nazionali a livello economico e politico. Un secondo – e connesso – ordine di effetti ha a che fare con la performatività delle piattaforme delle piattaforme (ovvero, la loro capacità di fare ‘cose’ nel mondo) sulla base di specifiche culture e valori che vi sono iscritti, mediando l’interazione tra attori economici e utenti e strutturando le interazione tra utenti.
Un quarto processo problematizzato nel volume è l’intensificarsi di processi di standardizzazione nell’istruzione superiore (sul piano della didattica, per es., gli ECTS/CFU o i Descrittori di Dublino), intesi come produzione di uniformità per il coordinamento della vita sociale a distanza. Come ogni altro ‘investimento in forme’, questa operazione non è neutrale poiché la scelta dei criteri di uniformità (e legittimità) del sistema sottende scelte di valore su ciò che è importante e ciò che è trascurabile. Questi processi producono sovente effetti di soft governance sui sistemi di istruzione superiore che è per tal via reimmaginata secondo principi di calcolabilità e misurabilità.
Infine, i menzionati processi di marketization nell’higher education si combinano significativamente con la digitalizzazione dell’istruzione superiore. Attori frammentati si mobilizzano lungo coordinate condivise, costruiscono alleanze e connessioni, e si assemblano in una ‘industria globale dell’higher education’ che si allea intorno al tentativo di re-immaginare l’higher education come un mercato economico e politico da aprire e sfruttare: aziende edtech, policy-maker, università, finanza, filantropia e organizzazioni del terzo settore. I discorsi neoliberali del libero mercato, della concorrenza, della performance, della calcolabilità e della misurabilità contribuiscono a saldare, legittimare e santificare queste unioni.
Quali trasformazioni, l’uso delle tecnologie digitali, porta nelle pratiche di lavoro e nelle identità professionali del personale delle università e in che modo ne risente l’esperienza quotidiana degli studenti universitari?
L’espansione delle tecnologie nelle università ha condotto a significative riconfigurazioni nelle soggettività, culture e realtà quotidiane del personale accademico, del personale professionale e degli studenti universitari.
I processi di digitalizzazione investono integralmente l’attività professionale degli accademici. Essi hanno introdotto importanti mutamenti negli aspetti della ricerca scientifica, della comunicazione scientifica, della didattica e dell’amministrazione. Essi penetrano peraltro nella loro esistenza più intima accompagnando talvolta riconfigurazioni nelle esistenze e soggettività. Per esempio, è stato messo in luce che le tecnologie digitali possono esacerbare processi di travalicamento tra i tempi e gli spazi della vita quotidiana e professionale. La vita accademica nel trascinamento neoliberale sembra spesso governata non già da un effettivo orario di lavoro, ma piuttosto da una catena imprevedibile di eventi e task che sembrano sfuggire ad ogni controllo. I luoghi e i tempi del lavoro possono allora diventare aspetti secondari rispetto all’imperativo di ‘mettersi in pari’ – o, addirittura, anticiparsi – con il lavoro da fare per sfuggire così al senso di ansia e responsabilizzazione rispetto alle performance individuali. Non necessariamente, peraltro, le tecnologie digitali riducono il carico di lavoro. Compiti e attività supplementari si insinuano silenziosamente tramite le tecnologie digitali che producono un oscuramento dell’ammontare di lavoro addizionale che viene richiesto agli accademici. È il caso, per esempio, delle email, che rimangono la tecnologia distintiva per la professione accademica. Le email si interpongono nel lavoro accademico quotidiano poiché contengono delle ‘richieste di azione’ che introducono task prima assenti e (ri)strutturano per tal via l’agenda del ricevente. La flessibilità offerta nei tempi di risposta appare peraltro solo apparente per l’attesa sociale di rispondere in tempi brevi e per il senso di perdita di controllo che emerge con l’aumento del volume di posta arretrata.
Per quanto concerne il personale professionale, esso è spesso visto dal personale accademico come il ‘custode’ di sistemi informatici che, a loro volta, sono sovente rappresentati come un’emanazione del potere della governance dal momento che incorporano regolazioni e richieste d’azione a livello di rendicontazione. Per questo, il contatto diretto e personale tra accademici e personale professionale è spesso limitato ai casi di breakdown tecnologico e a problemi amministrativi. Questo contribuisce alla fragilità delle relazioni tra accademici e personale professionale.
La ricerca sulla vita quotidiana degli studenti universitari con le tecnologie digitali restituisce poi un’immagine complessa che è ben diversa da quella euforica e monodimensionale proposta dalla visione stereotipata del digital native. Sebbene quest’area di ricerca presenti ancora molti spazi per l’esplorazione critica, almeno due elementi sembrano emergere dallo scenario descritto. In primo luogo, gli studenti universitari appaiono dotati di un’eterogeneità anche molto alta in quanto a livelli di competenza, interessi e strategie d’uso rispetto alle tecnologie digitali. In secondo luogo, l’uso o non-uso delle tecnologie digitali sembra emergere come scelta conscia e razionale da parte degli studenti. Si tratterebbe, in questo senso, di una ‘negoziazione pragmatica del lavoro’, come definita da Neil Selwyn, che conduce a discernere cos’è meglio per sé a fronte di vincoli strutturali.
Quali questioni rimangono aperte?
Il tema del rapporto tra istruzione superiore e tecnologie digitali sembra ben più complesso di quanto promesso dalle retoriche della rivoluzione e della distopia digitale. Diverse questioni e tensioni rimangono infatti ancora aperte all’analisi.
Una prima questione, già più volte ricordata, è quella della marketization. L’espansione dell’utilizzo delle tecnologie digitali nell’università supporta questi processi in quanto cruciale canale per la costruzione, l’ampliamento e la riproduzione di mercati nell’higher education. Da una parte, i processi di digitalizzazione mediano l’incorporamento di strumentazioni neoliberali nei mondi sociali dell’higher education. Dall’altra parte, essi divengono dispositivo per l’accesso in questo campo sociale di attori privati interessati alla sua reimmaginazione verso orizzonti pedagogici e di governance di matrice imprenditoriale.
Un’ulteriore tensione concerne le forme e pratiche attraverso cui saperi e competenze vengono trasmessi nell’università. Accanto allo sviluppo tecnico delle tecnologie per l’educazione, sembra necessario impostare riflessioni critiche sulle pedagogie e i modelli didattici sottostanti. Inquadrare le tecnologie digitali solamente in termini di soluzioni tecniche o di mero apprendimento rischia di oscurare il carattere relazionale e socialmente costruito piuttosto che naturalmente ‘dato’ dei sistemi utilizzati.
Una terza questione aperta riguarda quanto di ‘vecchio’ e di ‘nuovo’ abbiano portato i processi di digitalizzazione negli scenari dell’higher education. A fronte delle retoriche tecnoeuforiche su dirompenti ‘rivoluzioni digitali’ nell’università, questi processi sembrano piuttosto amplificare o accelerare tendenze già presenti e consolidate in tali scenari. Piuttosto che a una rottura dirompente si assiste quindi a una sostanziale continuità tra le ‘vecchie’ forme e le ‘nuove’, salvo per un’accelerazione dell’interconnessione tra attori nell’higher education e le conseguenze di questi processi su soggetti, organizzazioni e sistemi che sempre più sono sfidati dal trascinamento verso culture e razionalità neoliberali.
Infine, l’utilizzo delle tecnologie digitali nell’istruzione superiore appare intimamente connesso alla costruzione di ‘forme’ stabili nell’educazione attraverso la perpetuazione di rapporti sociali, convenzioni pratiche e razionalità esistenti che possono (ri)produrre vulnerabilità e iniquità esistenti. Questi processi di configurazione delle grammatiche educative non possono però riempire totalmente gli spazi dell’istruzione superiore. Sebbene le stabilizzazioni siano più facilmente visibili delle ‘vie di fuga’, forme ‘riarrangiate’ di tecnologia sono presenti negli scenari mondani della pratica educativa. Queste pratiche ri-configurative permettono talvolta di resistere o sfuggire alle modalità neomanageriali della sorveglianza, del controllo e della razionalità classificatoria.
Lungi dall’essere una ‘soluzione’ per un qualsivoglia problema che affligga l’università italiana o globale, la digitalizzazione potrebbe piuttosto apparire come un dispositivo per la riproduzione e l’accelerazione dei processi di neoliberalizzazione che già da decenni colpiscono con forza le soggettività, culture e razionalità organizzative nelle università. Da una parte, i processi di digitalizzazione sembrano mediare l’assorbimento del discorso neomanageriale nelle grammatiche dell’istruzione superiore. Dall’altra parte, il settore delle tecnologie digitali diviene oggi settore di infiltrazione per aziende edtech e attori di mercato talvolta coinvolti in assemblaggi complessi con attori di policy e del terzo settore.
Sullo sfondo di questi processi, rimangono i soggetti multipli dell’università digitale che nel volume cerco di portare in primo piano. Si tratta di studenti, docenti, personale universitario, attori di policy e sistemi informatici che producono continuamente l’università come campo sociale e spazio di vita tessendone costantemente le trame attraverso forme prescritte e routine consolidate, ma anche riconfigurazioni, riarrangiamenti e istanze innovative. L’università digitale appare così come un universo interconnettivo che è continuamente conteso tra attori – vicini e lontani, controllori e controllati, umani e non-umani – e visioni eterogenee dell’higher education. Il trascinamento neoliberale non sembra quindi processo immutabile o inevitabile, ma piuttosto esito emergente e contingente di negoziazioni continue a livello locale e sistemico. Come spesso ripetuto da Susan Leigh Star, ‘tutto avrebbe potuto essere altrimenti’ – e ancora potrebbe esserlo.
Leonardo Piromalli è assegnista di ricerca presso l’Università “Sapienza” di Roma e docente a contratto presso l’Università di Cagliari e l’Università dell’Aquila. La sua ricerca si concentra sulle interrelazioni tra tecnologia digitale e vita sociale, con particolare riferimento ai settori dell’educazione e della comunicazione. Ha pubblicato articoli scientifici su riviste accademiche nazionali e internazionali ed è autore della monografia L’università digitale. Uno sguardo sociologico (Carocci, 2023).