“L’Unione economica e monetaria europea. Fondamenti, politiche, opzioni attuali” di Nicola Acocella

Prof. Nicola Acocella, Lei è autore del libro L’Unione economica e monetaria europea. Fondamenti, politiche, opzioni attuali, edito da Carocci: quando e come si sviluppa l’Unione economica e monetaria europea?
L'Unione economica e monetaria europea. Fondamenti, politiche, opzioni attuali, Nicola AcocellaLa storia delle istituzioni europee ne mostra l’evoluzione in termini sia di contenuto che di caratteri, specialmente rispetto all’equilibrio dei rapporti fra istituzioni pubbliche e private. L’ambito della cooperazione iniziale era ancora limitato nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951), ma questa Comunità era caratterizzata da attivo coordinamento e cooperazione fra i paesi, con l’imposizione di limitazioni al libero mercato. Questo orientamento si è evoluto verso uno di tipo quasi opposto, espresso dalla Comunità economica europea (usualmente detta Mercato comune europeo, 1957), costituita nel 1957, che ha sancito il ruolo predominante dei mercati. Il cambiamento sembrò nuovamente muoversi in senso opposto, con il piano Werner (1970), che indicava un ampio spettro di politiche comuni, ma questo non si tradusse mai in pratica. Alla fine, l’orientamento a favore dei mercati in tutti i campi, ad eccezione della politica monetaria e di alcuni vincoli alle politiche fiscali nazionali, si ripresentò con il Trattato di Maastricht (1992). La storia delle istituzioni e delle politiche europee. Il Trattato di Maastricht diede vita all’Unione Europea (UE) e all’Unione Monetaria Europea (UME). L’UE comprende ora 28 paesi (in attesa che si compia l’uscita del Regno Unito). L’UME nacque con 11 paesi e ne comprende ora 19.

Vanno notate la lunghezza del processo attraverso il quale le istituzioni europee hanno raggiunto la situazione attuale nonché la loro “incompletezza” dal punto di vista di istituzioni più “mature”, aventi una struttura federalista. L’incompletezza è evidente se si riflette sulla forte dose di decisioni rimaste ancora a livello nazionale, e quindi indipendenti fra loro, che interagiscono con le istituzioni comuni e si sovrappongono ad esse, fino spesso a dominarle. Incompletezza e lunghezza del processo possono forse spiegarsi con la storia di dura contrapposizione e di guerre fra i paesi che culminò nella Seconda guerra mondiale in contrasto con una comune tradizione e cultura, basata su fondamenti filosofici e religiosi largamente simili. Un impulso importante a qualche genere di cooperazione europea proveniva proprio dal tentativo di contrastare la tradizione di conflitti, nonostante la permanenza della memoria passata.

Quali sono le istituzioni dell’Unione economica e monetaria europea?
Le principali istituzioni dell’Unione economica e monetaria europea sono:

– il Parlamento europeo, che approva il bilancio e la Commissione e ne controlla l’attività;

– il Consiglio europeo, composto dai capi di stato o di governo degli stati membri e dal presidente della Commissione europea;

– la Commissione europea, composta di membri indipendenti designati dal presidente di comune accordo con i governi nazionali, con poteri di iniziativa, esecuzione, gestione e controllo;

– il Consiglio dell’UE, composto dai ministri degli stati membri responsabili per le specifiche aree previste dall’agenda della riunione;

– la Corte di giustizia, la Corte dei conti, la Banca europea degli investimenti e molte altre istituzioni più specifiche;

– la BCE, che non è peraltro a stretto rigore un’istituzione comunitaria, in quanto dotata di personalità giuridica indipendente. Tuttavia, il suo presidente è nominato per un periodo di otto anni non rinnovabili, da una maggioranza qualificata del Consiglio europeo, normalmente dai membri dei paesi UME.

Poche altre istituzioni, come l’unione bancaria, si sono aggiunte a queste dopo la crisi finanziaria. L’UME è dunque un’istituzione che si basa principalmente sull’unione monetaria e sull’operare dei mercati che dovrebbero consentire di raggiungere gli obiettivi di politica economica.

Quali interessi pratici si nascondono dietro le istituzioni europee?
In termini generali furono gli interessi di alcuni paesi (e di alcune istituzioni al loro interno) che influenzarono le decisioni dell’UME. Nel Consiglio dei ministri UE vi è spesso interazione e scontro tra idee e caratteri strutturali ed interessi. I paesi ricchi non si oppongono normalmente alle politiche suggerite a favore dell’integrazione, essendo più interessati a facilitarla, mentre i paesi minori tendono ad opporsi sotto l’influenza di qualche lobby interna, con l’astensione o il voto contrario alle proposte che arrivano al Consiglio. A nostro avviso, mentre questo è indicativo di opposti interessi, può riflettere un bias, dato che il potere dei paesi ricchi può accrescere la loro capacità di facilitare il cammino e la discussione delle loro proposte in quest’organo.

Ci riferiamo ora specificamente agli interessi della Germania. Fin dall’inizio, la Bundesbank fu cauta, se non critica, circa l’UME. Non era sola in ciò, perché una parte considerevole del pubblico tedesco, persone comuni ed esperti, erano scettiche in proposito, al momento della sua creazione.

La Germania tese ad affermare la sua autorità sugli accordi regionali come lo SME e, successivamente l’UME, nel primo caso in virtù della sua moneta forte e, quindi, dell’assenza di un vincolo di riserve. Durante lo SME, la Bundesbank imponeva la sua disciplina monetaria, ciò che causò due effetti: uno di segno positivo, dato che esso assicurò la disinflazione in Europa; uno negativo, legato al tasso di disoccupazione a due cifre sofferto dagli altri paesi europei e dal basso tasso di crescita dell’intera area. Ci sono molte ragioni per sostenere che, insieme ad altri paesi creditori, essa controllasse la politica economica europea, come nel rifiuto del Piano Werner. Inoltre, va considerato che il suo ruolo si rafforzò nel tempo, parallelamente al maggior potere negoziale acquisito dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione, in particolare con la richiesta di costituire una banca centrale avente la stabilità monetaria come obiettivo preminente.

Questo paese fu così capace di perseguire il suo basso interesse all’uso di politiche appropriate per eliminare le divergenze economiche di lungo periodo nella performance dei vari paesi, basandosi invece sui mercati e sulle istituzioni tendenti principalmente a garantire la stabilità monetaria e l’aggiustamento da parte dei paesi periferici. E sfruttò la sua posizione egemonica per ottenere privilegi nella richiesta di essere esentato per la sua violazione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) nei primi anni 2000, portando a nuove regole istituzionali. In realtà, questa posizione rimase nell’ombra, per la preferenza della Germania a rimanere dietro le quinte, almeno fino all’eruzione della crisi.

Nella più indulgente interpretazione della ‘visione’ tedesca sottostante l’UME, una moneta comune avrebbe potuto integrare le economie europee, facendole ulteriormente convergere in un certo periodo di tempo: l’unificazione monetaria avrebbe potuto assicurare i mutamenti strutturali necessari alla creazione di un contesto macroeconomico stabile: in particolare, dinamica salariale e dei prezzi (uniforme) e, al tempo stesso, un regime monetario meno stretto e reflazionistico. Comunque, il suo modello di crescita trainato dalle esportazioni la preservò largamente dal bias deflazionistico dell’UME. Al contempo, l’immagine speculare del suo surplus commerciale, ossia la sua posizione di paese creditore, le concedeva il potere di decidere le soluzioni della crisi per essa più convenienti

Alla Germania va sicuramente riconosciuta la capacità di creare al suo interno un sistema abbastanza potente da non soffrire del bias deflazionistico delle istituzioni UME, per la svalutazione reale operata dagli anni Novanta e poi continuata nei primi anni Duemila, e per il suo sistema di successo per la concorrenza in Europa (e in qualche misura al di fuori di essa) attraverso la qualità dei prodotti. Tuttavia, questi stessi meriti costituiscono atti di sfiducia verso la costruzione di una vera istituzione comune. La Germania potrebbe avere qualche giustificazione per l’inazione delle economie periferiche e le loro inefficienze, delle quali si dirà tra poco, ma ciò non basta ad assolverla.

A parte la Germania, gli atteggiamenti degli altri paesi furono influenzati, almeno in qualche misura, dalle valutazioni e dalle posizioni assunte da importanti gruppi di interesse. Nel Regno Unito il settore finanziario ebbe successo nell’ostacolare la partecipazione all’UME, che avrebbe colpito i suoi interessi, mentre in Italia sia il settore finanziario che quello industriale erano interessati ai benefici di lungo termine, anche se il secondo temeva nel medio periodo la perdita delle posizioni godute attraverso la periodica svalutazione del cambio.

I paesi periferici (gran parte dei paesi PIIGS, ossia Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) pensano tuttora di poter derivare qualche beneficio dal vincolo esterno dato dal tasso di cambio fisso e da altre istituzioni UME. Pur desiderosi di riformarne alcune, essi non hanno potere sufficiente per contrastare l’opposizione tedesca. Ciò aiuta a spiegare perché abbiano accettato molti cambiamenti istituzionali, come le incredibili norme contenenti vincoli asimmetrici nella Procedura per gli Squilibri Macroeconomici (PSM) e nel fiscal compact. La PSM fu introdotta nel 2011 e richiede che i paesi membri non soltanto si adeguino al PSC (che fissa il deficit di bilancio massimo), ma anche che regolino i propri squilibri di conto corrente, prescrivendo deficit non superiori al 4% del PIL nella media dei tre anni, laddove gli avanzi vanno contenuti entro il 6%. È chiaro allora che questa norma è stata ‘cucita’ sugli interessi tedeschi e olandesi, che hanno prevalso sugli altri, anche perché il limite privilegiato del 6% è stato in pratica superato ampiamente dalla Germania. Circa la politica fiscale, il PSC richiede bilanci in avanzo o in pareggio nel medio termine. Questo consente a paesi come la Germania di avere un surplus per lungo tempo, ciò che rende asimmetrica o deflazionistica l’eliminazione degli squilibri. Il fiscal compact del 2012 ha introdotto un impatto deflazionistico ulteriore su tutti i paesi, rendendo più difficile l’aumento delle entrate necessarie per uniformarsi al Patto ed implicando, a sua volta, un impatto deflazionistico sul resto dell’EZ.

Nell’enfatizzare il ruolo della Germania e l’interesse degli altri paesi in surplus alla creazione di una PSM asimmetrica e alla disciplina fiscale, non vanno dimenticate le molteplici pecche nella condotta dei paesi periferici. Questi hanno tollerato le inefficienze del settore privato e pubblico, che non sono state superate né prima né – in molti casi – dopo la crisi, come pure gli interessi del settore finanziario e delle costruzioni che portarono a favorire una crescita guidata dal credito e dagli aumenti dei prezzi delle attività.

Quali squilibri macroeconomici e microeconomici si sono determinati nell’UEM?
Secondo la contabilità nazionale l’eccesso degli investimenti sul risparmio può associarsi o ad un bilancio pubblico in avanzo o a deficit di conto corrente o ad entrambi. Viceversa, se il risparmio supera gli investimenti. Alla luce di questa precisazione possiamo tentare di indicare i principali squilibri sorti nell’UME dopo la sua costituzione. Una visione sommaria della crisi del debito sovrano in Europa sottolinea l’irresponsabilità fiscale e il mancato ricorso a politiche dal lato dell’offerta favorevoli alla competitività nei paesi del Sud dell’EZ. Questa è l’idea più diffusa degli squilibri esistenti, che può però essere messa in discussione con riferimento alla condotta fiscale di alcuni paesi periferici e anche all’analisi di altri squilibri macroeconomici, che rivelano aspetti e responsabilità differenti. Infatti, la crisi rifletteva una profonda divisione tra i surplus esterni (ma anche fiscali) del Nord e i deficit esterni del Sud, associati a deficit pubblici soltanto in alcuni paesi periferici.

Il quadro generale fino al 2007 era il seguente. In un primo gruppo di paesi (D, NL, A) sorgeva un problema per i bassi tassi di inflazione, che – data l’uguaglianza dei tassi di interesse nominali – incentivavano il prestito all’estero, in altri paesi UME. Controparte di ciò erano gli avanzi di conto corrente, scaturenti da politiche fiscali restrittive – che in realtà furono adottate soltanto dopo il 2003-4 – e dalla più bassa inflazione, che accresceva la competitività in tutti e tre i paesi. In qualche caso, come in Germania, si può parlare di una vera e propria strategia di crescita trainata dalle esportazioni (export-led) favorita da istituzioni sia private (sindacati ed imprese) sia pubbliche.

In un secondo gruppo (GR, P, e per un certo periodo anche IT), si avevano politiche fiscali dispendiose ed elevata inflazione che, da un lato, portavano a deficit di conto corrente e, dall’altro, stimolavano (o derivavano da) investimenti eccedenti i risparmi, associati a bolle nelle attività. Questo è un caso di crescita stimolata dal debito pubblico (credit-led).

Un terzo gruppo (S, IR e per un certo tempo IT) comprende i paesi con finanze pubbliche oculate, anche se gli elevati tassi di inflazione implicavano surplus nel conto capitale (e quindi deficit di conto corrente) insieme ad investimenti eccedenti il risparmio, associati a bolle nelle attività finanziarie e reali. Questo è ancora una volta un caso di crescita trainata dal debito (privato).

Pertanto i fattori alla base della crescita nell’UME furono due, esportazioni e debito, ma non tutti i governi dei paesi periferici accumularono o accrebbero squilibri pubblici, ciò che è vero per il secondo, ma non per il terzo, gruppo. Questo risultato confuta la tesi di una crisi del debito sovrano dovuta ai paesi periferici fiscalmente irresponsabili e incapaci di adottare politiche dal lato dell’offerta a favore della competitività, che è una tesi del tutto parziale. Il principale fattore trainante comune può essere indicato negli squilibri dei conti esteri. Ad esso si aggiunse la politica fiscale ‘facile’ di alcuni paesi e, d’altro canto, la parsimonia degli altri paesi si aggiunse nel senso opposto. Tuttavia, sia gli squilibri di conto corrente che quelli dei bilanci pubblici sono simmetrici e non può dirsi quale sia il gruppo di paesi sul quale ricade la responsabilità della situazione.

Il quadro può anche essere visto dal punto di vista dei saldi nei movimenti di capitale, simmetrico a quello dei movimenti correnti. L’accumulazione di debito da parte dei ‘peccatori’ greci ha allora un pendant nei termini dei ‘santi’ francesi e tedeschi. Infatti, all’opposto del peccato di coloro che prendevano a prestito vi è il peccato di coloro che irresponsabilmente prestarono il loro denaro a banche di dubbia solvibilità. Anche da questo punto di vista si può dire con Christine Lagarde che ‘il tango si balla in due’, ovvero, con De Grauwe, ‘per ogni debitore avventato deve esserci un creditore avventato’.

Gli squilibri nei conti con l’estero derivavano dunque da due fattori, che agivano, l’uno, sul conto corrente e, l’altro, sul conto capitale. Dal lato del primo, operavano differenze nei tassi di interesse e nelle politiche fiscali, come risultato di differenti politiche salariali e strutturali, come pure di politiche per il settore pubblico, nei due gruppi di paesi. Dal lato del secondo, i differenziali nei tassi di inflazione furono ancora una volta decisivi, in un contesto di unico tasso di interesse nominale, per effetto della moneta comune e dell’apparente scomparsa di rilevanti rischi paese. Pertanto, il fattore comune degli squilibri nei due conti era la più elevata inflazione della periferia.

Come si è sviluppata in Europa la Grande recessione?
La crisi europea fu innescata da quella americana, ma germogliò e si sviluppò in forme molto diverse. Molte istituzioni finanziarie europee – specialmente irlandesi e britanniche –erano esposte agli stessi rischi delle banche americane e soffrirono perdite totali anche maggiori dalla fine del 2007 alla fine del 2008.

Con l’unione monetaria i cambi erano diventati (irrevocabilmente) fissi e i mercati, forse troppo ottimisticamente, cessarono di percepire rischi paese, con conseguente quasi annullamento degli spread, nonostante la permanente divergenza dei tassi di inflazione. Il risultato fu di produrre tassi di interesse reali bassi (o anche negativi) in periferia. La libera circolazione dei capitali e la politica monetaria comune innescarono un processo di trasferimenti finanziari fra centro e periferia. I prestiti concessi a quest’ultima salirono a valori molto elevati, anche superiori al PIL, e vennero usati per operazioni speculative nel mercato immobiliare e azionario e per sottoscrivere titoli del debito pubblico, surriscaldando i settori interessati, con bolle speculative e stimoli alla crescita del reddito.

Le aspettative di elevata crescita reale del reddito derivante dalle bolle e dall’aumento del consumo convinsero le persone della sostenibilità del debito e resero flebili ed incerti i segnali relativi agli squilibri, non soltanto per i cittadini, ma anche per le banche e i policymaker. I lavori analitici di economisti di spicco contribuirono ad indurre a non curarsi degli squilibri di conto corrente.

L’assenza di regolamentazione finanziaria UME permise alle bolle di crescere. Il loro scoppio richiese l’intervento dei governi per il salvataggio degli intermediari finanziari e l’aumento dei deficit pubblici, minacciando l’intero sistema finanziario europeo. E l’assenza, ancora una volta, di politiche UME, obbligò i singoli paesi a risolvere da soli i problemi insorti, nonostante gli effetti deflazionistici per l’intera area che sarebbero derivati dalle politiche restrittive nazionali. Alcuni paesi PIIGS effettivamente adottarono politiche fiscali di questo genere, mentre altri preferirono mantenere la posizione precedente, ricorrendo invece a discutibili misure per accrescere la flessibilità del mercato del lavoro. La Grecia non modificò nessuna delle sUE politiche, con le conseguenze che conosciamo. Tuttavia, i differenziali di inflazione dei vari paesi con la Germania non diminuirono, per effetto della precedente riduzione dei salari attuata da questo paese nel 2003-4. Appropriate politiche salariali decise a livello UME avrebbero evitato l’insorgere virulento della crisi e, soprattutto, la sua evoluzione successiva.

Dalla fine del 2007 i capitali cessarono di affluire nei paesi PIIGS e dal 2009 ritornarono nei paesi di provenienza, con riduzione del leverage delle banche e delle imprese e la necessità di un intervento pubblico, con il conseguente appesantimento dei debiti sovrani di questi paesi.

Quali errate politiche hanno reso la crisi finanziaria nell’UEM più complicata che negli USA?
Praticamente tutta l’EZ, compresa la Germania, rispose alla crisi con una moderata politica fiscale espansiva, fino al 2010, agendo relativamente poco e troppo tardi. Tuttavia, si può dire che ciò che mancò fu la reazione da parte dei policymaker europei agli squilibri che si venivano profilando prima della crisi. Quanto alle decisioni successive, si dovrebbe invece parlare di un atteggiamento ‘eccessivo, prematuro e, soprattutto, errato’. Infatti, all’emergere di un problema di debito pubblico alcuni paesi europei reagirono con un orientamento fiscale restrittivo. Si decise allora di rafforzare il PSC con il fiscal compact nel 2012, ma la sua applicazione non ha conseguito i risultati voluti, ossia la riduzione dei rapporti deficit/PIL e debito/PIL. In effetti, la prima ondata recessiva è stata seguita da un’altra. Questa doppia recessione ha ridotto il denominatore di questi rapporti, evocando lo spettro di una crisi futura di fiducia. Nei sette anni fino al 2014, data nella quale esso ha raggiunto il suo massimo livello, il rapporto debito/PIL è sempre salito, non soltanto nei paesi periferici, ma pure in Germania, anche se in questo paese il picco è stato raggiunto nel 2010. Furono ampiamente sottostimati gli effetti negativi sull’attività economica reale provocati dall’adozione di una politica restrittiva nel mezzo di una recessione.

Il peso delle politiche espansive cadde allora sull’azione monetaria. In complesso questa fu espansiva fino all’aprile 2011, quando iniziò una prematura cessazione della sua azione. Un mutamento cruciale della politica monetaria cominciò soltanto nel luglio-settembre 2012. Certamente esso fece seguito ad un periodo di tassi di inflazione decrescenti e all’emergere di segnali di deflazione. È merito del Presidente Draghi di averli notati chiaramente e – dopo aver dichiarato a Londra nel luglio di quell’anno che ‘nei limiti del suo mandato, la BCE è pronta a compiere tutto ciò che è necessario (il famoso ‘whatever it takes’) per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente’ – la BCE decise di intraprendere un nuovo programma, sostanzialmente simile a quello di ‘alleggerimento quantitativo’ (quantitative easing) degli USA e di altri paesi.

Nel 2013 la BCE introdusse la forward guidance sotto una forma di durata non specificata, ma la semplicità dell’obiettivo primario perseguito dalla BCE (mantenere l’inflazione al di sotto del, ma vicino al, 2% nel medio periodo) rende abbastanza evidente che non si trattava tanto di un annuncio di tipo ‘delfico’ (ossia ambiguo), quanto, o forse maggiormente, di un impegno ‘odisseico’ (ossia, fermo).

Nonostante queste profonde differenze con l’esperienza USA, le misure monetarie non convenzionali adottate dalla BCE prima del 2015 ebbero effetti benefici, contribuendo all’aumento della liquidità, ad una minore volatilità dei finanziamenti bancari e ad un aumento dell’offerta di credito, similmente a quanto avevano fatto le misure non convenzionali negli USA. Inoltre, fermarono la componente speculativa degli spread fra i tassi dei titoli pubblici dei paesi PIIGS e quelli dei Bund tedeschi. Comunque, la crisi dell’EZ avrebbe potuto avere uno sviluppo diverso se la BCE si fosse impegnata prima ad un sostegno del debito sovrano illimitato e se fosse stata sostenuta da adeguate politiche fiscali.

Queste furono manovrate al livello dei singoli paesi, con effetti deflazionistici dovuti ai vincoli e alle restrizioni imposte dalle istituzioni preesistenti e dalle regole aggiunte dopo il 2011. Un ulteriore componente del loro impatto deflazionistico deriva dall’effetto della fallacia di composizione. Questi effetti furono rafforzati dal limite all’efficacia degli stabilizzatori automatici derivante dal PSC e dal fiscal compact.

Quali le possibili linee di riforma per le istituzioni UME?
Articolerò la risposta per le varie politiche economiche.

  • Politica monetaria.

Circa il ruolo della BCE e la sua missione è necessario discutere della misura non ottimale dell’obiettivo di inflazione, che risulta basso e restrittivo quando si tenga conto della recente letteratura economica. Esso dovrebbe aumentare ad un livello all’incirca del 4% ed è infondata la preoccupazioni circa uno slittamento progressivo delle aspettative di inflazione tale da non assicurarne l’ulteriore controllo.

Tra i benefici di un obiettivo superiore vanno considerati non soltanto l’effetto diretto di una politica monetaria più espansiva sugli altri obiettivi di politica (in particolare in quanto abbassa ulteriormente il tasso reale di interesse, nonostante l’azzeramento di quello nominale), ma anche la riduzione del valore in essere del debito pubblico (e privato). Esistono indubbiamente anche costi, come quello di una possibile tempistica inappropriata nell’attuazione di un più elevato tasso di inflazione, che può generare o alimentare bolle nei mercati delle attività. Vi sono poi distorsioni, che potrebbero riguardare la tendenza ad un aumento della liquidità detenuta o la riduzione del potere di acquisto dei percettori di redditi fissi che non siano protetti. Queste distorsioni sono innegabili, ma il costo netto dell’indicato aumento dell’obiettivo di inflazione non dovrebbe essere positivo, se si tiene conto anche dei costi che deriverebbero dalle politiche alternative disponibili per ridurre il debito esistente. Ad esempio, la più elevata tassazione diretta o indiretta occorrente per il consolidamento fiscale implicherebbe distorsioni nell’allocazione delle risorse. I benefici dovrebbero essere invece certamente maggiori.

L’insieme di operazioni consentite alla BCE per conseguire i suoi obiettivi dovrebbe includere non soltanto l’emissione di moneta, ma la funzione di prestatore di ultima istanza per i governi e di supervisione del settore finanziario al fine di evitare crisi. Invece, la regolamentazione o supervisione del debito sovrano è un compito che dovrebbe essere svolto da una diversa autorità, ad esempio, la Commissione europea. Se la funzione di prestatore ultimo per i governi non dovesse essere accolta, un’opzione di secondo ottimo potrebbe essere quella di mantenere e formalmente dichiarare la liceità degli interventi di sostegno al debito pubblico svolti sui mercati secondari, superando le critiche rivolte alla BCE in proposito.

Un problema ulteriore riguarda l’indipendenza della BCE, che, a nostro avviso dovrebbe essere limitata al semplice uso degli strumenti. Da un punto di vista pratico, l’indipendenza politica – ossia quella riguardante la scelta degli obiettivi – non è una condizione né necessaria né sufficiente per la stabilità monetaria, anche se essa può essere ritenuta appropriata per alcuni paesi, ad esempio per quelli emergenti. Oltretutto, molte banche centrali, come la Bank of England, sono dipendenti politicamente, ma hanno assicurato la stabilità monetaria. Comunque, l’attuale situazione di indipendenza politica non è senza costi, dato che può implicare un più elevato tasso di disoccupazione. Oltretutto, essa è sempre favorita dal settore finanziario, che dimostra una più bassa preferenza per l’inflazione.

La distanza della BCE da altre banche centrali è ancora notevole, da vari punti di vista, principalmente da quelli degli obiettivi e della responsabilità. Una possibile indicazione sarebbe di adottare per la BCE una soluzione simile a quella della Federal Reserve, che, oltretutto, può mostrare un notevole impatto positivo sulla performance economica USA. Anche la Fed è indipendente politicamente. Tuttavia, la maggior differenza sta nel fatto che è essa (non qualche statuto) che fissa il suo obiettivo di inflazione, insieme ad altri obiettivi, ossia occupazione e stabilità finanziaria. Questo implica che la Fed può in qualche misura essere aperta all’influenza del governo e alle necessità che derivano dal sentiero effettivamente seguito dall’economia. La sua responsabilità è assicurata dalla trasparenza delle decisioni (i verbali delle riunioni dei suoi organi sono pubblici), dalle testimonianze dei suoi responsabili davanti al Congresso e dalla sottoposizione a questo di un rapporto semestrale sugli sviluppi economici recenti e sui suoi programmi di politica monetaria. Infine, mentre il Congresso può censurare la sua azione e modificarne lo Statuto, quello della BCE può essere cambiato soltanto da riforme del Trattato di Maastricht. Su un versante molto diverso, sorge il grave problema della responsabilità della BCE come conseguenza della sua indipendenza politica, in quanto essa è retta da persone non elette, diversamente dai governi, anche se la loro azione può somigliare a quella di un Leviatano. In particolare, ci appare inconcepibile che persone non elette possano disfare ciò che i governi cerchino di fare al fine di evitare l’insolvenza dell’EZ. Va peraltro riconosciuto che in occasione della crisi recente, la BCE ha agito con abbastanza successo, il carattere parziale del quale è dovuto soltanto alla limitata efficacia dell’azione monetaria per sollevare l’economia dalla recessione.

  • Politiche macro-prudenziali.

In Europa operano autorità di regolamentazione finanziaria sia nazionali sia europee. Le prime sono le banche nazionali di alcuni paesi (ad esempio, Belgio, Irlanda e Regno Unito) o apposite autorità separate (Francia, Germania, Italia), che coordinano l’azione di altre istituzioni preposte alla regolamentazione micro- o macro-prudenziale in aree specifiche (banche, altre istituzioni finanziarie). Anche a livello UE operano diverse istituzioni, fino a poco tempo fa con assenza di una istituzione comune per la supervisione. Sotto l’impulso della crisi finanziaria sono state create nel 2009-2010 e successivamente: l’Autorità bancaria europea (ABE), con la finalità di assicurare il funzionamento ordinato, l’integrità dei mercati finanziari e la stabilità del sistema nell’UE, avente il potere di condurre prove di resistenza (stress test) sulle istituzioni finanziarie a livello europeo, volte ad accertarne la resistenza ad avversi sviluppi dei mercati e il contributo al rischio sistemico (ossia al rischio che l’insolvenza o il fallimento di uno o più intermediari finanziari porti a generalizzati fenomeni d’insolvenza o fallimenti a catena di altri intermediari. Generale); il Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS), organo indipendente presieduto dal Presidente della BCE, parte del Sistema europeo di supervisione bancaria, che coordina le autorità dei paesi membri analizza i dati capaci di indicare l’esistenza di rischio sistemico e li segnala ai paesi stessi.

Il Rapporto Liikanen del 2012 chiedeva per le grandi banche la separazione delle attività bancarie tradizionali da quelle di investimento al fine di ridurre i rischi e proteggere in particolare gli investitori a breve termine. Esso fu osteggiato specialmente dalle banche tedesche, tanto da indurre il Consiglio a chiedere alla Commissione europea di ritirare la proposta di attuarlo in qualche misura, cosa che è avvenuta nel 2017.

Il Meccanismo unico di vigilanza (MUV) creato nel 2014, che affida alla BCE nuovi poteri vincolanti di vigilanza micro-prudenziale (mentre i poteri del Sistema europeo di supervisione bancaria non sono vincolanti) nell’ambito dell’Unione bancaria aggiunge queste funzioni alla politica monetaria a livello dell’UE. I ruoli relativi del MUV e del CERS, però, non sono molto chiari e manca qualche coordinamento tra i due organismi.

Alcune funzioni macro-prudenziali sono state spostate dal livello nazionale a quello UE, mentre altre rimangono competenza delle BCN o di autorità specifiche. Ora la BCE può applicare misure macro-prudenziali ed è responsabile, insieme alle autorità nazionali, della politica relativa nell’EZ e negli altri paesi aderenti al MUV. Per affrontare rischi sistemici la BCE può introdurre più elevati vincoli di riserve, rapporti settoriali di leverage, ecc. A breve dovranno essere applicate le nuove norme redatte dalla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea che vanno sotto il nome di Basilea IV (ossia, il Quarto accordo di Basilea) del 2017.

Nel 2013 il peggioramento della crisi ha indotto le autorità europee a creare un percorso verso l’Unione bancaria. Questa stabilisce il principio della vigilanza unica per sostituire parzialmente la supervisione e la regolamentazione nazionale. Essa stabilisce di: regolamentare le operazioni bancarie; ristrutturare le banche in difficoltà; interrompere il legame banche-sovrani che ha prolungato la crisi; condividere i rischi a livello UE. Nel 2014 questi principi sono stati applicati alle 150 più grandi banche dell’EZ sistemicamente importanti, ma possono aggiungersi altre banche esterne all’EZ.

Nel 2014 sono state decise nuove regole per le risoluzioni bancarie (bail-in), al fine di ridurre l’azzardo morale dei manager e i costi delle risoluzioni per i contribuenti connessi con i bail-out, attribuendo i costi stessi ad azionisti, titolari di titoli e depositanti con depositi superiori ai 100.000 euro. Infatti, la gran parte dei paesi UE ha già introdotto un Sistema di Garanzia dei Depositi finanziato dalle banche, al di sotto di questo importo. Inoltre, la creazione di un sistema comune di risoluzione delle banche potrebbe esimere gli stati nazionali dalla necessità di salvataggio del loro sistema bancario nazionale.

Come ulteriore passo verso una completa e articolata unione bancaria, nel novembre 2015 la Commissione ha proposto l’introduzione di un Sistema europeo di assicurazione dei depositi (SEAD), che dovrebbe garantire un più forte e uniforme grado di protezione di tutti i piccoli depositanti nell’Unione bancaria. Nell’ottobre 2017 l’applicazione del sistema è stata rinviata dalla Commissione, che ha ritenuto necessario accompagnare le proposte di condivisione dei rischi, contenute nel SEAD, con quelle di riduzione dei rischi.

Le politiche macro-prudenziali possono essere molto utili quando operatori altamente indebitati si sentano improvvisamente insicuri con il peso del loro debito e cerchino rapidamente di ridurlo, insieme alle loro spese. Un crollo può essere evitato soltanto se qualcuno spende di più per compensare questa riduzione delle spese. In caso contrario, può sorgere una trappola della liquidità ed anche l’azzeramento del tasso di interesse nominale può non indurre a spendere in modo sufficiente. Politiche macro-prudenziali ex ante – come la fissazione di limiti di debito – possono agevolare la riduzione del leverage, mentre sarebbero meno efficaci le politiche monetarie restrittive.

In un’unione monetaria le politiche macro-prudenziali sono utili a livello dell’Unione, a meno che non vi sia bassa probabilità di squilibri e questi si trasmettano a quel livello. La politica macro-prudenziale a livello UE è particolarmente necessaria nella situazione attuale, perché una politica monetaria espansiva prolungata potrebbe alimentare squilibri finanziari comuni. Le politiche macro-prudenziali a livello di paese possono coadiuvare la politica monetaria, supplendo all’assenza di una politica monetaria nazionale, affrontando i rischi locali ed evitando la formazione di bolle senza alterare la politica monetaria espansiva.

  • La politica fiscale.

Per lungo tempo soltanto pochi economisti sono stati favorevoli alla politica fiscale riconosciuta ancora di recente come strumento potente per combattere le crisi. È ora tempo di introdurre un nuovo impianto della politica fiscale, distinguendo: le scelte contingenti, legate ad esempio alla stabilizzazione, nell’ambito delle istituzioni vigenti ed eventualmente soltanto con variazioni marginali; i mutamenti istituzionali in generale; l’introduzione del federalismo fiscale; le politiche per il debito.

La questione più importante delle politiche di stabilizzazione con le istituzioni correnti si riferisce alla scelta dei paesi che dovrebbero sostenere il costo dell’aggiustamento. Attualmente, il peso ricade sui paesi in deficit, ai quali si chiede di osservare il PSC e il fiscal compact, con il rischio che ciò acceleri la crisi. Da un punto di vista astratto potrebbero pensarsi azioni coordinate espansive tra i diversi paesi al fine di aiutare i paesi più indebitati a conformarsi alle regole del fiscal compact. Si oppongono a ciò, anzitutto, visioni, strategie ed interessi di altri paesi, che richiedono il rispetto delle regole, magari dopo averle trasgredite essi stessi o che perseguono strategie export-led (ad esempio, la Germania) o adottano politiche che riversano le difficoltà sui vicini (è il caso di Belgio, Lussemburgo, Olanda, Regno Unito, che adottano ‘regolamenti fiscali’ di favore). Inoltre, gli effetti espansivi di politiche fiscali coordinate potrebbero essere frustrati da politiche monetarie restrittive, ciò che richiama la questione del coordinamento tra i due strumenti. Nel lungo periodo è chiaro che si debba giungere ad un’unione fiscale, ma è anche importante il percorso da seguire nel prossimo futuro. Timidi passi in questa direzione sono effettivamente visibili, come nel cosiddetto Rapporto dei cinque presidenti del 2015, in merito all’attuazione di interventi di stabilizzazione comuni in caso di shock che non possano essere affrontati soltanto a livello nazionale e alla preparazione per l’unione fiscale. Ma una simile prospettiva è stata fortemente osteggiata da un ampio gruppo di membri dell’EZ e di altri paesi UE, che configurano a nostro avviso una moderna ‘Lega anseatica’.

Nel concepire le funzioni di un bilancio comune è utile la teoria della finanza pubblica, valida anche nel caso di federalismo fiscale. Esse includono: a) stabilizzazione a livello EZ dei paesi colpiti da shock asimmetrici nel breve periodo e crescita nel medio-lungo periodo, con la destinazione di una parte delle spese pubbliche ad investimenti comuni; b) allocazione, in particolare attraverso fondi strutturali; c) redistribuzione, ad esempio, attraverso uno stato sociale comune e fondi regionali. Queste funzioni dovrebbero essere garantite anche da deficit spending e dal rafforzamento degli stabilizzatori fiscali a livello EZ (per shock comuni) o di trasferimenti (per crisi idiosincratiche), introducendo così la condivisione dei rischi. Il livello del bilancio UE dovrebbe essere aumentato del 2-3% nel breve periodo per avere un effetto espansivo pur minimo, ma nel medio-lungo periodo esso dovrebbe raggiungere livelli dell’ordine di grandezza di quelli degli stati federali, Germania ed USA, circa del 15-20% del PIL. Per cominciare, esso potrebbe essere dedicato al finanziamento di progetti a livello UE per infrastrutture comuni, al fine di stimolare la crescita, con esito tanto maggiore quanto più continuerà l’atteggiamento accomodante della politica monetaria. In caso di opposizione dei membri dell’UE, ma non dell’EZ, si dovrebbe creare un livello di bilancio comune limitato all’EZ. Quanto alla redistribuzione, dovrebbe essere fattibile un sistema di trasferimenti a favore dei paesi in crisi.

Oltre a svolgere le funzioni tradizionali di un bilancio, un disegno federale può avere molti altri vantaggi, garantendo una vera unione politica e decisioni comuni da parte dei rappresentanti di diversi paesi, piuttosto che di persone non elette e dei mercati; eviterebbe anche movimenti di capitale destabilizzanti nell’EZ; favorirebbe, infine, accordi efficaci e piani di investimento comuni con i paesi di origine dell’emigrazione, riducendone la pressione, almeno nel medio-lungo periodo.

Al fine di ridurre il rischio di insolvenza dei governi derivante dal debito pubblico eccessivo e rafforzare la capacità di contrastare rilevanti shock economici si possono adottare politiche miranti a: i) evitare aumenti di debito o ridurre il loro livello attuale; ii) diminuire il debito posseduto dalle banche per ridurne la possibilità di insolvenza; iii) limitare il rischio di insolvenza del governo rendendo più sicuro il debito.

  • La politica salariale.

Ogni discussione in proposito deve affrontare almeno i seguenti tre temi, collegati fra loro: i) variazione dei salari necessaria per affrontare la crisi, nei paesi sia periferici sia del centro; ii) adeguamento dei salari fra i paesi per far fronte alle asimmetrie esistenti fra loro; iii) politica salariale nell’Unione in tempi normali.

Al contrario che per i paesi periferici, nulla è stato chiesto per correggere l’eccessiva moderazione dei salari nei paesi del centro, che è un problema molto più grave, essendo all’origine delle divergenti strategie di crescita, oltre che degli squilibri nell’EZ. Questo discorso è anche funzionale alla costruzione di una strategia comune di sviluppo (che superi l’attuale divisione tra modelli export-led e demand-led o credit-led) e all’eliminazione degli squilibri fra centro e periferia.

Circa la politica salariale in tempi normali, l’UME non ha incoraggiato un ruolo attivo dei sindacati nella fissazione dei salari, suggerendo invece talvolta l’indebolimento della contrattazione collettiva, con l’infondata argomentazione che questa privilegi alcuni gruppi di lavoratori e provochi disoccupazione strutturale, come sarebbe accaduto nel Sud-Europa.

Il raggiungimento dei vari obiettivi di politica economica richiede un uso coordinato dei differenti strumenti, seguendo i precetti della teoria della politica economica. A questo fine è necessaria la specificazione delle interrelazioni fra gli effetti di ogni politica. I vari strumenti possono essere fra loro sostituti o complementi. Di particolare rilievo sono il coordinamento: a) fra politica monetaria e macro-prudenziale; b) fra politica monetaria e salariale; c) fra politica monetaria e fiscale; d) con i paesi esterni all’UME.

  • Politica macroeconomica e microeconomica.

Le politiche micro sono normalmente complementari a quelle macro (raramente ne sono sostituti) e vanno attuate perciò in aggiunta ad esse. Nessuna analisi delle seconde può stare in piedi senza uno studio parallelo delle politiche microeconomiche. Queste possono perseguire molteplici obiettivi, come: sostegno al benessere e alla coesione sociale, anche attraverso più elevata occupazione e crescita; riduzione delle distorsioni e di asimmetrie e squilibri all’interno dell’Unione, compresi quelli regionali e, quindi, superamento degli shock simmetrici o asimmetrici o riduzione della loro estensione ed impatto, favorendo la crescita sostenibile; regolazione del credito e fornitura di pubblici servizi.

Alcune riforme possono non richiedere costi per l’EZ nel suo complesso e necessitano soltanto di emendamenti di leggi o regolamenti per il coordinamento delle varie politiche, come nel caso di alcune politiche fiscali e dell’antitrust. Queste ultime, insieme alla politica industriale, tendono ad evitare distorsioni dovute a concorrenza sleale o dumping fiscale e sono attuate con severità. Tuttavia, le norme antitrust e le politiche di armonizzazione fiscale formale possono essere – e sono – spesso eluse. Infatti, oltre ai casi di veri e propri paradisi fiscali formali, ci sono le pratiche ricordate dei cosiddetti ‘regolamenti fiscali’.

Al contrario, molte politiche micro richiedono normalmente fondi ed è per questo che il loro ambito di applicazione è attualmente del tutto limitato a livello dell’EZ, data la ristrettezza del bilancio, che è del tutto inadeguato per i numerosi compiti attribuitigli, per non parlare di quelli ulteriori che potrebbero essergli affidati, coerentemente con le funzioni di un bilancio pubblico delle quali si è detto.

La complementarità fra strumenti micro e macroeconomici va ulteriormente chiarita. I primi possono rendere più efficaci i secondi. Si pensi all’impatto che politiche regionali, strutturali, industriali e del lavoro potrebbero avere sui determinanti degli squilibri e sulla reazione dell’economia europea a shock simmetrici ed asimmetrici.

Molta attenzione va posta sulla scansione temporale delle singole politiche microeconomiche. Anche se facilitano il conseguimento dell’obiettivo di crescita e di altri obiettivi, esse sono spesso costose nel breve periodo, tanto più se attuate in una fase discendente del ciclo economico. L’effetto negativo di breve periodo del piano di consolidamento fiscale attuato da un paese potrebbe essere bilanciato da riforme strutturali, che tuttavia vanno differite a periodi non di crisi, proprio per evitarne l’effetto negativo.

Altre riforme sui mercati del lavoro e dei prodotti possono colpire alcuni gruppi nel breve periodo, anche se altri ne beneficiano, e possono pertanto non essere fattibili da una prospettiva di political economy, a meno di non essere opportunamente congegnate.

Quale futuro, a Suo avviso, per l’Unione?
Considerando le valutazioni negative sulla posizione concorrenziale di alcuni paesi nell’UME nonché la cattiva performance dell’intera Unione e le prospettive di una futura crisi, si aprono le seguenti quattro possibilità, delle quali parleremo nell’ordine: a) smembramento (break-up) dell’UME; b) variazioni interne all’Unione che tengano conto delle diverse velocità dei vari paesi; c) uscita dei paesi meno (o più) competitivi; d) adozione di riforme strutturali delle istituzioni e delle politiche UME.

Uno smembramento (più che l’uscita di uno o di alcuni paesi) può avvenire in un modo più o meno caotico. Esso può derivare dall’uscita di un paese, specialmente a seguito di una crisi come la Grande recessione, che causi un effetto domino su altri paesi in posizione simile. Si trattava di una prospettiva abbastanza probabile nei giorni peggiori della crisi greca, che avrebbe potuto ridurre l’EZ a pochi membri, e che potrebbe profilarsi ancora a seguito di eventi simili.

L’UE a diverse velocità può configurarsi con diverse modalità: i) a geometria variabile, una realtà invero già attuale, dato che circa 1/3 dei membri UE non fanno parte dell’EZ e alcuni non partecipano nemmeno agli Accordi di Schengen (Irlanda e Regno Unito) o ad una serie di accordi intergovernativi; ii) à-la-carte, come la concessione di periodi di transizione o di deroghe temporanee, del tipo del diritto permanente concesso alla Danimarca e al Regno Unito di rimanere fuori dall’UME; iii) a più velocità con la concessione di periodi di transizione e deroghe temporanee ad obiettivi comuni; iv) a più velocità con ‘monete parallele’, come una nuova dracma o una nuova lira, insieme all’euro, oppure un euro flessibile .

L’uscita dei paesi deboli trova molte giustificazioni, come la scarsità dei vantaggi economici per i paesi partecipanti all’EZ, accentuata dall’impatto negativo della crisi derivante dai cambi fissi, che tendono ad accentuarlo. L’uscita consentirebbe l’uso della politica monetaria e quello pieno della politica fiscale, nonché la svalutazione del cambio e, quindi, un miglioramento della competitività, in particolare nei confronti della Germania, che gode di una sottovalutazione del suo cambio reale rispetto all’Italia dell’ordine del 20-24%, secondo alcuni o anche maggiore, secondo altri. Per alcuni autori, dopo uno stress iniziale in termini di bilancia dei pagamenti, appropriate misure di politica potrebbero portare l’Italia, entro il termine di 5 anni, ad una ripresa della crescita a tassi ragionevoli, con minore disoccupazione e un ridotto rapporto debito pubblico/PIL.

I critici dell’uscita notano che il sollievo derivante dall’uscita sarebbe di breve durata, per l’inflazione di salari e prezzi derivante dalla svalutazione. Il processo inflazionistico potrebbe essere così elevato da produrre un impatto negativo su distribuzione e coesione sociale, come è avvenuto nel passato, ad esempio per la lira e la sterlina dopo il 1992 nello SME. Inoltre, gli spread aumenterebbero, con effetti negativi sul debito. Il debito pubblico e privato denominato in euro aumenterebbe in termini della nuova moneta, come i crediti verso stranieri.

Le riforme per consolidare l’Unione possono prevedere politiche espansive nei paesi del centro o emissione di Eurobonds (o titoli simili) o completamento dell’Unione bancaria. Tali politiche richiederebbero l’assenso dei paesi del centro, che agiscono da egemoni o da leader. I governanti tedeschi dovrebbero convincere il loro elettorato che simili politiche potrebbero risultare nel loro interesse di lungo periodo. Infatti, esse possono costituire la premessa di politiche più cooperative, tali da portare al completamento dell’Unione e ad una crescita più rapida ed uniforme, oltre che evitare soluzioni alternative come l’uscita di qualche paese periferico, che potrebbe anche dimostrarsi nociva per gli interessi tedeschi.

Ulteriori riforme potrebbero richiedere un aumento cospicuo del bilancio UE, come sembra essere quello proposto da Juncker nel settembre del 2017, ma i precedenti non sono incoraggianti, se si guarda al fiscal compact e alla PSM.

Da ultimo, la crisi ha portato ad un ritorno alla primazia di gretti interessi economici nazionali nella governance europea, che implica l’impossibilità di realizzare un’unità politica come premessa dell’unificazione fiscale. Forse il cambiamento di alcune istituzioni e dell’atteggiamento egemonico di alcuni paesi come la Germania potrebbero essere di aiuto. Dovrebbe essere ridotto anche il coinvolgimento nelle decisioni politiche e nella capacità di comminare punizioni da parte di persone non elette, come la Commissione UE e la BCE o, ancora peggio, dei mercati.

Il superamento del deficit democratico nell’UE potrebbe essere realizzato attraverso alcune regole minime, come una maggiore trasparenza delle motivazioni e degli effetti delle decisioni, in particolare quanto alle categorie che ne beneficerebbero e quelle che ne sarebbero colpite. Tra le riforme possibili, vi sarebbe l’elezione della Commissione europea o indirettamente attraverso il Parlamento europeo o direttamente da parte dei cittadini UE. Quanto alla BCE, ove si confermasse la sua indipendenza si può pensare almeno di sottoporla a qualche genere di supervisione da parte o del Parlamento UE e dell’Eurogruppo e/o dei parlamenti nazionali dei paesi membri. Infine, i fondi di salvataggio e i programmi di austerità potrebbero essere soggetti ad approvazione e controllo dei parlamenti nazionali o a referendum di ratifica.

Un superamento del deficit democratico richiederebbe perciò non soltanto un mutamento nell’orientamento e nelle modalità delle decisioni correnti, ma anche e principalmente un mutamento radicale nelle istituzioni UME, invero difficile da concepire ed attuare in assenza di una reinvenzione della politica socio-economica della UE di concerto con le persone e in modo da creare un forum pubblico per discutere i problemi in una prospettiva comunitaria.

Uno stato democratico deve rispettare la volontà dei suoi cittadini, ma anche essere efficiente sia nei loro interessi sia per preservarlo dagli attacchi di coloro che preferirebbero una soluzione dittatoriale. Da questo punto di vista, dovrebbero essere attuate molte riforme. Dovremmo ricordare in proposito tutti i suggerimenti contenuti nelle pagine precedenti. Da un punto di vista metodologico, un punto di partenza è offerto dalle istituzioni esistenti, che andrebbero cambiate nella direzione da noi tracciata. Elementi chiave possono essere: un rilancio delle Orientamenti generali per la politica economica; l’estensione del Dialogo europeo macroeconomico, in particolare attraverso riunioni a livello EZ che coinvolgano l’Eurogruppo e il Presidente della BCE nonché le organizzazioni europee dei partner sociali. Altri passi essenziali sulla via dell’implementazione di tutte le riforme suggerite sono:

– l’estensione degli strumenti macro-prudenziali oltre il settore bancario e il completamento dell’unione bancaria;

– l’accrescimento del bilancio UE e possibilmente la creazione di un bilancio separato dell’EZ, come premessa ad altre azioni, come le linee guida del Dialogo macroeconomico;

– la nomina di un Ministro comunitario per l’economia e le finanze, come riforma complementare alla creazione di un’unione fiscale, in quanto capace almeno di individuare alcune azioni preliminari e fattibili che potrebbero facilitarla;

– il Semestre europeo dovrebbe concentrarsi maggiormente su alcuni obiettivi e le sue conclusioni dovrebbero essere vincolanti e prevedere multe o altro genere di penalità;

– il compimento di passi per la modifica delle regole fiscali in modo da assicurarne la natura anticiclica e simmetrica tra paesi in surplus e in deficit, con moniti della Commissione rivolti anche alla Germania e agli altri paesi in surplus, che chiariscano la necessità di applicare sanzioni nel caso di mancato rientro dal limite massimo di surplus di conto corrente previsto; questo concorrerebbe a disegnare una comune strategia di crescita insieme all’adozione di regole salariali comuni, riducendo tutti i fattori sottostanti gli squilibri monetari e le bolle nelle attività;

– i salari nominali non dovrebbero variare in modo inappropriato, con profonde differenze tra i vari paesi con aumenti bassi nei paesi del centro (ed eccessivi negli altri); dovrebbero invece seguire la norma del tasso di variazione della produttività aumentato del tasso di inflazione obiettivo della BCE;

– l’aumento della bassa dinamica della produttività in alcuni paesi, come l’Italia, che richiede (in aggiunta alle politiche strutturali – in particolare, le politiche di riforma dei mercati dei prodotti – e agli incentivi all’innovazione) l’attuazione di opportune politiche dei redditi, vincolando molte prestazioni dell’UE all’attuazione di queste norme;

– mutamenti delle regole monetarie per rendere la BCE più responsabile, riformando il Trattato di Maastricht (in modo che il Parlamento europeo possa almeno censurarne le operazioni, come accade per la Fed) e per accrescere gli obiettivi che essa dovrebbe perseguire (includendovi occupazione e crescita), cosa che è indubbiamente molto difficile, ma che richiede almeno il compimento di qualche passo in questa direzione.

La maggior parte di queste proposte può avere qualche possibilità di attuazione soltanto in presenza di un sostegno politico sufficiente da parte dei paesi membri. Tuttavia, si può dubitare di questa possibilità, per l’opposizione non soltanto della Germania e della ‘Nuova lega anseatica’, ma anche di altri paesi, nei quali crescono gli orientamenti populistici.

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