
L’ambiente sociale influisce su di noi innanzitutto attraverso il linguaggio che è sia lo strumento di comunicazione sia una forma simbolica mediante la quale ognuno di noi produce significati esprimendo se stesso e la propria condizione di vita, anche nei suoi aspetti più materiali.
Dunque, aspirazioni, desideri, timori non sono innati, né – in genere – sorgono per caso. Piuttosto, nella vita di tutti i giorni siamo orientati da una visione implicita del mondo che si forma e si modifica in virtù degli ambienti sociali nei quali ci ritroviamo a vivere.
A questo proposito è utile riprendere quanto indicato da Basil Bernstein – uno degli autori da cui derivo le coordinate teoriche della mia ricerca – che evidenzia come a seconda della classe sociale di appartenenza un individuo impieghi un dato codice linguistico-espressivo. Riconoscere questo aspetto serve non a rimarcare le differenze o a costruire barriere tra classi, ceti e altre collettività, come ad esempio le generazioni, ma ad identificare i rapporti di potere nella società, una pre-condizione che illumina la strada per il superamento, o quantomeno l’attenuazione significativa, delle diseguaglianze sociali. La sociologia ha nel proprio statuto questa tensione critica verso il mondo perché la ricerca sociale empiricamente fondata, scientifica, inevitabilmente rivela la convenzionalità piuttosto che la “naturalità” del senso comune, così come delle istituzioni in una qualche misura poggianti su questo stesso senso comune.
Beninteso, nella vita pratica, di tutti i giorni, noi abbiamo bisogno di fare riferimento al senso comune, altrimenti non potremmo cooperare e interagire con gli altri; ciononostante, non è così raro nutrire il dubbio che la realtà – dai suoi aspetti più generali e pubblici a quelli più minuziosi e privati – possa essere diversa da così come appare in un dato momento. Ad esempio, ci accorgiamo che il nostro modo di pensare non è univoco, naturale, oggettivo quando ci imbattiamo in un “mondo socioculturale” diverso dal nostro, come capita a molte matricole universitarie che vanno a studiare in una città che si rivela nel tempo molto diversa dal loro luogo di provenienza per abitudini e gusti dei suoi abitanti, nonché per il modo in cui sono organizzate le attività culturali, l’economia, la mobilità pubblica, e via dicendo. Una situazione del genere porta gli studenti a scoprire che la realtà ha una natura sociale in quanto cambia a seconda dei gruppi che concorrono a produrla tutti i giorni con i loro significati.
Questa scoperta implica un trauma: continuando col nostro esempio, gli studenti potrebbero essere disorientati non solo dall’idea che la realtà sia interpretabile in molteplici modi ma anche dal prendere atto di aver vissuto fino a quel momento in un mondo costruito secondo valori, interessi, credenze specifiche di un dato ceto sociale, quello dei loro genitori, e/o di una comunità particolare, come ad esempio un piccolo paese dell’Appennino centro-meridionale.
In sintesi, questo volume parte da uno dei principi fondanti la sociologia della conoscenza, così come impostata da Mannheim (1929, 1952): esiste un rapporto, non deterministico ma nemmeno blando, tra il pensiero individuale ed il contesto sociale in cui è immerso l’individuo. Questo rapporto deriva dal fatto che la coscienza non si fonda su se stessa, ma è un prodotto storico-sociale che emerge dalla relazione con gli altri. Più precisamente, il singolo sviluppa la sua identità divenendo un membro della società grazie alla sua collocazione all’interno di uno o più gruppi: è all’interno di questi gruppi che paradossalmente forgiamo la nostra consapevolezza di essere comunque individui unici, ma non per questo agenti solipsisticamente.
In cosa si traduce l’approccio neomarxiano allo studio dei processi culturali?
Nel sottolineare come l’individuo prenda forma nella società, nonostante questa sia il prodotto dell’azione trasformatrice e collettiva degli uomini nei confronti della natura, adotto una prospettiva neomarxiana, orientata ad esaminare la stretta relazione tra gerarchie culturali e diseguaglianze tra le classi sociali.
Per raggiungere questo obiettivo, parto dalla sociologia della conoscenza di Mannheim perché essa, integrando marxismo, ermeneutica, storicismo e fenomenologia, rende possibile esaminare la dimensione culturale del conflitto sociale.
Il richiamo a questo autore mi colloca così in quel filone di studi denominato “critica della ideologia” che non riconduce semplicemente i fenomeni culturali alla struttura sociale, ma si interroga sul rapporto dialettico tra queste due dimensioni, ricorrendo al concetto di ideologia. Questa dimensione analitica è stata chiarita ed approfondita da vari sociologi della cultura che hanno innovato l’analisi marxiana, dai teorici della scuola di Birmingham ai sociologi dell’educazione che si sono ispirati alla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire.
Nel mio caso, ripercorro questa strada – abbandonata da molti studiosi negli ultimi decenni – per analizzare sociologicamente ciò che Mannheim stesso aveva già notato: il conflitto tra classi sociali è anche una lotta sull’interpretazione del mondo.
Un altro autore di riferimento del mio approccio è Gramsci, che ha sottolineato il ruolo attivo dell’ideologia dominante nel conflitto sociale: l’ideologia concorre alla formazione del senso comune in modo che le classi subalterne interiorizzino e legittimino un sistema di valori teso a giustificare di fatto la loro condizione svantaggiata. L’ideologia cela il dominio politico e lo sfruttamento economico di una determinata classe sociale su tutte le altre.
Tuttavia, non instauro un rapporto deterministico tra l’ideologia e la struttura sociale. Infatti, alla stregua di altri studiosi neomarxiani, integro Marx con Weber, dato che evidenzio come i prodotti culturali (ideologia compresa) siano socialmente radicati, cioè si formino e si esprimano all’interno di uno concreto contesto sociale, ma una volta formatisi “retroagiscano” sulla società, plasmandola.
In che modo sociologia della conoscenza e sociologia dell’educazione possono confluire in una più̀ ampia sociologia dei processi culturali?
Credo ci possa essere un incontro fecondo tra le tre discipline, incontro che rende possibile spiegare proprio la dialettica tra società e cultura a cui ho appena fatto riferimento, e qualificare così meglio il mio approccio neomarxiano.
La sociologia della conoscenza ci invita a considerare le radici sociali dei fenomeni culturali. Si tratta di un passaggio obbligato per comprendere la società. L’individualismo radicale imperante oggi, insieme al predominio della tecnica sulla riflessività teorica, ci sta facendo perdere la consapevolezza che i singoli fenomeni si manifestano all’interno di una “totalità sociale” più ampia.
Per farla breve, le nostre possibilità di scelta individuale vanno esaminate all’interno del più ampio contesto storico-sociale che si caratterizza per dinamiche strutturali rilevanti, come il processo di accumulazione capitalistica.
Di tutto ciò c’è scarsa consapevolezza, pensiamo al modo in cui i media trattano il tema della pandemia, senza interrogarsi adeguatamente sul rapporto esistente tra questo fenomeno e la più complessiva governance capitalistica che incide sui rapporti geopolitici tra gli Stati, così come sul nostro rapporto con le merci.
La sociologia della conoscenza – almeno nella declinazione di Mannheim – ci fa evitare questo errore, spingendoci a interrogarci sul quadro più generale in cui si manifestano i singoli fenomeni sociali.
È con questo spirito che ho voluto rinnovare i miei studi di sociologia dell’educazione, interrogandomi sul senso più generale della competizione tra famiglie di diversa estrazione sociale nell’acquisizione dei titoli di studio superiori da parte dei loro figli. Nell’analisi delle diseguaglianze educative dovute all’origine sociale – un fenomeno riscontrato su scala internazionale da molti decenni – si pone l’accento ora sulla valutazione dei costi e dei benefici da parte degli studenti a seconda della loro condizione materiale, ora sulla più generale subcultura di classe collegata a questa stessa condizione.
Nelle mie ultime ricerche ho ritenuto più fruttuoso prestare attenzione al legame esistente tra le valutazioni espresse dai soggetti sulla base dei loro vincoli materiali e la subcultura di classe ai quali questi in un qualche modo si rifanno. Ciò mi ha consentito di ragionare sulla rilevanza attribuita all’istruzione da parte dei differenti gruppi sociali, spingendomi con questo libro a sostenere che il conflitto sociale sia anche un conflitto sulle interpretazioni del mondo.
Lo studio della ideologia, del radicamento sociale del sapere e del modo in cui il sistema educativo moderno costruisce la conoscenza ufficiale mi ha portato così a parlare di dimensione culturale del conflitto tra classi sociali.
Nel porre la sociologia della conoscenza al servizio della sociologia dell’educazione, ho collegato la riproduzione delle diseguaglianze scolastiche tra studenti di diversa estrazione sociale all’innesco di processi culturali che, incidendo sull’identità degli individui, comportano la concorrenza tra concezioni del mondo contrapposte.
La comprensione di questi processi si raggiunge pienamente quando i risultati della sociologia della conoscenza e quelli della sociologia dell’educazione sono integrati e riesaminati alla luce delle categorie interpretative della sociologia dei processi culturali, ricorrendo in particolare al concetto di codifica e a quello di fruizione/ricezione.
Per farla breve, si può sostenere che gli esiti del conflitto sociale nel campo educativo dipendono dal tipo di incontro/scontro tra la codifica dei saperi da parte del mondo scolastico e la decodifica degli studenti diversificati socialmente per tipo di codice linguistico-espressivo adottato. Questa relazione concorre a un fenomeno più ampio della mera riproduzione della stratificazione in classi sociali: lo scontro, spesso solo implicito, sulla legittimazione o meno dell’assetto politico-economico ed istituzionale complessivo. Infatti, la distribuzione dei titoli di studio tra la popolazione non solo riflette le relazioni di potere tra le classi sociali, ma contribuisce anche ad alimentare il conflitto delle interpretazioni riguardante il diverso modo in cui i differenti gruppi tendono a concepire la relazione con gli altri (o, come meglio preciso nel libro, con “l’Altro”), un aspetto che indirettamente chiama in causa proprio l’atteggiamento di fondo verso l’ordine istituzionale costituito.
Quale rapporto esiste tra stratificazione sociale, istruzione e concezioni del mondo?
Se la condizione di un soggetto, derivante dalla sua collocazione nel sistema di stratificazione sociale, influisce sulla costruzione del suo percorso formativo, è altrettanto vero che il livello di istruzione formale conseguito possa contribuire all’adozione di una visione del mondo piuttosto che di un’altra.
Questo è il principale risultato della mia ricerca, basata sulla rielaborazione di quattro indagini della ESS (European Social Survey) condotte nell’arco 2004-2016, ed ognuna riguardante un numero di casi oscillante tra i 26.000 ed i 30.000 intervistati, di età superiore ai 15 anni, occupati e residenti in uno dei Paesi dell’UE esaminati (si tratta di 18 Paesi, inclusa la Gran Bretagna, essendo stata questa considerata in un periodo precedente alla Brexit).
Più precisamente, dalla mia indagine risulta che, tenuto conto del condizionamento sociale del pensiero e del diverso modo in cui gli attori fruiscono del sistema educativo a seconda della loro condizione di classe, il raggiungimento dell’istruzione universitaria aumenti le probabilità di adottare una concezione del mondo universalista, secondo la quale tutti gli individui appartengono al medesimo genere umano. Questa concezione implica un marcato riconoscimento della diversità culturale, senza che ciò comporti la chiusura particolaristica nei valori e nelle credenze di una data comunità; anzi, il pluralismo culturale è attribuito alla capacità dell’essere umano di costruire creativamente il mondo. L’attribuzione di questa creatività, peraltro, è accompagnata da un forte orientamento egualitario, che si traduce nell’ostilità nei confronti di qualsiasi comportamento particolaristico.
Per chiarire la connessione che instauro tra riconoscimento della diversità culturale ed egualitarismo sociale quando mi riferisco a questa concezione universalista, è possibile ricorrere alla definizione di eguaglianza di Ferrajoli in un suo recente saggio:
«(il principio di eguaglianza, ndr) equivale all’eguale valore associato a tutte le differenze di identità e al disvalore associato alle diseguaglianze nelle condizioni materiali di vita; si identifica con l’universalismo dei diritti fondamentali, siano essi politici o civili o di libertà o sociali […] forma la base della dignità delle persone solo perché «persone»; è la principale garanzia del multiculturalismo e della laicità del diritto e delle istituzioni pubbliche» (Ferrajoli 2019, p. IX).
L’istruzione universitaria può dunque favorire questa visione universalista, grazie alla formazione da essa presupposta. Infatti, tale formazione si fonda sull’acquisizione della conoscenza teoretica, distante dal senso comune, che invece è egemonicamente dominato dal particolarismo della classe dominante, come ben evidenziato da Gramsci. Peraltro, la mia indagine rileva che i meno istruiti tendono ad esprimere visioni particolariste: si tratta delle persone che hanno esperito solo gli ambienti di apprendimento tipici dei primi livelli di istruzione, in cui la conoscenza teoretica è poco sviluppata.
Il sapere teoretico, al contrario, può favorire la capacità di generalizzazione e lo spirito critico, tipico del pensiero post-convenzionale a cui fanno riferimento autori come Habermas (1976), Gouldner e prima di loro Kohlberg (1971): si tratta di un pensiero che è capace di scovare i rapporti di potere insiti nella costruzione della realtà sociale, e dunque di prendere le distanze dalle costrizioni del sistema sociale che presuppongono la legittimazione delle gerarchie sociali e culturali esistenti.
L’orientamento universalista risponde a uno stile di pensiero che è possibile acquisire per via di una data organizzazione del sapere scolastico, che prevede – come spiega brillantemente Bernstein – il progressivo allontanamento della conoscenza formale dal sapere ordinario con il passaggio dai più bassi livelli di istruzione a quelli più elevati.
Il problema è che gli studenti provenienti dalle classi lavoratrici e dai ceti popolari seguono percorsi formativi relativamente brevi, data la loro condizione svantaggiata, e ciò riduce la loro possibilità di esperire un ambiente di apprendimento capace di far sviluppare pienamente questo sapere critico. Per inciso, questa dinamica può spiegare in parte l’associazione rilevata negli studi politologici tra l’appartenenza alla classe operaia e la preferenza per i partiti populisti.
Peraltro, quest’ultima dinamica è stata descritta in passato già da Freire che parla di azione ideologica esercitata dall’educazione.
In che senso si può parlare di educazione come «azione ideologica»?
Freire mostra come l’attività educativa possa assumere due forme antitetiche, una volta a legittimare l’ordine sociale, l’altra invece basata sul rafforzamento dell’autoriflessività e sullo sviluppo del senso critico. La prima forma, definita “educazione bancaria”, è quella più diffusa: si tratta del trasferimento nozionistico di conoscenze secondo modalità che riflettono le gerarchie sociali e culturali esistenti. Più in generale questa azione di legittimazione ideologica pervade il sistema educativo moderno: ancora oggi la scuola è un’istituzione che veicola la cultura legittima, imponendo valori, credenze, atteggiamenti tipici delle classi medio-alte, come sottolineato da molti sociologi, da Bourdieu a Collins. Anzi, aggiungo che proprio la coerenza tra cultura elaborata “borghese” e cultura scolastica contribuisce alla riproduzione delle diseguaglianze educative, con gli studenti di modesta origine sociale che tendono a seguire percorsi formativi brevi, senza accedere a quegli ambienti di apprendimento basati sulla conoscenza teoretica più spiccata, come è il caso dell’università.
La costruzione di lunghi percorsi formativi, invece, accresce le probabilità di sviluppare uno stile di pensiero generalizzante che porta alla concezione universalista, come ho affermato poc’anzi.
Quando ciò avviene l’attività educativa assume l’altra forma, quella emancipatrice, contribuendo a una visione differente da quelle più diffuse, implicitamente favorite dal senso comune. Anche in questo caso si può parlare di azione ideologica, ma in un senso del tutto opposto a quello precedente: l’educazione può aprire nuovi orizzonti sul mondo, mettendo in discussione i rapporti di potere vigenti.
In che modo una rinnovata concezione universalista del mondo può costituire il fondamento per uno spirito critico verso il senso comune?
Questa domanda mi consente di chiarire ulteriormente il modo in cui esamino il rapporto tra struttura sociale e processi culturali. Il sistema educativo moderno, in particolare nel contesto europeo, è frutto di una lunga storia che, iniziata nell’XI secolo, ha visto l’integrazione di differenti istituzioni, sorte sulla base degli interessi contrastanti delle diverse frazioni di classe superiore, susseguitesi nel tempo.
Nei secoli, la costruzione dei saperi veicolati dal sistema educativo e la loro organizzazione sociale hanno prodotto un processo ambivalente, che vede oggi la scuola rafforzare l’individualismo acquisitivo e legittimare le gerarchie culturali funzionali alla divisione del lavoro capitalista, ma al tempo stesso basare la formazione nei più alti livelli di istruzione su un tipo di conoscenza che apre all’Altro. Negli ultimi decenni, poi, in una società sempre più caratterizzata in senso multiculturale, la formazione teoretica sembra favorire la comprensione della diversità culturale riconnettendola, come detto, alla comune appartenenza di tutti gli uomini allo stesso genere. Si tratta di un processo che è solo agli inizi, orientato a un tipo di universalismo differente da quello etnocentrico, caratterizzante invece l’Europa del XX secolo.
L’analisi di questa potenzialità consente di comprendere come forma e contenuti dei processi culturali dipendano dal contesto storico-sociale che li origina; ciononostante, una volta avviati, questi processi funzionano come “testi” che incidono sulle mappe cognitive dei loro “lettori”, con l’effetto che possono modificare la società stessa. L’universalismo veicolato in parte dal sistema educativo moderno mostra come questa istituzione possa avere effetti molto differenti da quelli stabiliti dai suoi istitutori, ad esempio mettendo in discussione l’ordine sociale capitalistico; di questa potenzialità sono ben consapevoli i fautori della riforma neoliberista dell’istruzione, orientati a rafforzare l’addestramento tecnico a discapito della formazione critica.
La riflessione sulla discrepanza tra le intenzioni originarie di coloro che hanno contribuito storicamente alla formazione del sistema educativo moderno ed i concreti effetti sociali di quest’ultimo rappresenta un punto qualificante del mio lavoro: questa riflessione è stata resa possibile grazie a un approccio che, tra le altre cose, ha puntato alla declinazione sociologica di ciò che la filosofia ermeneutica di Ricoeur definisce il principio di autonomia del testo. Il ricorso a questo principio rende possibile individuare una strada innovativa per giungere all’integrazione del pensiero di Marx con quello di Weber, come accennavo in apertura.
Fiorenzo Parziale insegna Sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università di Roma «La Sapienza». Collabora con diverse riviste scientifiche come referee, coordina il comitato editoriale di «Teorie e Ricerche Sociali e Politiche» ed è direttore di «Sociologie». Tra le sue pubblicazioni più recenti: Società della conoscenza. Coordinate ideologiche e presupposti strutturali (2019); Modelli locali di welfare educativo e diseguaglianze tra le classi sociali nell’accesso all’università (2017); Eretici e Respinti. Classi sociali e istruzione superiore in Italia (2016).