“L’Università della Repubblica (1946-1980). Quarant’anni di storia dell’istruzione superiore in Italia” di Luigiaurelio Pomante

Prof. Luigiaurelio Pomante, Lei è autore del libro L’Università della Repubblica (1946-1980). Quarant’anni di storia dell’istruzione superiore in Italia, edito dal Mulino: quali linee di tendenza hanno caratterizzato l’evoluzione del quadro normativo del sistema universitario della Penisola fino agli anni Ottanta del Novecento?
L'Università della Repubblica (1946-1980). Quarant'anni di storia dell'istruzione superiore in Italia, Luigiaurelio PomanteDall’immediato secondo dopoguerra ai primi anni Ottanta del Novecento l’Università italiana, reduce dalla pesante eredità del ventennio fascista e comunque espressione di una tradizione liberale otto-novecentesca quanto mai radicata, ha lentamente mutato il proprio volto trasformandosi da Università d’élite, di liberale e gentiliana derivazione, destinata alla formazione quasi esclusiva di una classe dirigente proveniente in prevalenza dai ceti sociali più abbienti, ad Università di massa, luogo di cultura accessibile alla maggioranza, «ambiguamente» democratico ma nel contempo prosecuzione e completamento naturale del percorso di studi di ogni neodiplomato. Tuttavia per realizzare tutto ciò, a livello normativo si è preferito respingere, più o meno consapevolmente, ogni ipotesi di riforma complessiva del sistema che potesse seriamente riorganizzare dalle fondamenta l’Università italiana, prediligendo al contrario, fatte salve poche eccezioni, una politica più prudente, caratterizzata da piccoli passi e da provvedimenti settoriali e spesso slegati tra loro, attenta più che ad introdurre svolte radicali, a dare principalmente soluzioni parziali ed episodiche alle tante piccole questioni emergenti. A ben vedere, tuttavia, se lette e analizzate una dopo l’altra, le scelte legislative adottate hanno comunque condotto a modificare sensibilmente la fisionomia del sistema d’istruzione superiore della Penisola.

Come si articolò, nel nostro Paese, il dibattito politico e accademico circa l’Università e l’istruzione superiore a partire dall’immediato secondo dopoguerra?
Nell’immediato secondo dopo guerra, dopo la caduta del fascismo, il sistema formativo italiano si trovava a vivere una situazione quanto mai drammatica. In particolare l’Università usciva dalla Seconda guerra mondiale fortemente danneggiata nei locali, negli arredamenti e nei mezzi, disorganizzata nei quadri, superata negli ordinamenti e nei programmi. A questa situazione, già di per sé desolante e alimentata da forti manifestazioni di scetticismo e di sfiducia, si aggiungevano la difficile condizione di una classe docente da ricostituire e soprattutto da «depurare» dall’ideologia fascista nonché il disagio evidente e pericoloso di una pletora di studenti irrequieti, decisamente «più bisognosi di titoli che avidi di cultura». In questo complesso, controverso e assai nebuloso contesto, con l’Università, così come la Scuola più in generale, indebolita nei suoi principali protagonisti, si trovarono ad operare i primi governi del Paese e soprattutto i primi titolari del dicastero della Minerva. Naturalmente il dibattito politico e accademico, che si sviluppò rispettivamente prima nell’Assemblea Costituente e poi nelle aule parlamentari, nonché sulle pagine dei più autorevoli periodici per professori universitari (vedi L’Università italiana in particolare), si rivelò acceso e serrato, animato perlopiù da posizioni ideologiche tra loro molto distanti (si pensi tra tutti al comunista Concetto Marchesi e al democristiano ed ex fucino Aldo Moro) ma ugualmente animate dalla riconosciuta necessità di indicare all’Università un deciso cambio di direzione rispetto al passato.

Cosa proponevano le mancate riforme dei ministri Gonella e Gui?
Le proposte di riforma del sistema universitario italiano avanzate sul finire degli anni Quaranta da Guido Gonella e nel corso degli anni Sessanta da Luigi Gui, entrambi alla guida del ministero della Pubblica Istruzione sotto il vessillo democristiano, possono essere lette e interpretate oggi come due grandi occasioni “mancate” per l’Università italiana. Sia Gonella (che in realtà proponeva una riforma complessiva del sistema formativo e non solo di quello universitario) che Gui, pur in fasi storiche molto diverse, avevano sognato un’Università più moderna, al passo con i tempi, rispondente alle esigenze della coeva società contemporanea. Per Gonella era auspicabile un’opera di riforma complessiva del sistema formativo nazionale, realizzabile nel concreto solo attraverso l’apporto vivo di tutti quegli attori che ad esso erano direttamente interessati, nella convinzione largamente condivisa che la democratizzazione fosse un processo da gestire sempre e comunque in un rapporto dialettico tra le varie forze rappresentative, sociali e culturali. Proprio per questo la scuola e l’Università apparivano, agli occhi di Gonella, riformabili solo coinvolgendone i protagonisti, dagli insegnanti ai responsabili dell’amministrazione nei suoi vari gradi, dalle famiglie alle associazioni. Sebbene, in realtà, il progetto di legge si limitasse a fissare solo alcuni principi quadro per rinviare poi a norme di attuazione e regolamenti la soluzione più particolareggiata delle singole questioni, il Disegno di legge n. 2100 presentato da Gonella in Parlamento si delineava come un vero e proprio piano organico di riordinamento della Scuola, occupandosi dell’intero sistema di istruzione dalla materna fino all’Università, senza tuttavia tralasciare materie come l’ordinamento della scuola non statale, l’educazione popolare, l’edilizia scolastica, i rapporti scuola-famiglia, le attività para-scolastiche degli alunni e, non da ultima, l’assistenza scolastica. Tra le proposte di Gonella spiccavano la distinzione fra diploma dottorale e laurea scientifica, per adeguare la normativa italiana a quella dei paesi più avanzati e di maggiore tradizione nel campo degli studi superiori e della ricerca scientifica; la sostituzione della facoltà di Magistero con la nuova facoltà di Pedagogia per i licenziati del liceo magistrale e, non da ultima, una nuova regolamentazione dell’accesso alle università che di fatto liberasse dall’imposizione degli «indiscriminati catenacci» imposti dalla riforma Gentile. Tuttavia le proposte di Gonella, che dovettero fare i conti con opposizioni provenienti dal suo stesso schieramento politico, naufragarono miseramente senza neppure avere, dopo cinque anni intensi di lavoro preparatorio, l’onore del dibattito parlamentare. Circa quindici anni più tardi, mosso da una rinnovata volontà di un organico intervento riformatore nel settore dell’istruzione, fu il ministro Luigi Gui, negli anni di governo del Centro-Sinistra, a riproporre l’ipotesi di una “nuova Università”, che prevedesse, ad esempio, tre titoli diversi di studio rilasciati al termine dei corsi universitari (diploma, laurea e dottorato), nuove e più trasparenti forme di reclutamento dei docenti, nonché l’istituzione ex novo di moderni dipartimenti, che avrebbero assolto al compito di coordinare l’attività di ricerca scientifica di più Istituti ed anche di singole cattedre di insegnamento, interessate allo studio di comuni settori di ricerca scientifica. Concetti per noi oggi quanto mai attuali. Tuttavia, anche al disegno di legge n. 2314 di Gui toccò il medesimo destino di quello di Gonella e finì per naufragare tra i meandri delle aule parlamentari e il bieco ostracismo di buona parte della stessa maggioranza di governo, tramortito dalle resistenze baronali del corpo accademico e sotto i colpi della contestazione studentesca. Paradossalmente, proprio nel momento in cui nel Paese vi erano le energie, la volontà e il denaro necessari a mutamenti sostanziali, era stato affossato il più serio disegno riformatore, pur con i suoi limiti, prodotto in quegli anni.

Cosa significarono per l’Università italiana le liberalizzazioni del 1969?
La contestazione studentesca del Sessantotto e il lento “affossamento” del ddl n. 2314 presentato dal ministro Luigi Gui di fatto hanno rappresentato due avvenimenti destinati ad aprire una nuova stagione per l’Università italiana che avrebbe trovato il suo nodo cruciale di svolta nelle liberalizzazioni del 1969. In particolare la legge n. 910 dell’11 dicembre 1969, più comunemente nota con il nome di legge Codignola (dal nome del deputato socialista che la propose, appunto Tristano Codignola), stabilì sia l’apertura indiscriminata degli accessi alle facoltà universitarie (senza tuttavia una preventiva riforma dell’istruzione superiore capace di fornire a tutti gli strumenti per accedere proficuamente all’Università), sia la parziale riforma degli ordinamenti didattici con la possibilità per gli studenti di produrre piani di studio individuali (che in molti casi finiva per allineare verso il basso la docenza, premiando gli insegnamenti ritenuti più facili senza fare emergere curricula realmente innovativi). Entrambi i provvedimenti introdotti dalla legge Codignola in via sperimentale «fino all’attuazione della riforma universitaria», strizzando l’occhio alle istanze più democratiche e progressiste della contestazione studentesca, aldilà delle apprezzabili istanze democratiche di fondo, finirono di fatto per acuire nella vita degli atenei il già ben diffuso stato di confusione. In concreto con la liberalizzazione non programmata degli accessi si dava vita ad un’Università chiamata ad assolvere ad una “funzione sociale” ovvero assicurare un servizio di rifugio e parcheggio per giovani disoccupati dei quali si allungava lo stato adolescenziale, mentre finiva per affermarsi e prevalere il valore d’uso della condizione studentesca in quanto tale. Fu proprio quello il momento in cui esplose fragorosa in Italia l’Università di massa che nei decenni successivi avrebbe trovato il suo naturale sviluppo.

Come si giunse al Decreto Presidenziale n. 382 del 1980 e in che modo esso ha gettato le basi concrete per l’Università dei nostri giorni?
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta una nuova Università stava ormai morendo ma la nuova, ancora molto caotica ed indefinita nei suoi caratteri precipui, stentava a nascere. A prevalere in questa fase storica furono pertanto la via del provvisorio, del parziale, del circoscritto. Quelli che potrebbero essere definiti semplici «interventi di routine o manutenzione» furono gradualmente presentati come passaggi fondamentali ed imprescindibili nella prospettiva di una legge quadro o di una riforma universitaria che, di fatto, non sarebbe mai arrivata. Immolata sull’altare del confronto politico e sindacale, l’Università si era ormai avviata verso la strada incerta delle sperimentazioni, verso una nuova organizzazione che non conservava il positivo della vecchia Università, né eliminava le storture del presente. Su un solo aspetto, tuttavia, tutte le forze politiche apparivano animate dalla medesima volontà: riorganizzazione della docenza universitaria, definire nuove politiche di reclutamento e soprattutto risolvere, almeno parzialmente, il fenomeno del precariato accademico. Nella diffusa convinzione tra le forze politiche di quegli anni che prima bisognasse liberarsi del «fardello incancrenito della docenza universitaria» e che solo successivamente, semmai, si sarebbe potuti passare a discutere dei problemi sostanziali circa il ruolo dell’Università nella società coeva, della programmazione del suo sviluppo e della condizione studentesca, ancora una volta si scelse la via delle procedure speciali per affrontare uno dei problemi più complessi dell’assetto universitario italiano. Pertanto, per cercare in sostanza di razionalizzare al meglio un sistema ormai degenerato, attraverso anche i tentativi del ministro Malfatti e i decreti Pedini, si arrivò sul finire del decennio ad affidare al governo il compito di emanare in tempi brevi le norme che avrebbero dovuto “ripensare” tutto il sistema di reclutamento dell’accademia italiana nonché rinnovare in parte il sistema didattico ed organizzativo dell’Università. Di qui il Decreto Presidenziale n. 382 del 1980 che, tramite una convergenza pressoché trasversale delle varie forze politiche del tempo, fece sì che il processo riformatore del sistema universitario italiano prendesse le mosse, ancora una volta, dal riordino della docenza ma che riuscì comunque ad introdurre contestualmente alcune innovazioni che, seppur anticipate già intorno alla metà degli anni Sessanta, come il dottorato di ricerca o il dipartimento, erano rimaste chiuse nel cassetto dei progetti non attuati ma che doveva necessariamente essere “rispolverate” se si intendeva rendere il sistema italiano al passo di quello già esistente in altri paesi europei. L’analisi, tuttavia, deve essere più approfondita. Il decreto presidenziale n. 382, insomma, cercò di perseguire due precise linee di condotta. Da una parte puntare dritto su alcuni necessari tentativi di sperimentazione guardandosi bene però dallo smantellare le malfunzionanti strutture esistenti; dall’altro offrire soluzioni sicuramente concrete a talune annose questioni del sistema universitario italiano (come quello del precariato della docenza) preoccupandosi tuttavia essenzialmente non di risolvere il problema ma di aggirarlo e soprattutto di soddisfare i desiderata degli attori principalmente coinvolti, in questo caso i docenti, più o meno qualificati, più o meno meritevoli, che gravitavano nell’orbita dell’accademia italiana. Aldilà delle pur apprezzabili intenzioni, a distanza ormai di oltre quarant’anni dalla sua entrata in vigore, il bilancio sul decreto evidenzia inevitabilmente molte più ombre che luci. Di fatto in quegli anni, caratterizzati dagli atteggiamenti poco coraggiosi ed eccessivamente concilianti della classe politica del tempo, più preoccupata del consenso elettorale che delle reali e durature conseguenze delle proprie azioni, e dalle bramosie del mondo accademico italiano, che dalla sua torre eburnea cercava soprattutto di fagocitare posti di ruolo e alimentare un sistema clientelare piuttosto che inseguire un lungimirante progetto di lungo periodo, si pensò soltanto ad innestare un «ramo nuovo» su un «tronco vecchio» e anche malato, qual era l’Università italiana, dando così vita ad un’operazione che Arturo Colombo ha giustamente definito «aggiuntiva più che sostituiva». In questo modo, piuttosto che rinnovare, snellire e rendere l’intero sistema universitario italiano funzionale alla società di cui era parte integrante con scelte radicali ma necessarie, si preferì la logica, forse all’epoca obbligata ma quanto mai perniciosa dell’hic et nunc che ha soddisfatto soprattutto i bisogni del momento ma che nel contempo ha finito per determinare un debito considerevole ed oneroso del quale ancora oggi la sempre inferma Università italiana paga, con fatica, i cospicui interessi.

Luigiaurelio Pomante (Teramo, 1980) è professore associato di Storia dell’educazione presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni culturali e del Turismo dell’Università degli Studi di Macerata. Fa parte del consiglio direttivo della rivista scientifica internazionale «History of Education & Children’s Literature», della quale è anche caporedattore, ed è autore di numerosi studi e contributi scientifici sulla storia dell’istruzione superiore e dell’università in epoca moderna e contemporanea.

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